Scrittura e salute mentale, il glicine di Barbara Giangravè

Un diario che è allo stesso tempo un saggio dai tratti generazionali: ecco cosa è “In clinica psichiatrica c’è il glicine fiorito” della scrittrice palermitana Barbara Giangravè, che affronta una cura per la depressione, indagandosi senza sosta e senza riserve. Un’esperienza personalissima, ma capace di parlare a tutti, fra dolore e speranza

Opera seconda della giornalista e scrittrice palermitana Barbara Giangravè, pubblicato dalla casa editrice Fides, In clinica psichiatrica c’è il glicine fiorito (271 pagine, 18 euro) è molto più che un racconto autobiografico.

Un lungo diario, composto da eventi, ricordi e riflessioni, che dona al lettore una testimonianza potente sull’esperienza dei pazienti all’interno di una struttura dedita alla cura delle malattie mentali. Quasi un reportage di frontiera che, attraverso lo sguardo arguto, disincantato e al contempo fragile dell’autrice, fotografa la quotidianità della clinica psichiatrica, mettendo nero su bianco i sentimenti e le paure di chi si trova ad abitarla per un periodo della propria vita.

Un tabù

Il racconto inizia il 30 marzo 2022, nel momento in cui Giangravè richiede volontariamente un ricovero, il terzo degli ultimi dieci anni, per curare una depressione che nel corso del racconto definirà più volte come il “tumore dell’anima”. È questo l’incipit di una narrazione, scandita giorno per giorno, che ricostruisce la permanenza in clinica dell’autrice la quale attraverso l’esercizio della scrittura, naturale vocazione inizialmente utilizzata quasi per occupare il tempo, si trasforma in un’opportunità per affrontare un tema, quello della salute mentale, troppo spesso stigmatizzato e ancora oggi considerato tabù.

Grazie a una scrittura autentica, colloquiale e che non concede sconti, Giangravé fa sì che il lettore si immerga in un universo poco conosciuto, in un microcosmo composto da un’ordinaria routine fatta di caffè e sigarette fumate sotto il glicine che cresce in cortile, di attese per i pasti e per la terapia, di piccoli e grandi vuoti. Un mondo che diventa punto d’osservazione privilegiato per interrogarsi sulla propria vita e sulla condizione di coloro che soffrono di un disturbo mentale.

Attraverso le pagine scritte su un vecchio computer, compagno di viaggio nei giorni del ricovero, nonché unica finestra sul mondo esterno, Giangravè ripercorre il decennio della propria vita attraversato dalla malattia e lo fa affrontando temi che sono al contempo personalissimi e universali. Ed è per tale ragione che In clinica psichiatrica c’è il glicine fiorito non può essere considerato un semplice diario, ma un’opera di più ampio respiro, un saggio dai tratti generazionali.

Lutto e precarietà

Argomenti centrali del racconto sono, infatti, il lutto per la perdita del padre, il riscoprirsi non più figlia ma al contempo non ancora madre, la tentazione del suicidio, la difficoltà di vivere la solitudine, la precarietà che genera dall’assenza di un lavoro, la disillusione nei confronti del giornalismo. Sintomi o conseguenze di malessere che, esattamente come il cancro, può colpire tutti indistintamente: “A ventisette anni ero indipendente e a trenta ero già in un mare di guai”.

In clinica psichiatrica c’è il glicine fiorito racconta, dunque, a tutto tondo l’esperienza della fragilità, quel senso di spaesamento che può attraversare gli esseri umani a ogni latitudine del mondo. Lo fa indagando senza riserve sentimenti ed emozioni, senza aver paura di trasferire pensieri talvolta controversi. Giangravé non nasconde l’incapacità di provare empatia nei confronti degli altri degenti della clinica, della compagna di stanza Sonia, ma allo stesso tempo fa i conti con un’immedesimazione totale quando si riconosce il alcuni suoi comportamenti.

Il timore dell’ignoto

Come afferma la stessa autrice, la volontà è quella di rendere questo libro “uno spaccato della vita che potrebbe vivere chiunque”, ed è verosimilmente per tale ragione che viene riservato grande spazio al racconto del dopo, di cosa sarà una volta tornati alla vita di tutti giorni, di cosa avviene una volta fuori dalla clinica psichiatrica. Man mano che si avvicina la data di dimissione, Giangravè trasferisce al lettore il timore dell’ignoto e lo fa in modo netto, esplicitandolo più volte a chiare lettere: “Ho paura di dire che mi sento meglio perché, paradossalmente, ho paura di essere dimessa dalla clinica psichiatrica”.

Dopo il bel romanzo d’esordio Inerti (edito nel 2016 da Autodafé), anch’esso dai tratti velatamente autobiografici, Barbara Giangravè torna con un libro che attraverso il racconto della propria esperienza parla a tutti. Una storia intrisa di dolore e speranza, di paura e desiderio di vita e di futuro.

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