Mencarelli e l’autenticità più pura: la verità di se stessi

“Tutto chiede salvezza” di Daniele Mencarelli, romanzo che si svolge all’interno di un reparto psichiatrico, può farci rinsavire dalla nostra folle idea di normalità. Leggendo queste pagine ci si accorge che un pazzo è un uomo perché, a un certo punto, lo si scopre capace di parola. E chi legge si scopre sorprendentemente capace di ascoltare…

Si prova una certa quale emozione nel dover recensire un libro finalista del Premio Strega (e che si è aggiudicato lo Strega Giovani, assegnato dalle scuole), ed ogni parola pensata e poi scritta porta con sé, inevitabilmente, tutto un parteggiare di sentimenti e di attese, un invisibile tifo dagli spalti di chi, anche solo per esserne stato lettore, non può che mostrare la propria gratitudine.

Questa da sola non basta certo a parlare di un romanzo. E non ce ne rammarichiamo, poiché si può facilmente cogliere dalle pagine di Tutto chiede salvezza” (204 pagine, 19 euro), edito da Mondadori, una sterminata serie di ragioni sufficienti a giustificarne il merito. Si può dire anzi che, proprio per tutti questi motivi che tra un po’ vedremo, la gratitudine diviene certamente quell’ultima ratio che però, crediamo, sia anche quella capace di rendere maggiormente felice un autore, e questo autore in particolare.

Una possibiltà di amore e servizio

Daniele Mencarelli, già noto ad un pubblico attento per le sue precedenti pubblicazioni, non smette né di far parlare di sé, né di parlare di sé in senso stretto. Non come chi se ne senta obbligato a causa di centripeto egocentrismo; ma come chi, al contrario, lo fa per mettersi al servizio degli altri; chi, cioè, trasforma la propria scrittura in una possibilità di amore. E non ci esimiamo certamente dall’utilizzo di queste parole, quasi così fuori moda, perché il primo a non imbarazzarsene è stato proprio lui. Amore, servizio, ed altre che incontreremo lungo il breve cammino di questo articolo, sono parole care a chi, dopo averle sperimentate in prima persona, sceglie di farsene cantore attraverso la forma più rischiosa di poesia: la prosa.

Chi scrive finisce prima o poi per versificare in qualche modo. Ma Mencarelli è essenzialmente un poeta, e poi un romanziere. E quando i passaggi sono questi, allora succede qualcosa di straordinario. Un poeta non può facilmente liberarsi di sé. Un romanziere può scrivere per mestiere. Un poeta, invece, se è veramente tale, non può esserlo che per vocazione. L’arte della poesia è una chiamata trascendente. È qualcosa da cui, esattamente come la profezia, non ci si può esimere. Si attraverseranno magari tempeste violente, o si sarà costretti a soggiornare dentro il ventre di grosse balene, per un periodo di oscurità più o meno lungo; ma quando si è poeti, allora prima o poi si profetizza. E quando da questo si passa al romanzo, ecco allora che dalle pagine cominciano a stillare gocce dell’inviolabile essenza, e la narrazione ad un certo punto ti sembra strabordare ben oltre il limite della prosa. Evento che non infastidisce: la vera poesia non è mai di troppo; se lo fosse non arriverebbe a cristallizzarsi in parole; se invece le parole lo richiedono per insufficienza di concetto, ecco che essa arriva e… salva.

Distruggere per conservare

Salvezza è una tra queste parole, ed è Mencarelli stesso, all’interno del romanzo, a descriverci come ci si arriva; o meglio, come c’è arrivato lui. Affinché il desiderio di conservare l’inconservabile non ci porti a distruggerlo, bisogna talvolta distruggere per poter conservare. Così le idee si sgrossano come un tronco ruvido, alla pialla della necessità, e un po’ per volta emerge quella stessa sostanza che esse, tutte insieme, non erano riuscite ad esprimere. Questa sostanza si rivela come una sola parola, capace di custodire al suo interno tutte le altre, e capace soprattutto di suscitarne ancora.

Così nasce il romanzo di un poeta. Come nasceva una profezia dalla scandalosa follia d’una pizia. Se la follia crea la sacralità d’uno scandalo, il divino che si nasconde dentro di essa usa la profezia per poter emergere, per poter fare udire la propria voce.

Mencarelli, con un lessico semplice ma di immediata efficacia, riesce a compiere esattamente questo. E prima di riuscirci lo desidera, e prima di desiderarlo ne sperimenta la necessità. Il bisogno si fa dunque desiderio, e quest’ultimo diviene parola comprensibile ai sensi e capace di entrare nell’anima, perché da lì è uscita e quindi partecipa dell’autenticità più pura, quella che non può mentire: la verità di se stessi.

Traccia di esperienza

Nelle pagine del romanzo, che si svolge all’interno di un reparto psichiatrico, persino certi mugugni, certi lamenti, certe frasi ripetitivamente sconnesse, assolvono con maestria una funzione comunicativa che definiremmo, senza rischio di eccesso, come sapientemente consumata. L’autore, che ha saputo essere ascoltatore di queste “parole non parole”, sa adesso riproporle in un modo che oltrepassa il racconto e riesce a diventare, persino in chi legge, traccia di esperienza.

Non si incontra mai, in questo eone capace di durare solo sette giorni di ospedale, nulla che tradisca la benché minima banalità espressiva. Mencarelli non dà voce ai pazzi; dà loro la parola, che è cosa diversa perché è atto divino. Li mette nella condizione di poter parlare, dove ciò significa essenzialmente aver qualcosa da comunicare, aver modo d’essere. E poiché, come lui stesso afferma, noi siamo troppo abituati ad ascoltare i sani e a curare i matti, come se questi non avessero nulla per cui farsi ascoltare, il romanzo ti offre la possibilità di rivedere un tale atteggiamento, facendoti provare esattamente la sensazione opposta: quella in cui i matti parlano davvero e tu davvero li ascolti, e alla fine del libro ognuno di essi ti resta nel cuore e nella memoria come nient’altro che un uomo. Ti accorgi che un pazzo era innanzitutto un uomo perché, ad un certo punto, lo hai scoperto capace di parola. O per meglio dire, ti sei sorprendentemente scoperto capace di ascoltare! Finalmente. Ci voleva la follia per costringerci a rivedere i rischi di una normalità indifferente. Ci voleva un TSO letterario (l’acronimo magico), che ci ha costretti a leggere, per farci rinsavire dalla nostra folle idea di normalità.

Educazione alla realtà

Senza voler necessariamente sovvertire i concetti, col rischio che certi sovvertimenti retorici finiscano per essere un po’ troppo alla moda, diremo subito che il romanzo di Mencarelli sa dirti e sa darti le parole giuste non perché senta la necessità di dover livellare le categorie (che i pazzi siano tali lo si capisce, eccome!), ma perché sa essere politicamente scorretto quel tanto che basta per non ubriacarti di luoghi comuni così facilmente buonisti da toglierti la possibilità di essere buono. Sa chiamare per nome e cognome cose e fatti a cui, normalmente, oggi, applicheresti l’edulcorante di un sinonimo, o di cui proveresti imbarazzo a parlare in un certo modo, perché avresti paura della sbarra a cui il nuovo galateo del “tutto è uguale a tutto, a tutti i costi” ti condannerebbe.

Mencarelli non si fa di questi problemi. Pur senza averne affatto la presunzione morale, sa educarci alla realtà. E se non siamo capaci di scorgerci dentro la verità, senza renderla meno realtà di quella che è, allora non è una questione morale né sociologica, ma solo linguistica. La tara di chi, privo di intelletto agente, non riuscendo a leggere dentro le parole tutto il carico del loro significato, cerca di ridurle al compromesso di un piano estetico comunemente accettato ed accolto senza la trasfigurante verità degli effetti collaterali.

Ma in un reparto di psichiatria non succede nulla di tutto ciò. Specie se hai vent’anni. Le parole ti arrivano crude, così come escono dalla bocca di chi ti è stato scelto come compagno di viaggio, e le devi prendere così come sono. Violente, certo, ma capaci di innescare il processo poetico della vera riduzione, quella che non riduce la realtà ma la rivela nella sua ampiezza naturale.

Grandezza naturale delle cose e cecità

Sembra strano che, da un letto d’ospedale, un internato per TSO debba trovarsi a ragionare sul fatto che talvolta basti solo partorire un pensiero metafisico, o artistico, o semplicemente non convenzionale, per essere catalogati come persone con qualche problema mentale. Se parli di senso ti guardano male. Il mondo di oggi, e questa è la grande polemica che dal libro emerge, non sa più cogliere la grandezza naturale delle cose. E quando qualcuno riesce a vederla, a scorgerla, allora è inevitabilmente matto perché gli occhi del suo spirito hanno certamente un difetto (o un eccesso) di messa a fuoco. No, afferma Mencarelli. L’anelito poetico, che sa involarsi anche in psichiatria, non amplifica la realtà, rendendola abnorme, ma ne rivela la naturale grandezza, quella dinanzi alla quale il mondo è sempre più cieco. Ed è una cecità che spesso veste il camice d’una qualche autorità scientifica, quando – e qui Mencarelli ci ricorda Hillman in modo impressionante – oggi c’è una specie di rincorsa a battezzare per disturbo quello che fino a ieri era semplicemente una caratteristica della persona, se non addirittura una virtù.

Il romanzo procede al ritmo di un calendario appeso ad un’ipotetica parete dove, giorno dopo giorno, il protagonista conta i giorni che lo separano dalla sua dimissione ospedaliera. Sembrerebbe dunque che, fin dalla prima pagina, tutto debba diminuire. Invece tutto aumenta, perché l’anima del protagonista cresce a dismisura. Anzi, coerentemente a quanto detto prima, quell’anima scopre dentro di essa una grandezza che c’era sempre stata e che solo in quel luogo e in quel momento è stata capace di venir fuori come Lazzaro dalla tomba.

Nel quotidiano confronto con tutti gli altri personaggi (pazienti, infermieri, medici), sapientemente caratterizzati senza farne tuttavia delle maschere fittizie, l’anima di Daniele sperimenta quell’umiltà capace di farla crescere. Una crescita certamente condivisa da chi legge e si immedesima in lui, trovando contemporaneamente lo spazio e l’occasione per ripensare a se stesso; fino a quelle ultime pagine dove, ad un certo punto, se non ti viene voglia di farti ricoverare anche tu, quanto meno ti dispiace lasciare quel luogo e quel racconto, che poi sono la stessa cosa. Perché ogni buon racconto è sempre un luogo, in chi scrive e in chi legge. E tu ci sei dentro: sei dentro a ciò che ti porti dentro.

Frasi dure e belle che fanno inciampare

Certe frasi, dure e belle come pietre preziose, ti fanno inciampare ad ogni piè sospinto. Ti stupisce che, tra un cambio di pannolone ed una discussione con l’infermiere di turno, ad un certo punto il testo faccia emergere alcune espressioni di una magnificenza sproporzionata eppure assolutamente contigua al ritmo del racconto. Una bellezza espressiva (ed è proprio l’anima poetica dell’autore) che pur imponendosi immediatamente per la genialità d’una metafora o la profondità con cui viene espresso un pensiero, non risulta mai disincarnata dal testo, come sarebbe una giustapposizione stilistica. Tutt’altro: per un attimo si ha la sensazione che certi concetti possano essere espressi solo nel mondo in cui li leggi lì, su quella pagina, a quel rigo.

Forte e insistente è il tema del dolore, soprattutto interiore, che evidentemente ricerca nel suo perché la propria causa prima. E a questo primato di sofferenza – per dirla con l’autore – bisogna rendere l’onore delle armi. Ed è proprio a questo punto, quando ogni lettore tende ad improvvisarsi capace di una propria risposta, che Mencarelli riesce a schivare la banalità sempre così insidiosa di tutti gli ateismi e i fideismi di circostanza. Il dolore è cosa sacra, misteriosa. Non puoi avere risposte. Sei tu, eventualmente, la risposta adatta, attraverso le scelte che compi. E in questo esercitarsi della volontà e della libertà, il dolore rimane tale senza divenire per forza strumento divino, ma facendoti intravvedere comunque la prospettiva d’una Provvidenza.

Proprio per il fatto che Mencarelli riesca a camminare tra queste due sponde, senza che l’abbia voluto fare per ingrassare il ventre d’una retorica neutra e perciò editorialmente comoda, questo suo romanzo può essere letto da tutti, senza che le intime convinzioni di ciascuno ne risultino mortificate. Alla fine rimane l’uomo, con tutto il dramma della sua esistenza. Se apparteniamo al caso, l’uomo ci basterà comunque come orizzonte morale. Se apparteniamo a Dio, l’uomo sarà il luogo dove incontrarlo. In un caso come nell’altro l’uomo reclamerà il diritto di se stesso, e della propria dignità.

Coraggio autobiografico e missione poetica

Se questo libro fosse anche di un solo piccolo gradino al di sotto di quel merito che cerchiamo di tributargli, ci rimarrebbe il dubbio che possa essere letto e osannato per ragioni diverse da quelle esclusivamente letterarie di cui, invece, è pregno. Ci parrebbe che qualcuno possa leggerlo o parlarne bene solo perché spinto da una sorta di ipocrita tenerezza nei confronti di chi lo ha scritto. Sarebbe il reiterarsi di un’ingiustizia immane, che continuerebbe a rimanere cieca dinanzi alla dimensione naturale di quest’opera.

Il coraggio autobiografico, quando è oltretutto “aggravato” dalla missione poetica e arricchito da un’ironia mai a buon mercato, ci spinge sempre a rileggere passaggi importanti della storia. Ci spinge a ridipingere davanti ai nostri occhi i volti di Van Gogh, di John Nash, di Baudelaire, di Alda Merini, di Virginia Woolf, di Edgar Allan Poe, e di tanti altri con cui magari – conoscendoli di persona – non avremmo voluto condividere una settimana di ospedale. O una Settimana Santa.

Ma questi stessi volti, sull’insegna di quel reparto, ci invitano a scrivere la parola “Grazie”.

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