Grandezza e miseria dell’epica capitalista secondo l’altro Singer

Un’epopea affascinante, l’affresco di un mondo che non esiste più, quello dell’ebraismo dell’Europa centro-orientale del secondo Ottocento e del primo Novecento, inghiottito dal nazismo. È un romanzo che non avrebbe bisogno di presentazioni, perché è una pietra miliare, “I fratelli Ashkenazi” (759 pagine, 19,50 euro) di Israel Joshua Singer, riedito meritoriamente da Bollati Boringhieri.

Una storia, scritta in yiddish, pubblicata nel 1936 (allora rivale di “Via col vento” nelle classifiche del New York Times), composta da mille storie che vale la pena affrontare e che vale più di mille saggi sull’argomento.

Maggiore di undici anni rispetto al fratello Isaac Bashevis Singer, Nobel nel 1978, non prolifico come lui anche perché morto prematuramente d’infarto, Israel Joshua Singer pubblicò quello che è il suo riconosciuto capolavoro negli Stati Uniti, dove era fuggito dalla Polonia, poco dopo i primi tentativi letterari del fratello, rimasto inizialmente dall’altra parte dell’oceano.

Più di una volta il Nobel ha dichiarato di considerare Israel un modello da cui imparare e non c’è dubbio che alcune delle migliori opere di I.B. Singer, a cominciare da “La famiglia Moskat,” abbiano un debito notevole nei confronti de “I fratelli Ashkenazi”.

Come non c’è dubbio che i due fratelli si abbeverarono in via Krochmalna, a Varsavia, dove aveva sede il tribunale rabbinico del padre di entrambi, palestra di cultura e umanità. Tra Polonia e Russia, tra Lodz – che si trasformerà da shtetl, villaggio rurale, a rutilante polo tessile di prima grandezza – e Pietrogrado, a lungo terre dell’impero zarista, soggette alla violenza dei cosacchi ma anche fecondo grembo del movimento operaio, “I fratelli Ashkenazi” abbraccia una porzione di mondo e tempo (dal secondo Ottocento alla Rivoluzione d’ottobre) e scandaglia ogni angolo della condizione umana. Lo fa, tra vicende storiche e private, con gli occhi di Simcha Meyer e Jacob Bunin – i due fratelli Ashkenazi che si ribattezzeranno Max e Yacob, nel loro progressivo allontanarsi dalla tradizione chassidica, quella del pio padre Reab Abraham – e di una folta moltitudine di personaggi, industriali, rivoluzionari, religiosi, nobili, soldati, commercianti, donne dagli opposti destini (basti pensare a Dinah, sposa infelice di Simcha Meyer, e a Bashke, che muore per amore e ideali politici).

La stupefacente e coltissima introduzione di Claudio Magris – la stessa della storica edizione Longanesi – scritta nel 1970 – è utile come raramente sono le introduzioni perché immerge il lettore nei temi del romanzo, con visione d’insieme e precisione difficilmente eguagliabili. Le stesse del romanzo, che si avvale di una scrittura quanto mai semplice, ma efficace, ed è metafora dell’ebraismo dell’Europa centro-orientale e del capitalismo.

 

La distanza manichea delle vite parallele dei fratelli Simcha Meyer, concentrato di cupidigia, cinismo, tormenti e intuizioni geniali nel mondo degli affari, e Jacob Bunin, generoso, vitale, abile nei rapporti interpersonali e fortunato (poiché ottiene ricchezze e onori come il fratello, ma senza i suoi sacrifici) si affievolirà tra luci e ombre, distacchi e ribellioni, amori e rimpianti, nel turbine delle vicende di quasi un secolo che li coinvolgeranno, nel disfacimento dei rispettivi matrimoni combinati e delle ambizioni economiche, a discapito dell’umanità e dei sentimenti, di quello che poteva essere e non è stato.

Compenetrato nelle storie dei due esemplari fratelli c’è l’universo ebraico – un universo perduto – stretto nella tenaglia dell’anti-semitismo e dei pregiudizi ben prima del nazismo, una civiltà vittima di ripetuti pogrom, i cui principali esponenti erano ricchi (abili anche a corrompere, oltre che a comperare e vendere) e prosperavano, ma la cui moltitudine indistinta si intrecciava anche al nascente movimento proletario, che inizia ad essere imbevuto di marxismo.

Saga familiare e romanzo storico, prodotto del cuore della Mitteleuropa, emblema delle dinamiche socio-politiche ed economiche che hanno segnato il ventesimo secolo, “I fratelli Ashkenazi”, antico nella forma, è di una modernità dirompente per quanto riguarda i contenuti, figlio di un mondo che non c’è più, ma saldamente innestato nella cultura americana, come “Chiamalo sonno” di Henry Roth, altra gemma – di più ardito impianto – figlia del mondo sepolto dal nazismo. Un romanzo che parla anche ai lettori contemporanei, ai ricchi e ai poveri d’oggi, a chi volta le spalle al proprio destino, provando a costruirsene un altro, a chi è costretto a fuggire.

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