Djavann, le lettere a Montesquieu di un apolide in Francia

Non ancora tradotto in italiano, “Comment peut-on être français?” della scrittrice di origini iraniane Chahdortt Djavann è un libro sofferto, in cui indifferenza, incomunicabilità, solitudine, fanno da sfondo alla ricerca affannosa di un’identità che stenta ad emergere. È quello che vive Roxane, in fuga dal suo passato, a Parigi…

Arrivare a place Denfert-Rochereau, perdersi lungo i grandi boulevard o nelle viuzze del quinto arrondissement, mangiare un panino jambon-beurre a al boulevard Saint Michel e rinviare il caffè al café de Flore. Chi ama Parigi conosce bene queste rêveries, le stesse che avevano costellato fin dall’infanzia i sogni dei «caldi e umidi pomeriggi» di Roxane, protagonista del romanzo della scrittrice iraniana e naturalizzata francese Chahdortt Djavann, dal titolo Comment peut-on être français? (Come si può essere francesi?), pubblicato da Flammarion nel 2006. Inedito in Italia, dove sono stati pubblicati altri suoi tre libri, due per Lindau e uno per Bompiani.

La lingua ostile

Tutti i bei cliché su Parigi, Roxane li vive sin dal suo arrivo. Poi, a poco a poco, la bolla di sapone dentro la quale aveva soffiato per anni scoppia e la protagonista deve fare i conti con una realtà che non aveva messo in conto. A partire dalla lingua che si palesa ostile, nemica, una lingua «impietosa che non le perdonava niente», che la fa sentire ridicola quando articola artificiosi suoni gutturali per imitarla. Non mancano le riflessioni metalinguistiche nate per contrasto con il farsi, riversate al «sesso delle parole» da cui i francesi paiono ossessionati come i «fanatici religiosi lo erano del sesso delle donne» o di considerazioni di come una malferma conoscenza possa trasformare Montaigne in una “montagna” piena di saggezza. E allora cerca con tutte le sue forze di impossessarsene, intenta così un corpo a corpo con le parole, un addomesticamento dei suoni, scrive liste lunghissime di parole, ripete incessantemente i verbi, mentre frigge patatine al Mcdonald’s, dove non è necessario parlare e anzi ogni parola spesa è un attimo rubato al lavoro. Tuttavia, la lingua che dovrebbe aiutarla a costruire una nuova identità si rivela la lingua dell’esilio, della solitudine, della sofferenza e dell’umiliazione.

Il legame con le radici

Roxane, suo malgrado, sperimenta tutta la crudeltà della solitudine. Non ancora integrata nel suo nuovo mondo, si scopre ancora legatissima alle sue radici, dubbie, confuse nella numerosa parentela in cui le madri sono sorelle, i nipoti zii; innamorata delle poesie di Saadi che leggeva al padre, fiera dell’antico splendore della cultura iraniana data ormai in pasto ai mullah, la donna comprende di essere un’apolide che fugge dal suo passato, ma che non ha ancora costruito le basi per il suo futuro ed è imbrigliata nella prigione del presente, sola, balbuziente, colpevole di cercare di dimenticare il suo passato ed incapace di vivere l’oggi.

Una corrispondenza immaginaria

Ma ecco che in questa desolazione, consolata per la verità da Julie – la donna che forse lei vorrebbe essere, indipendente, colta –  e dalla piccola Clara, presso le quali lavora, è la letteratura che le tende una mano: in uno dei corsi alla Sorbonne che riesce a pagarsi grazie a mille lavori precari, fa l’incontro della sua vita, Le lettere persiane di Montesquieu. L’uomo di lettere, illuminato, il vignaiolo cosmopolita aveva saputo cogliere del popolo persiano l’essenza, e per questo Roxane sente che lui può essere l’unico interlocutore dei suoi pensieri. Decide allora di intraprendere proprio con il suo «caro genitore, Signor Montesquieu»  una corrispondenza immaginaria fatta di lettere spedite ad indirizzi fittizi – via Baudelaire, Nerval, Hugo, Verlaine… –  che durerà diciotto lunghi mesi e alla quale affiderà le sue considerazioni sul mondo, le sue rabbie e preoccupazioni, la sfiducia nelle sue possibilità di diventare ciò che vuole veramente essere. Roxane imita lo stile di Montesquieu, cerca di migliorare il proprio modo di scrivere e di pensare, affinando lo sguardo verso ciò che la circonda. Si muove come lui, paragona usi e costumi, gli scrive delle differenze tra Oriente e Occidente così come l’autore aveva fatto mettendo in scena un sapientissimo gioco di specchi riflessi dove la voce dello straniero era rivolta proprio ai francesi.

I fantasmi del passato

Al lettore attento non sarà sfuggito che il personaggio di Roxane porta lo stesso nome di una delle spose di Usbek la quale, per ritrovare la sua libertà, si vendica suicidandosi. La Roxane del romanzo apparentemente libera, perché è riuscita a scappare dal mondo asfissiante in cui viveva, si trova comunque prigioniera dell’indifferenza, del dover dimostrare di valere, dell’afasia: «Oggi ho la libertà senza conoscere l’arte di viverla», libertà che misura con i metri quadri della sua chambre de bonne. È scoraggiata, sconfortata, esposta al ludibrio dei fantasmi del passato che si materializzano violentemente sotto le spoglie di agenti di polizia e di una terribile notte in carcere durante la quale rivive lo stupro subito in Iran. È sempre più sola, comprende che quella libertà che desiderava ha un prezzo carissimo: la ricerca di un’identità che non trova né a Parigi, né in Iran. Roxane assiste allo svolgersi della sua vita come se fosse alla finestra, senza riuscire a prenderne parte veramente. In questo sta il vero dramma del romanzo: un libro sofferto, in cui indifferenza, incomunicabilità, solitudine, fanno da sfondo alla ricerca affannosa di un’identità che stenta ad emergere.

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