Anna Voltaggio, la luce dell’irrequietezza e l’altrove

Un linguaggio puntuale, che all’improvviso si distorce, e lacerti di esistenze strappate alla realtà nelle pagine del debutto di Anna Voltaggio, “La nostalgia che avremo di noi”. Tra citazioni cinematografiche e topoi letterari, in scena brevi storie, fotografie di incompiuti, specchi che alludono ad altre realtà…

È curioso questo libro di esordio di Anna Voltaggio, questo La nostalgia che avremo di noi (144 pagine, 16 euro, Neri Pozza): è una raccolta di racconti e al tempo stesso non lo è, i personaggi sono sempre gli stessi, si ripropongono con ruoli diversi nei vari episodi; non è un romanzo, non esiste una trama di fondo che leghi le storie tra loro; e anche nei singoli frammenti narrativi, la trama è rarefatta, incidentale quasi, un passaggio veloce di dita lungo un filo di nylon, talmente veloce però, che le dita ne rimangono ferite, ustionate. La nostalgia che avremo di noi è piuttosto un racconto in forma di racconti, un affresco narrativo, una ragnatela di inquietudini in cui i personaggi rimangono appesi a penzolare per i gomiti, caviglie dondolanti nel vuoto e testa reclinata in avanti a scrutare l’abisso.

Giocare a dadi con la scrittura

Il racconto è diviso in 12 capitoli/storie, ognuno col nome del protagonista come titolo, tutti in prima persona, e di una tredicesima storia a chiusura, narrata invece in terza persona e intitolata col cognome del protagonista, Cartesio. Ed è proprio questa storia a dare la chiave metafisica di lettura dell’intera opera. Bernardo Cartesio è un sommelier che, a causa del Covid, perde l’olfatto e la sua infallibilità come annusatore di vini del Dama, un ristorante da cinque stelle Michelin. Cartesio “nella luce fioca della cantina sembra un danzatore e i suoi occhi si fanno acuti quando guardano le bottiglie del Dama. Le bottiglie sono distese sugli scaffali in una geometria rigorosa, oltre duecento etichette che Cartesio ha selezionato con la cura del collezionista.” Cartesio, che non può che muoversi lungo le caselle del Dama, perde la sua scommessa con la razionalità, perde il lavoro e si ritrova in una sala d’albergo dove si gioca a dadi, ma non si scommettono soldi: ci si gioca il coraggio; è un gioco dove bisogna dubitare delle nostre convinzioni, dove bisogna “provare i dadi per lasciare andare le illusioni e accettare la sconfitta”. Così da poter vedere cosa c’è oltre.
È questa la scommessa di Anna Voltaggio, accettare che si possa giocare a dadi con l’universo della scrittura, per varcare quella soglia, quella barriera di fumo (che è il mondo tangibile secondo il Qoelet) che ci porta in un mondo adiacente.

I particolari sono la trama

Tutti i suoi racconti sono lacerti di esistenze strappate via dalla realtà, esistenze incasellate in descrizioni minuziose di ambienti, come in Clara:

Scendo di casa alle dieci di sera, prima di chiudere la porta guardo il soggiorno, la bottiglietta d’acqua mezza vuota rimasta sul tavolo, vicino al libro che sto leggendo, una scarpa sul tappeto, quel pezzetto di carta blu sulla poltrona, questo spazio è la fotografia di un incompiuto.

Clara sta uscendo per andare dal suo amante, Stefano, che probabilmente lascerà: Voltaggio non chiude mai le storie, ne seguiamo il percorso minuzioso, con un linguaggio puntuale che improvvisamente si distorce, con vocaboli fuori posto, generati dall’afasia dell’impotenza, la stessa malattia dell’uomo rinchiuso in una clinica psichiatrica di cui si invaghisce Nina. Ed è in ceselli preziosi che l’autrice ci immette nello squallore dell’esistenza della donna i cui “capelli non sono più né biondi né scuri”, che si riflette nel bicchiere sul comodino del malato che “alle volte è mezzo pieno, alle volte è vuoto”. La solitudine triste di Nina si riverbera nel paesaggio che attraversa, condizionandolo. Ma quando sta per esplodere il colpo di scena, Anna Voltaggio ce lo preannuncia con uno “straccio bagnato che schiocca” nel silenzio della corsia. Particolari che più che dipanare, sono la trama.

Incrinature e crepe

Sono segnali che Voltaggio sparge nelle sue brevi storie, fotografie di incompiuti, specchi che alludono ad altre realtà, furti di piccoli oggetti. Sono incrinature in momenti di passaggio, in passaggi in avanti nel tempo, da cui i protagonisti sembrano osservare loro stessi, provando nostalgia per ciò che erano. Anna Voltaggio è bravissima a farceli vedere, nei diversi episodi, collocati in ruoli diversi e spesso opposti, come Rachele, che si dedica alle orge tra scambisti con Leòn, ed è donna ideale e idealizzata per cui Lorenzo lascia la famiglia.

Nella fotografia attaccata al frigorifero sorrido, mi è sempre parso che fosse un sorriso sincero, eppure stamattina mi accorgo di una lieve crepa all’angolo della bocca, una crepa che di colpo mi fa sentire l’impegno che ho messo in quel sorriso. L’uomo della fotografia ha una brutta camicia a scacchi rosa e marrone, le rughe sulla fronte aggrottata per via del sole. Non c’è niente che io ricordi di quella giornata se non che fosse ferragosto. Lisa è accovacciata e abbraccia Tessa che punta il muso nero verso il cielo per farsi accarezzare, io sono in piedi e tengo in braccio Linus ancora cucciolo, ho l’improbabile posa di un uomo appagato, tradito da una camicia stonata e da un sorriso bugiardo.

Così si vede Lorenzo, nel racconto a lui dedicato, con una fotografia su cui si forma una crepa, un Dorian Gray a scacchi rosa, ma anche un Jack Torrance di kubrickiana memoria. E di riferimenti al cinema di Kubrick è denso il libro, dal partouze in maschera in stile Eyes wide shut alle gemelline di Shining.
Quello dei gemelli è poi un topos ricorrente ne La nostalgia che avremo di noi: sono gemelle Lucilla e Sara, sono gemelle le figlie di Stefano, sono gemelli i pappagalli che irrompono a disturbare il matrimonio di Arturo.
Il tema del doppio, degli specchi, dello squarcio nella realtà da cui trapela la luce dell’irrequietezza sono le fondamenta di questo bel libro. Anna Voltaggio ci lascia intravedere, con un graffio che brucia, la dimensione dell’altrove, la dimensione quantica dove il tempo e lo spazio non esistono, dove esiste solo il racconto allo stato puro, la fonte primaria da cui sgorga l’arte. Come ci ricorda in questo bellissimo passo de La casa del mago, Emanuele Trevi:

Solo ciò che accade due volte possiede un significato magico e arcano (…). Un evento che si verifica una sola volta è un caso; più di due volte è un’abitudine, un fatto comprovato, dipende da leggi stabilite. Tutto ciò che nella sua vita era tornato nell’orizzonte degli eventi come il gemello di un fatto precedente era dotato ai suoi occhi (…) di un grado di realtà che poteva definire pieno, almeno nei limiti assegnati ai mortali nella loro esperienza delle cose. Perché noi non siamo né veri né falsi, e la ripetizione è uno spiraglio, un indizio, la vibrazione momentanea e inafferrabile di un assoluto che sfugge a ogni logica. (…) Cos’altro cercano i cosiddetti artisti se non di produrre un doppio di qualcosa che magari non ricordano nemmeno, non sanno nemmeno che esiste, non sanno di aver vissuto una prima volta? Per questo c’è l’arte, perché noi non possiamo vivere né nell’unico né nel molteplice, siamo sudditi di un altro regno di cui solo le cose che accadono due volte ci fanno intravedere la strada.

E lungo questa strada ci conduce, ci trascina, con ginocchia che si sbucciano sull’asfalto,
La nostalgia che avremo di noi di Anna Voltaggio.

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