Esuli, esseri umani, anime dedite alla poesia

La Shoah («ciò che è stato») era un macigno sia per Nelly Sachs che per Paul Celan, scampati ai lager a differenza di molti loro familiari. Torna, per Giuntina, la loro “Corrispondenza”: lettere di conforto e confronto reciproco, prima della tragica fine di entrambi

Nel 1966 Nelly Sachs avrebbe potuto condividere il Nobel per la Letteratura con Paul Celan e non con l’israeliano Agnon. Sarebbe stata una vittoria per due amici – morti a poche settimane di distanza, nel 1970 – la cui stima reciproca e fratellanza è testimoniata da un carteggio lungo una quindicina d’anni e un centinaio di lettere, quasi tutte conservate gelosamente. Le imperscrutabili acrobazie e i capricci dell’Accademia di Svezia esclusero Celan, poeta che non era di casa nel paese scandinavo come la Sachs. Quel carteggio tra i due poeti, curato da Barbara Widemann per Suhrkamp, intitolato semplicemente Corrispondenza (198 pagine, 16 euro), era stato pubblicato negli anni Novanta da Il Melangolo ed è ora riproposto, in una versione riveduta e corretta, dalla casa editrice Giuntina, con traduzione di Anna Ruchat.

Senza lieto fine

Quotidianità e poesia (ma senza troppe riflessioni teoriche), dubbi sul lavoro e paure della vita fanno capolino nel dialogo epistolare di due poeti legati dal tentativo di confortarsi reciprocamente, da un sentimento fraterno, da un comune destino di esilio e non solo. Li uniscono guai fisici e malattie dell’anima, di esseri umani senza lieto fine. Già ammantata del Nobel, Nelly Sachs, che non mancava mai di avere un pensiero per Giselle ed Eric, moglie e figlio di Celan, scriveva al più giovane (di quasi trent’anni) collega «le tue poesie respirano accanto a me giorno e notte, sono dunque parte della mia vita». Celan scriveva da Parigi, Sachs da Stoccolma, pur se non sempre dalla propria abitazione, ma anche da case di cura e ospedali psichiatrici, dove viene talvolta internata, subendo anche trattamenti con elettroschock.

Ebrei erranti, salvi ma infelici

L’ebrea tedesca e l’ebreo rumeno nato in Bucovina, profughi soli e depressi, salvi ma infelici, instaurano un dialogo discreto e pudico, un’amicizia e un’intesa intellettuale, ritrovandosi nella comune patria della lingua tedesca e delle loro poesie, spesso allegate alle lettere. Inquieti e sofferenti, disturbati mentalmente (si nota più nelle lettere della poetessa, Celan camuffa meglio il proprio disagio, anche se deciderà di mettere fine alla propria vita, gettandosi nelle acque della Senna e morendo annegato), i due scrittori riuscirono a incontrarsi solo grazie a un viaggio in continente della Sachs, raggiunta a Zurigo da Celan e poi sua ospite a Parigi. I progetti di scrittura e di traduzione che si confidano l’uno all’altra s’intrecciano necessariamente col passato di entrambi, con l’esperienza d’essere sfuggiti al precipizio dei lager nazisti, in cui finirono loro familiari catturati, deportati e uccisi, con le affinità delle loro anime ferite dalla Shoah («ciò che è stato») e dall’antisemitismo che non accenna a placarsi, anche dopo la seconda guerra mondiale, in particolare in Svezia: la vincitrice del Nobel soffre di manie di persecuzione, ma i certi casi la paura che ha per sé e per i suoi amici è fondata. E anche Celan è, a suo modo, perseguitato dalle accuse di plagio mosse da Claire Goll, moglie del poeta alsaziano Yvan Goll. Gli ultimi contatti epistolari risalgono al dicembre 1969. L’anno successivo riserverà a entrambi la morte.

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