Imre Oravecz, quel passato in cui cercare stupore e felicità

Istantanee di vita quotidiana del borgo natio nella nuova opera di Imre Oravecz, “L’uomo che pesca”, raccolta di poesie che si può leggere come un romanzo. Il ricordo di un paesaggio esteriore e interiore, di un mondo perduto, fatto non solo di luoghi e di storie, ma anche di destini…

Dopo l’amore per una donna, il ritorno all’infanzia e al mondo contadino. Settembre, 1972 (ne abbiamo scritto qui) era struggente e vero, ma non scadeva mai nel sentimentalismo, con tante brevi poesie in prosa a ricomporre la storia universale di una coppia («ti ho tradito con ognuna di loro, perché ti amavo ancora, mentre cercavo di convincermi che ormai non ti amo più»), una coppia in cui tanti coniugi, amanti, fidanzati possono riconoscersi. Con L’uomo che pesca (192 pagine, 18 euro) – tradotto ancora da Vera Gheno e pubblicato ancora dalle edizioni Anfora, con prefazione di Vanni Santoni – l’ungherese Imre Oravecz, una delle più belle scoperte letterarie degli ultimi anni per i lettori italiani, ha scritto, invece, una raccolta di poesie che possono leggersi come un romanzo. Tra i maggiori scrittori magiari degli ultimi decenni, Imre Oravecz, dedica di fatto questo volume al suo borgo natio, Szajla, attraverso istantanee di vita quotidiana.

Le cose minime e prosaiche

Imre Oravecz va indietro con la memoria di sessanta, settanta anni, a un villaggio di contadini, a un microcosmo facilmente riconoscibile agli occhi del suo cuore. Non è semplicemente il racconto corale ed elegiaco di una campagna, ma un palcoscenico in cui c’è spazio per l’alfa e l’omega, la vita e la morte. Emerge pagina dopo pagina un poemetto di levigato lirismo, sgorgano ricordi, viene a galla la bellezza delle cose minime, anche prosaiche, rilevanti o meno. L’autore ungherese attinge sapientemente alla memoria propria e di un mondo perduto (la natura, anche selvaggia, storie familiari, destini di emigrati), paesaggio esteriore e interiore, cancellati già dopo la seconda guerra mondiale.

Una parentesi di felicità

Quella inquadrata da Imre Oravecz è una parentesi di felicità: concluso il conflitto mondiale, non ancora finita nella trappola sovietica, l’Ungheria vive rari momenti incantati, fra giochi e impacciati convegni amorosi. A questo mondo poi perduto appartengono tanti piccoli istanti di eternità e, pienamente, un anziano, il soggetto che dà il titolo al volume.

guardava davanti a sé, / come se la terra fosse acqua / e vi vedesse dei pesci.

È questa nuova opera di Oravecz decisamente più enigmatica di Settembre, 1972, ma altrettanto affascinante e un po’ più nostalgica, a ogni modo lontana dal già letto di una buona fetta di letteratura contemporanea. È un libro per lettori che cercano stupore e felicità.

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