Grazia e ironia, Kuznecov e l’orrore assoluto del Novecento

Un romanzo documento, “Babij Jar” di Kuznecov, finalmente proposto in versione integrale, che ha resistito a varie avversità, compresa la censura. La dimostrazione che la memoria collettiva ha radici profonde e c’è sempre qualcuno in grado di raccontare brandelli di verità. A cominciare dal luogo in cui nel settembre 1941 i nazisti trucidarono 33.771 ebrei di Kiev

La Shoah può essere raccontata in milioni di modi, tanti quanti sono state le vittime e i superstiti. Tanti punti di vista, molteplici angolazioni, a diverse latitudini, partendo da storie che sembra si assomiglino tutte, ma che poi sono tutte diverse tra di loro. Leggendo Babij Jar (454 pagine, 22 euro) di Anatolij Kuznecov, pubblicato dalla casa editrice Adelphi nella traduzione di Emanuela Guercetti, è impossibile non fare un parallelo con Primo Levi. Quello che accomuna i due autori è il periodo storico, l’aver subito la follia dei nazisti, l’essere sopravvissuti in condizioni estreme, la necessità di far sapere, di combattere il negazionismo.

Kiev e una gola dalle pareti a strapiombo

Nel suo romanzo-documento Kuznecov ci racconta il drammatico passaggio di Kiev dal regime di Stalin a quello di Hitler, per poi tornare sotto i sovietici. Babij Jar era una gola dalle pareti a strapiombo nei pressi di Kiev. Un luogo che nel tempo è diventato simbolo di morte. Un luogo che sovietici e nazisti hanno cercato di far sparire dalla storia, riempiendo l’enorme fossato. Ma la memoria collettiva ha radici profonde e anche quando si cerca di strapparle via, resta sempre qualcosa o qualcuno in grado di raccontare brandelli di verità: una vittima scampata fortunosamente al dramma, un testimone, un carnefice che non riesce a darsi pace.

Uno dei più grandi massacri della Shoah

Non c’è alcun monumento a Babij Jar a ricordare l’immane tragedia che ha colpito la popolazione locale durante la seconda guerra mondiale. Eppure lì, tra il 29 e il 30 settembre del 1941, nell’arco di poche ore, sono stati trucidati 33.771 ebrei di Kiev. Fu uno dei più grandi massacri della storia dell’Olocausto. E quello fu solo l’inizio. Perché dopo gli ebrei, Babij Jar diventò la tomba dei rom, dei nazionalisti ucraini, dei prigionieri di guerra russi, dei partigiani, di chiunque fosse sospettato di essere contro i nazisti.

Morto un abitante su due

A Babij Jar trovarono la morte militari e gente comune, politici e intellettuali. Perfino i calciatori della Dinamo, la principale squadra di Kiev, che avevano osato battere una compagine tedesca formata da ufficiali dell’aviazione nazista, vicenda che ispirò il film Fuga per la vittoria di John Huston con Pelè tra i protagonisti: «Prima della guerra a Kiev si contavano 900 mila abitanti. Alla fine dell’occupazione tedesca ne restavano 180 mila, cioè molti meno di quelli che giacevamo morti solo a Babij Jar. Durante l’occupazione fu ucciso un abitante di Kiev su tre, ma se si aggiungono i morti per fame, quelli che non tornarono dalla Germania e quelli di cui semplicemente non si seppe più nulla, risulta che morì un abitante su due».

Una storia personale, un documento

Come Primo Levi, anche Anatolij Kuznecov fa della sua storia personale un documento. Racconta con dovizia di particolari ogni dettaglio, puntualizzando più e più volte che non c’è nulla di inventato in quello che riporta. E niente è stato omesso. Lo fa con la grazia e l’eleganza dei grandi narratori russi, senza mai rinunciare all’ironia. Tra i personaggi che accompagnano l’allora dodicenne Tolik (diminuitivo di Anatolij) ci sono la mamma e i nonni. Tolik si arrangia come può («l’unica via d’uscita è sopravvivere, in barba a tutto»). La mamma, abbandonata dal marito, fa ciò che può per tenere in piedi la famiglia. La nonna nella tragedia si affida a Dio, e recita a modo suo il Padre Nostro (eccellente la traduzione di Emanuela Guercetti): «Patenoste, chiesa in cieli, santa luce nome tuo. Avvegna regno tuo. Sì, che è in cieli. E in terra. Pane nostro quotidiano dà, no, biscotti. Non dimette i debiti nostri se non ci libera dal male…»

Dall’esultanza a ogni speranza svanita

Il nonno odia con tutta l’anima il potere bolscevico che ha reso ancora più poveri, i poveri ucraini. E all’inizio confida in Hitler: «Dio sia lodato, questo regime di pezzenti è finito», esulta mentre i tedeschi occupano Kiev. Ma ben presto, le sue, si riveleranno drammatiche illusioni: «Che idiota quell’Hitler. I tedeschi non sono così cattivi, è lui che ne ha fatto delle carogne», dirà poche settimane dopo, fino a perdere completamente ogni speranza nel giro di qualche mese: «Era meglio andare in malora sotto i nostri, piuttosto che sotto questi qua, che possiate crepare, che vi colgano la malaria, il fuoco e il tuono del Signore Iddio».

Sopravvissuto alla censura

Già il preambolo del libro è tutto un programma. La censura sovietica ridusse il libro a poche decine di pagine. D’altronde, avere l’ardire di parlare di Babij Jar negli anni ’60, significava spingersi ben oltre gli spazi di libertà concessi dal regime. I redattori della rivista Junost’ nel ’65 restituirono «inorriditi» il manoscritto a Kuznecov. In Italia l’opera uscì (edita da Paravia) nel ’70. Successivamente venne ripubblicata da Zambon. Ora Adelphi la ripropone in versione integrale: «Sopravvivere, in barba a tutto», era il moto del piccolo Tolik. E il libro stesso ne è testimone.

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