Una donna, la tristezza, i sogni e il non sense

Marita Bartolazzi debutta con “La donna che pensava di essere triste”, un po’ favola un po’ viaggio onirico, il tentativo di dare forma a quel che non è possibile dire a parole. La protagonista ha lo sguardo malinconico e un po’ rassegnato e con la sua tristezza affronta il mondo

Chissà cosa direbbe Freud, leggendo l’esordio di Marita Bartolazzi, La donna che pensava di essere triste (149 pagine, 13,50 euro), viaggio onirico su cui ha scommesso Exòrma editore, dando forma e sostanza concreta a una storia così sognata da sembrare ineffabile.

La realtà che sembra ed è sognata

Difficile parlare di questo romanzo, se non accettando da subito il patto narrativo specifico richiesto dal libro: sembra una realtà, ma in verità le si srotola parallela, quasi un binario che ogni tanto ricalca il normale andare delle cose e la banalità scontata del quotidiano, per poi sorprenderci con sbalzi fiabeschi che non chiedono di essere capiti né riportati alla logica. È il territorio del nonsense: niente comicità, solo un filo di ironia, sottilissimo, che percepiamo quasi del tutto trasparente tra la scrittura e la lettura. Siamo nel regno del sogno, dove tutto è il rovescio di tutto, dove i gatti parlano e rispondono al telefono, i nostri diversi “noi stessi” si fanno trovare alla fermata del bus, e quotidianamente prendiamo l’auto e andiamo a fare la spesa. Solo che la spesa, qui, la si fa al supermercato dei sogni.

L’assurdo qui è normale

Onirico e a tratti fiabesco, questo romanzo di Bartolazzi non è tanto una storia lineare e compiuta quando un succedersi di episodi che mettono in campo personaggi strampalati, li fanno relazionare e ne stravolgono essenza e legami, senza che tuttavia il colpo di scena dia problemi di sorta alla stabilità della struttura. Non è infatti il caso di tacciare di assurdo una storia tutta giocata sul senso della non-storia: l’assurdo qui è il normale, ed è forse lo stesso assurdo a suggerirci possibili ricostruzioni di una vita che si frammenta senza che nemmeno ce ne accorgiamo. Eppure è al contempo difficile non stancarsi di aspettare pagina dopo pagina una soluzione logica alle dinamiche, agli intrecci, agli irrisolti. La magia di questa strana fiaba è proprio questa: condurre dentro al labirinto, senza istruzioni e come se fosse la cosa più normale e scontata del mondo.

Una coperta di tristezza

Protagonista è colei che dà il titolo alla storia di Bartolazzi: la donna che pensava di essere triste. Nulla conosciamo di lei, se non una specificazione che la definisce nei confronti di se stessa – o meglio, come si vedrà, delle diverse se stesse – e del mondo intorno. Essere tristi è un pensiero, un’attitudine, una sfumatura dentro a un sogno sognato? Certo è che la sfumatura acquarello di questa storia è quella di uno sguardo malinconico e un po’ rassegnato, sfuocato come il colore ad acqua, ma al tempo stesso delicato e in grado di rappresentare nitidamente attitudini, situazioni, sensazioni. Non ci sono emozioni forti né ragionamenti raffinati, La donna che pensava di essere triste è invece, piuttosto, un tentativo di dare forma a quel che non è possibile dire a parole, che non è fatto per lasciarsi descrivere e incasellare nell’esattezza dei quadri di un linguaggio. Eppure la tristezza, secondo la protagonista, è proprio un insieme di quadri, losanghe e tondi tenuti insieme da un paziente lavoro sartoriale.

Un patchwork

Un patchwork di situazioni, atti, ricordi, quadri, appunto, che restano nella mente come oggetti su scaffali talvolta impolverati.

“La sua tristezza aveva forma di tondi e di losanghe e, attraverso quelle losanghe e quei tondi, lei la guardava come fosse un panorama, o uno scorcio di paesaggio da sbirciare dall’alto”.

Lente, filtro, unico mezzo per comunicare, la tristezza serve alla protagonista per affrontare il mondo, è così che lei lo legge, che ogni giorno esce di casa per recarsi a un lavoro che chissà se ci sarà, incontrando o no qualcuna delle sue se stesse, o ricaricandosi di sogni in un supermercato dove le capita di incontrare un figlio e commesse dal corpo umano e dalla testa di animale.

Il prisma di sé

La donna che pensava di essere triste di Marita Bartolazzi è in realtà un prisma, un unico essere scomposto come le lame di luce entrate dentro un diamante sfaccettato e restituite in frammenti, fasci diversi che smaterializzano la forma intera per restituire lacerti di un unico che si è scoperto in realtà vario. Le diverse anime della donna che pensava di essere triste le danzano intorno, spesso la accompagnano, la disturbano e la infastidiscono: le caccia di casa, le chiude in dispensa insieme agli incubi che si è trovata nel carrello del supermercato dei sogni. Una ha un cappotto rosso, una vive dentro un terrario, una insegue sassolini come nelle fiabe. Ed è infatti proprio come nelle fiabe che ci si muove dentro questa storia, specchiandosi in metafore o piuttosto in elementi che diventano simboli di concetti e atteggiamenti. Come in una surrealtà disponibile a tutti varcato l’uscio dei sogni, il mondo simbolico è abitato da un gatto parlante con la r moscia acquistata per corrispondenza, dispensatore di saggi consigli, oppure da un monumento che, seppur pesante e poco dinamico, è in grado di muoversi, parlare e mangiare biscotti, nonché di prestare la testa affinché la donna che pensava di essere triste la porti con sé per la ricostruzione articolata di un ricordo. Il buco nero diventa una destinazione per una attesa vacanza, luogo di liberazione dallo stress – ammesso che uno stress abbia dignità di esistenza nel mondo nonsense di questa storia – rifugio dove staccare la spina e allontanare tutti, come accadrebbe nella normalità. Ma normale questa storia non è, ed ecco allora arrivare nel buco nero segni, ricordi e biglietti che fanno tornare la protagonista alla sua vita, alle prese con pasti tristi e se stesse che abitano casa sua e talvolta fanno anche le offese.

Il supermercato dei sogni

Se Freud fu tra i primi a proporre un’interpretazione del mondo onirico basata sulla lettura dei simboli, che avrebbe poi fondato la psicanalisi e che ancora oggi resta una delle materie più affascinanti, chissà dunque cosa avrebbe detto di questa storia. Di simboli, sfaccettature ed episodi apparentemente nonsense è fatto tutto il romanzo, mosaico di scene, voci e situazioni che sembrano affiorare direttamente dai più profondi sentieri della mente. Come quando si sogna, e aleggiano nella visione onirica spezzoni di vite non vissute, oppure vissute prima e ora ricordate, ma scomposte, anch’esse frammentate nelle loro essenze, ora non più riconoscibili e travestite di dubbio e forse di incubo.

Di sogni si nutre l’intero progetto di Marita Bartolazzi, che non a caso allestisce numerose tappe al supermercato dei sogni. Un luogo pazzesco, in cui come in qualsiasi megastore della nostra esperienza reale si affaccendano commesse, un direttore, altri acquirenti, magazzinieri, e in cui con un carrello di fili di ragno aggirarsi tra gli scaffali in cerca della migliore occasione. Sogni per i viaggi, sogni brevi, oppure lunghi, incubi da evitare, sogni fatti di persone che dal passato si tuffano nel carrello della spesa, oppure paesaggi da sognare come un mare, calmo o in tempesta, il cui trasporto si rivela in effetti scomodo e difficoltoso.

La luce sfaccettata e indescrivibile della mente umana

Ma è assurdo!, protesterà forse il lettore ingenuo, finché non si accorgerà che, tra scorci di tristezza e abili soluzioni fiabesche travestite di incomprensibile e illogico, si intravede la luce sfaccettata e indescrivibile della mente umana. È un viaggio impossibile, ai confini di quanto è reale e spiegabile a parole, giocato tutto su trame così sottili da rischiare di spezzarsi, come i sogni al suono della sveglia, interrotti e sospirati senza una soluzione che li avrebbe riportati alla ragione, galleggianti in una dimensione che ogni giorno sfioriamo senza mai trovare la chiave giusta per farvi accesso, o per uscirne. “Chi sa di avere il cuore spezzato non lo ha. Chi dice di essere triste non lo è davvero. Le parole sono un recinto e un recinto è un confine che definisce. Solo le cose senza nome e parole sono vere” recita, saggio, il gatto all’inizio di questa storia. Che sia questa la chiave?

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