La Maier di Diotallevi, nulla è più sincero di una foto

Un romanzo sulla tata con la Rolleiflex, leggendaria fotografa. Alternando due piani temporali – infanzia ed età adulta – e con una scrittura vibrante e intensa Diotallevi ci regala lo sguardo speciale con cui Maier amava scrutare il mondo per evitare di rivolgere gli occhi verso la propria interiorità

«L’intenzione è stata, sin dall’inizio, quella di scrivere un libro che provasse a indagare le complessità della donna e dell’artista Vivian Maier, non di riportarne una fedele biografia» è la frase che compare nella nota del nuovo romanzo di Francesca Diotallevi, Dai tuoi occhi solamente (201 pagine, 16,50 euro), pubblicato da Neri Pozza e dedicato alla fotografa più famosa del Novecento conosciuta come la “tata con la Rolleiflex”. Per avvicinarsi e capire la vita di Vivian Maier la scrittrice ha dovuto fare affidamento alle numerose fotografie che «come un diario giornaliero, costituiscono oggi una mappa e una preziosa testimonianza del suo cammino» perché il carattere schivo e riservato dell’artista non consente oggi di avere sufficienti notizie per ricostruirne interamente la vita.

La fotografia, scudo contro il mondo

Le fotografie di Vivian Maier, scattate a partire dal 1926, sono state scoperte solo nel 2007, anno in cui John Maloof, figlio di un rigattiere, ha acquistato un box a un’asta fallimentare e vi ha trovato dentro non solo gli abiti, i cappelli e le macchine fotografiche dell’artista, ma anche tantissimi negativi e rullini ancora da sviluppare. Un patrimonio di circa centocinquantamila fotografie di inestimabile valore.

 «Ho scattato così tante foto per riuscire a trovare il mio posto nel mondo»

Diotallevi è partita da questa frase scritta sul margine di un foglio ritrovato tra gli effetti personali della fotografa per tracciare l’immagine di un’artista che «si dedicò alla fotografia anima e corpo, custodendo però gelosamente il proprio lavoro senza mostrarlo o utilizzarlo per comunicare con il prossimo». È l’immagine di una donna che costruì uno scudo per difendersi da quel mondo di cui era terribilmente curiosa e attratta e che trovò nella Rolleiflex l’anello di congiunzione tra la propria interiorità e la vita esterna che «sorvegliò attentamente, attraverso la lente di un mirino».

«Vivian lasciò lo sguardo vagare davanti a sé. Due ragazze camminavano tenendosi a braccetto, una bambinaia spingeva la carrozzina con aria assorta mentre alcuni bambini si rincorrevano lanciandosi manciate di foglie secche. Poco distante un cane annusava la carta di un hot dog caduta da un cestino della spazzatura. Vivian si domandò se tutti loro, in quel momento, avvertissero la consapevolezza del presente. Sapevano che quegli istanti erano destinati a non ripetersi mai più nella loro esistenza?»

La complessità di un animo umano

Credo che siano davvero poche le penne capaci di indagare la complessità di un animo umano e tra queste va di certo annoverata quella di Francesca Diotallevi che con una scrittura vibrante, intensa e commovente riesce a raccontare in forma romanzata la vita di una donna che preferisce non essere notata, ma ama osservare gli altri e custodire le storie delle persone attraverso una lente fotografica. «Le foto non mentono sulle storie che raccontano, nemmeno le più artificiose. C’è sempre un particolare che ne svela l’essenza, un dettaglio capace di rilevarne l’inganno o l’autenticità. Nulla è più sincero di una fotografia», un modo di decifrare gli sguardi, leggere le pieghe della pelle, il movimento di una bocca e catturare l’esistenza di chi le stava attorno. Le immagini sono le uniche cose che colmano i vuoti dell’anima di Vivian. «Perché la fotografia è l’unica medicina che conosco al male di vivere». La complessità sta nel forte contrasto tra la solitudine dell’artista e il mondo raccontato attraverso le fotografie che denotano la sua curiosità verso il prossimo.

Il legame tra parole e immagini

Il romanzo alterna due piani temporali, raccontando sia l’infanzia di Vivian Maier sia l’età adulta, quando inizia a lavorare come bambinaia presso la famiglia Warren. È la parte dedicata alla giovinezza che fa ben comprendere la complessità di una donna apparentemente dura, distaccata e introversa, incapace di avvicinarsi agli altri e alle emozioni per paura di essere «contagiata», di scoprire la propria fragilità e di abbattere quel muro che le consente di sopravvivere in un mondo in cui si sente sola ed estranea. Un rapporto controverso con la madre e la violazione dell’infanzia vengono raccontati con una delicatezza tale da fotografare l’anima tormentata di Maier. Del resto, la stessa Diotallevi scrive che c’è un legame tra la scrittura e la fotografia, come dice la stessa parola : phos, luce, e graphè, scrittura.

Il risultato è un romanzo capace di coinvolgere emotivamente il lettore che si cala nel mondo interiore della protagonista, nelle sue pene e nei suoi tormenti, nel dolore che trova sollievo solo stringendo tra le mani una macchina fotografica. Diotallevi ci regala lo sguardo speciale con cui Maier amava scrutare il mondo per evitare di rivolgere gli occhi verso la propria interiorità.

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