Tribuiani (reprise): “Senza un’ossessione non c’è scrittura”

Seconda parte dell’intervista a Giorgia Tribuiani che con “Guasti”, il suo romanzo edito da Voland, entra nella schiera dei debutti più apprezzati degli ultimi mesi ed è anche finalista al premio Librinfestival. La scrittrice: “Aspettative? Il fatto che a Daniela Di Sora e a Giulio Mozzi il romanzo fosse piaciuto, mi faceva sperare”

Un romanzo densissimo quello di Giorgia Tribuiani, Guasti, pubblicato da Voland, che attraversa sentimenti e argomenti diversi: amore, rancore, competizione, critica al giornalismo, riflessione sull’arte come segno della fragilità dell’uomo. Dopo la prima parte dell’intervista (qui), vi proponiamo la seconda.

Tribuiani, com’è nata, concretamente, l’idea di scrivere il libro. Qual è stata la spinta o chi?

«Tutto è nato dopo aver visto una mostra di corpi plastinati, l’avevo già detto? Mi pare di sì, ma è questa l’”origine”. Dopo un paio di giorni dalla mostra stavo parlando con mia cugina Chiara e il mio ragazzo Enrico (due delle tre persone a cui è dedicato il libro) e a un certo punto è arrivata la domanda: “Cosa succederebbe se una donna fosse costretta a seguire il compagno plastinato mostra per mostra”? Allora rientrata a casa, mentre loro se ne stavano in salotto a chiacchierare, ho scritto il primo capitolo di getto, che doveva essere un racconto. L’ho fatto leggere a entrambi e mi hanno detto: “Ok, e poi?”, ma in realtà non c’era il poi, il mio era un racconto. Rileggendolo però mi sono resa conto che c’era dentro una tensione che effettivamente non si esauriva in un racconto. Perché metteva in campo il gioco di potere tra i due (lui sulla pedana, lei a guardarlo dal basso), l’arte, lo scambio di ruoli tra un uomo morto che continuava in qualche modo a esistere e una donna viva che invece era come morta (ovvero Giada, la protagonista). E poi la posizione di lei, la posizione dell’eterna seconda. E quindi ho deciso di provare a esplorare questa storia, a capire cosa ci fosse dietro le quinte. E insomma avevano ragione loro, non era un racconto».

C’è molto entusiasmo intorno all’uscita del suo romanzo, che è anche stato selezionato tra i libri finalisti al premio di Librinfestival: si aspettava questa risonanza?

«Ho provato ad arrivare al momento della pubblicazione cercando di frenare le aspettative e ponendomi il più possibile in una situazione di “ascolto”: trattandosi del mio primo libro (ho pubblicato una raccolta di racconti qualche anno fa, ma la casa editrice era poco conosciuta e il libro non distribuito), volevo prima di tutto capire qualcosa in più del mondo editoriale. Ovviamente, se non c’erano propriamente delle aspettative, c’erano però delle speranze. Il fatto che a persone come Daniela Di Sora e Giulio Mozzi il libro fosse piaciuto mi permetteva di sperare. Quindi io direi che la spinta iniziale è sempre personale: io penso che senza un’ossessione, se non c’è qualcosa che ossessiona dietro l’idea di un racconto, qualcosa che “chiede di essere scritto”, non si va molto lontano. Per me è stato così con la plastinazione: era una specie di ossessione, in primis per un discorso sullo sguardo. Parlo dello sguardo della gente che si trova di fronte a un corpo plastinato e non se ne accorge perché il suo sguardo non va oltre, non cerca quello che la persona non dice, non vive un’empatia».

Parliamo del titolo: è stata una sua scelta?

«Quando il romanzo è nato si chiamava “Ferma sull’altalena”. Il significato era praticamente identico, legato all’immobilità. Però – dopo una chiacchierata con Giulio Mozzi, che mi ha proposto di trovarne uno più incisivo – l’ho modificato in “Guasti”. Il titolo fa riferimento allo stesso concetto, ma diventa forse più universale: non parla solo di lei, dei suoi “guasti”, ma anche di lui, dei visitatori, ecc».

L’arte e la fotografia attraversano tutto il romanzo…

«La fotografia è l’arte più vicina alla plastinazione, secondo me. È una specie di patto con il diavolo da parte del “fotografato”, perché crea un presente eterno, toglie il passato e il presente, i ricordi, le emozioni… spesso, come poi dice anche Giada, le emozioni del soggetto diventano quelle dell’artista e la persona rimane bloccata in un limbo. Ci possono essere diversi motivi per fare fotografia. Lui, il compagno di Giada, lo faceva appunto per un possesso. Lei voleva bloccare le persone per non perderle, ma in questo ovviamente in qualche modo rinunciava alla possibilità di un’evoluzione dei rapporti. E poi, proprio perché il libro parla in buona parte di sguardi, come ti dicevo prima parlando di plastinazione, la fotografia mi pareva l’arte perfetta per raccontarli».

C’è un libro di Mason Currey, Rituali quotidiani, dedicato appunto a riti di scrittori e artisti in genere, abitudini, fobie, esercizi. Vuole confidarne qualcuna?

«Per scrivere ho bisogno di poter chiudere una porta tra me e il mondo esterno, e solitamente mi concentro molto di più se si tratta della porta della mia stanza visto che il mio posto per scrivere è il letto. Ho bisogno di avere accanto anche una bottiglia di coca cola (se malauguratamente in casa non c’è, scendo a prenderla prima di iniziare) e, prima di scrivere, ascolto la “colonna sonora” del libro. C’è sempre, quando scrivo, una musica (o a volte più di una) che mi aiuta a rientrare nell’atmosfera. Quindi dopo aver posizionato la coca cola metto il telefono silenzioso e comincio ad ascoltarla. Di solito quando la canzone inizia entro proprio nella storia, per esempio ogni volta prima di scrivere “Guasti” sentivo due canzoni della colonna sonora di “Se mi lasci ti cancello” (la musica iniziale ed “Everybody’s got to learn sometime”) ed entravo nella stanzetta del plastinato. È una cosa che mi ha sempre aiutata con la concentrazione. Scrivendo “Blu” (un nuovo romanzo, ndr) sentivo la colonna sonora di, appunto, “Film Blu” di Kieslowski. Ecco, mi rendo conto solo adesso di rubare le colonne sonore a film che fanno anche un po’ da modelli per i miei testi».

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