Ferraro: “Il mio atto d’amore verso la Genova letteraria”

Intervista all’autore di “Genova di carta”, Alessandro Ferraro. Domande dell’autrice di “Torino di carta”. “Nel libro – spiega l’autore – seguiamo la letteratura da fine Ottocento ai nostri giorni, ma anche dal levante al ponente”. E scorrono poeti (con un debole per Caproni), narratori, cantautori… fino a una gustosa appendice, un dialogo con Enrico Testa ed Ernesto Franco

L’atmosfera è perfetta per accogliere il lettore al suo ingresso nella nuova città di carta de Il Palindromo, Genova di carta (256 pagine, 18 euro), approdata in libreria. In copertina c’è la lanterna, il faro simbolo della città, reinterpretata nel disegno di Simone Geraci tra riflessi blu mare e pagine di carta pronte a essere sfogliate, mentre al fondo del volume troviamo una mappa che, squadernata, restituisce la complessità del centro storico della città e dei suoi proverbiali vicoli e scalinate. Benvenuti nel capoluogo ligure: città di porto e poesia, città di salite e ascensori, di focaccia, mare e cantautori. Cicerone in questo nuovo viaggio esplorativo che, caratteristica dell’intera collana, conduce sul crinale non sempre visibile tra città reale e città letteraria, è Alessandro Ferraro, classe 1985, assegnista di ricerca all’Università di Genova.

Prima di conoscere meglio la sua Genova, però, serve una riflessione. Perché è difficile essere oggettivo per chi scrive se il volume si colloca nella stessa collana in cui è uscita Torino di carta (qui è possibile leggere un estratto), proprio un anno fa (qui una possibile e ideale introduzione); perché è difficile, ancor di più, parlare neutralmente di Genova se quell’io ha radici e anima ligure, di quella Liguria di Ponente da cui, per pura casualità, arriva anche l’autore, che guarda caso ha anche lo stesso nome. “Gli Alessandri”, nella mia testa ci chiamo così: entrambi abituati a prendere treni verso il levante, chi per approdare a Genova, e farne la propria seconda città, chi per virare verso nord e trovare il proprio angolo felice sotto la corona alpina, lontano da quello sguardo sul mare che, ammettiamolo, manca sempre molto. Faccio dunque ammenda prima ancora di iniziare: sarà un’intervista molto soggettiva, molto ligure, piena di affetto e nostalgia di focaccia e parole ventose di scrittori e poeti.

Rompiamo dunque gli indugi e partiamo per Genova. In treno, naturalmente, mezzo di eccellenza che apre il libro con un esergo tratto da Le silence de Genova, di André Frénaud, tradotto da Giorgio Caproni.

Alessandro, tu racconti di un tuo personale meridiano – che peraltro conosco molto bene -, quello Ventimiglia-Genova via treno, ed è così che fai e ci fai fare, da lettori di Genova di carta, ingresso in città: in treno. Per di più in una stazione dove i binari, chicca per fini conoscitori, partono dal numero 11. Cos’ha di speciale questo approccio e perché lo hai scelto per dare il la alla tua esplorazione?

«Trovare Il punto di partenza (così ho intitolato l’introduzione) non è stato semplice. Del resto quello di partenza è sì, in Genova di carta, il punto da cui s’avvia, dalla “stazione”, “la lunga camminata, gli scalini, di vico in vico” nei versi del Silence de Genova di Frénaud tradotti da Caproni ma anche, in fisica, il punto in cui un corpo (nel nostro caso la camminata, il libro, il lettore stesso) comincia a prendere il moto. Il punto di partenza non è prescindibile, allora ho sfidato la semplicità e mi sono affidato alle mie abitudini. Le cose sono andate così: ho ricevuto la proposta di scrivere Genova di carta nel luglio del 2018, ho letto o riletto i primi libri nelle spiagge del mio estremo ponente ligure e dopo qualche settimana, a settembre, rientrando in treno a Genova ho provato una strana sensazione, perché, grazie alla letteratura, sentivo di arrivarci, nella mia città d’adozione, per la prima volta dopo un lungo periodo, ma al contempo per la prima volta e pure per l’ennesima. Alcuni autori in arrivo in città, poi, hanno fatto il resto: non arrivare con la nave, o in aereo, non averla subito sottocchio e sotto controllo mi interessava, mi intrigava un punto di partenza meno romantico ma problematico. Ho messo il corpo subito in moto, facendolo arrivare in treno, sfiorare un “buco in fondo a un pozzo” e scendere per uno “scivolo”, come Soldati immagina, nello Smeraldo, piazza Acquaverde e via Balbi in un futuro apocalittico (io stesso mi ero messo in moto a ponte Morandi crollato da poco).

Dici che il lavoro per il libro è stato un assemblaggio e che non è stato facile restituire la città nella sua integrità standoci dentro, per di più “in quell’interstizio spaziotemporale ventoso” tipico delle città di carta. Come hai lavorato e che tipo di ricerche hai fatto per contrastare il vento che scompaginava le tue carte?

«Perlustro la Genova letteraria da dieci anni, anno più anno meno, dal giorno chissà quale in cui, oltre a incuriosirmi come fosse fatta, iniziò a interessarmi come fosse detta. Nella bibliografia ammetto che le mie perlustrazioni erano tanto baldanzose che inibivano o bidonavano qualsiasi annotazione puntuale, organizzazione sensata o rielaborazione consapevole, e poi, a esser sincero, non me ne preoccupavo: zigzagavo scompostamente in divagazioni senza scopo. Dalla proposta degli editori in poi ho cominciato a muovermi in maniera più composta e a capirci più di qualcosina o qualcosa. Ho raccolto libri, appunti e idee. L’obiettivo più onesto era tracciare, quindi, un percorso che fosse composto e scomposto insieme: lungo il libro c’è la strada maestra della poesia e ci sono le tante stradine della migliore narrativa (da Remigio Zena a Flavia Steno, da Mario Soldati ad Antonio Tabucchi) che da lì sgorgano o s’immettono; in ogni capitolo c’è una voce solista in una polifonia vivace (si sentono altri romanzieri, come Maggiani e Morchio, e i poeti più giovani); c’è il punto di partenza, la sosta a metà e il ristoro alla fine. Che l’avessi sempre voluti così il percorso e il libro, a esser ancora sincero, l’ho capito pienamente solo quando l’ho riletto per intero e su carta».

Genova di carta è una Genova di tanta poesia, da fine Ottocento a oggi. Nella mia Torino alberga poca poesia, se non per una piccola eccezione di Primo Levi: quali sono le ragioni della tua scelta per il capoluogo ligure? Ci racconti per sommi capi quali poeti troviamo sparsi per diversi angoli e quartieri della città?

«Le due risposte coincidono: i poeti che il lettore incontra (Gozzano, Campana, Sbarbaro, Montale, Caproni e Sanguineti in primis) sono la ragione per la quale la poesia è protagonista della Genova letteraria. Questo l’ho capito e voluto così, invece, dall’inizio. Un cartografo senza competenze scientifiche, tecniche e artistiche e senza amor proprio (semmai esistesse e si avventurasse a lavorare) avrebbe collocato la poesia fuori, anche solo di una minuzia millimetrica, dal centro. Genova, oltre a essere la città in cui Gozzano ha cercato la salute e Campana ha trovato un po’ di sollievo, la strada di casa di Sbarbaro e della memoria di Montale, la città dell’anima e di tutta la vita di Caproni, e il micromondo labirintico di Sanguineti, è soprattutto la città in cui spuntano (da cui hanno tratto spunto) componimenti poetici quali Nell’Abazia di S. Giuliano, Piazza Sarzano e Genova, Strada di casa, il mottetto dell’«oscura primavera / di Sottoripa» e Corso Dogali, Stanze della funicolare e L’ascensore, giusto per rimanere alla topografia più riconoscibile nei titoli».

“Una striscia di venti chilometri, da Voltri a Nervi”, con “a mezza via il grosso nodo centrale”: l’immagine cartografica di Genova è questa per Eugenio Montale. Non solo centro storico ma diramazioni litoranee della città: quali parti di Genova compaiono nel tuo percorso, e perché le hai scelte? È stato difficile rappresentarle sulla mappa, vista la forma specifica di Genova?

«Nel libro seguiamo la letteratura da fine Ottocento ai nostri giorni, ma anche dal levante al ponente. Bisognava scegliere, altrimenti il serpente di cui parla Montale, che pare abbia – dice il poeta – inghiottito un coniglio senza poterlo digerire, avrebbe ben inghiottito e maldigerito anche me; dunque valorizzo Boccadasse, Staglieno, il centro città, da Sottoripa al belvedere di Castelletto passando per Galleria Mazzini, Sampierdarena e Pegli (e molto altro, anzi, se il serpente non mi sente posso sibilare che mi pare che, se non la “Genova intera” della famosa Litania, di Genova ce ne sia gran parte). Figurati far stare la striscia di venti chilometri in una mappa, seppure in A3, quindi abbiamo deciso di rappresentare il centro cittadino dalla Lanterna a Boccadasse con l’ingrandimento della porzione urbana intorno alla linea che va da Porta dei Vacca, detta Sottana, a Porta di S. Andrea, detta Soprana. I luoghi segnalati sono 47, con qualche libertà: c’è il sommergibile Nazario Sauro di una poesia delle Veglie genovesi di Eugenio De Signoribus che nel libro non cito; c’è piazza Banchi perché volevo un ferramenta a rappresentare Vite senza fine di Ernesto Franco che di piazza Banchi nel romanzo non parla; e c’è l’icona del calicetto per indicare il Bar degli Asinelli, dove ho ambientato il mio dialogo con lo stesso Franco ed Ernico Testa».

So che hai una passione per Giorgio Caproni. La sua Litania è riportata interamente in Genova di carta, in tutta la sua girandola di meravigliose immagini che restituiscono angoli, atteggiamenti, scorci della città, atmosfere, fino a comporne un grande quadro. Ci racconti di più su Caproni e il suo rapporto con Genova?

«È difficile spiegare la passione personale per un poeta o sintetizzare il suo rapporto con la città dell’anima, quindi la faccio spiccia e un po’ sentimentale. In Litania il nome di Genova è ripetuto quasi cento volte, mentre Roma, la città dove oramai abitava (e dove sarebbe morto), non è mai nominata e Livorno rima, al culmine del componimento, con “partenza senza ritorno”, il verso-presagio che precede il verso-postulato (così li chiamo nel libro) “Genova di tutta la vita”: Genova fu per Caproni come per chiunque è stato il primo amore, quello che incontri all’improvviso, che s’interrompe troppo presto, la passione incontrollabile (e magari la serie di errori) che riesce a ricomporsi in consapevolezza, in uno strumento di conoscenza che dà la misura di tutte le cose, di tutte le altre storie, fino ad apparirci come l’ideale da non tradire che inesorabilmente tradiamo; nella poesia di Caproni questo amore per Genova è rimasto come affetto, ricordo, lamento, rimorso e, appunto, litania. E straordinariamente non c’è, nei versi “genovesi” del poeta che non intese scrivere versi genovesi, la città sotto forma di descrizioni realistiche, bozzetti dipinti o aforismi lacrimevoli, anzi, a volte un luogo di Genova stressa le proprie forme, vertigina il proprio spazio e suggerisce delle sorprendenti soluzioni, come il monumentino di Enea, con Anchise e Ascanio che, nel Passaggio d’Enea, si fa simbolo di un’intera generazione post-bellica in difficoltà e la funicolare che, nelle Stanze della funicolare, va sì dalla Zecca al Righi ma, oltre il tracciato reale, vaga altrove sulla città e che diventa un viaggio dall’utero materno al post mortem, per non parlare della famosa intuizione di andare in paradiso con l’Ascensore, che nella realtà da piazza Portello arriva “solo” al belvedere Montaldo».

Hai esplorato la città attraverso i versi a lei dedicati e tante storie, ma anche attraverso le canzoni: De André, Paoli, Max Manfredi, Paolo Conte… Ci sono persino gli Ex-Otago. Conosci e segui la Genova musicale? Credi che possa aiutare a interpretare lo spirito della città tanto quanto la poesia e la narrativa?

«Premetto che distinguo nettamente la poesia dalla canzone d’autore, benché non sdilinquisca a sentire dire che una canzone d’autore è vera poesia. Comunque, per scimmiottare, dopo la fisica e la cartografia, anche la matematica, ti rispondo, ancora una volta in maniera sincera a una domanda personale, così: Caproni sta a Montale come Paoli sta a De André; i più grandi non si discutono e non si toccano (infatti guai a toccarmi Montale, io riconosco nelle Occasioni un apice della poesia del Novecento, e devo agli Ossi di seppia molto di ciò che ho capito di me stesso), ma Paoli riesce, se immagino a forma di chitarra ciò che sta fra il mio cervello e l’ombelico quando ascolto la musica, a toccare più di altri le corde fra la paletta dell’osservazione critica e il ponte dell’ascolto emotivo. Paoli mi fa un certo effetto, insomma. Al tuo elenco aggiungerei, sempre in accordo con la chitarra di cui sopra, Luigi Tenco, Bruno Lauzi e Umberto Bindi. Gli Ex-Otago sono ragazzi della mia età, la loro musica risuona spesso nelle mie cuffie e l’ultimo concerto a cui sono stato prima del confinamento è stato il loro. Li ascolto, dunque, e li seguo. E li urlo a squarciagola se parte «Siamo figli d’operai, faccendieri disperati, cinghiali incazzati ed io non sono un uomo, almeno non ne sono sicuro».

In Genova di carta, spesso di sguincio, salti nell’attualità e nella cronaca recente riportando il tuo sguardo dentro la città reale e contemporanea. Ricordi per esempio il 2001 del G8, le troppe alluvioni, il Ponte Morandi. Sono tutti pezzi, dici, che la città ha perso. Cosa rappresentano per te, genovese acquisito? E dove, invece, Genova continua a resistere?

«Sarò lapidario e bestiale: se penso ai tempi che rovinosamente hanno corso sul corpo di Genova, lasciata tramortita per terra, sanguinante, nel fango, fra le macerie, mi viene non da grufolare ma da grugnire, proprio come un cinghiale incazzato. Genova, lo dico al Punto di partenza e mi auguro di dimostrarlo con Genova di carta, resiste nella poesia, nella speranza, nella buona volontà e nella resistenza stessa. Se guardo al nuovo ponte di Renzo Piano, penso alla Litania di Caproni: dopo «polveriera» c’è la “Genova di ferro e aria”, addirittura un distico rivendica “Genova che si riscatta. / Tettoia. Azzurro. Latta” e, se non bastasse, nel distico precedente ci sono sia la “Genova bianca e a vela”, che potrebbe far da titolo al progetto dell’architetto in onore della città e delle vittime, sia la “speranza”».

Il tuo libro si chiude con una gustosa appendice dove l’io narrante, che poi sei tu, dialoga con due intellettuali, Enrico Testa ed Ernesto Franco, e lo fa inoltrandosi nei vicoli di Genova, tra un «tocco» di focaccia e un asinello. Ci racconti come è andata, e soprattutto che cos’è l’asinello e cosa c’entra con Genova?

«L’idea iniziale era quella di vederci, con Testa e Franco, sul serio al Bar degli Asinelli ma non abbiamo fatto in tempo, così la chiacchierata sui luoghi letterari è diventata un dialogo scritto: ho mantenuto l’ambientazione nel locale di Adriano e della Marchesa e ci ho guadagnato risposte più articolate sul modo in cui un luogo diventa letterario, sul motivo per cui a Genova la poesia “prevalga” sulla narrativa, su quale luogo letterario fosse a loro più caro e ci ho guadagnato la problematica e preziosa riflessione di Testa, scettico davanti ai luoghi letterari, che chiude il libro. Ovviamente mi sono sdebitato regalando una bottiglia di Asinello a entrambi: è un vermouth, il vino aromatizzato dell’aperitivo genovese; si serve freddo, liscio nel suo calicetto o con una fettina di limone (c’è chi lo corregge col Campari o col Cynar) e con una ciotolina di focaccia; sull’etichetta dall’inconfondibile verdolino (pantone 367?) c’è giustamente scritto «aperitivo antico dal gusto moderno», dal momento che è stato lanciato nel 1886 e ultimamente è tornato di gran moda (gli Ex-Otago, per esempio, hanno intitolato Corochinato il loro ultimo album)».

A proposito dell’io narrante che citavo, ricordo che alla presentazione congiunta di Genova e Torino, a Bookpride 2019, sollevasti il problema specificando che non eri abituato a scrivere in prima persona. L’io compare spesso in questo tuo libro, è una guida per il lettore, si assume la responsabilità delle scelte e dei percorsi, ed è anche estremamente ironico. Ti sei divertito a scrivere questo libro e a metterti in scena?

«Genova di carta è un atto d’amore verso la città che mi ha adottato, verso la letteratura italiana contemporanea e – questo non interesserà a nessuno – verso me stesso. E negli atti d’amore in cui riesci, alla fine, a non sentirti né forzato né insoddisfatto, ci si sono quegli sprazzi di serenità dove ti diverti. E non mi riferisco soltanto all’asinello che mi concedo con Franco e Testa, o ai passaggi in cui nomino Sabrina Salerno seguendo Gozzano in barca, o parlo di prostitute “letterarie” in una chiesina qualsiasi del centro medievale o “annuso” l’odore di fritto nelle “ascelle della poesia” di Sottoripa (per dirla con Testa)».

Non dimentichiamo che quello del libro è anche un io che si confessa innamorato di una città che è «ammarata o ammonticchiata», e di cui cerca di restituire un «ghiribizzo scritto fra accrocchi di case e strade a scarabocchio». Com’è andata tra te e Genova? Quando e perché è nato questo amore?

«Cosa usano gli illusionisti per scomparire? Cosa buttano per terra per creare il fumo che nasconde la loro uscita di scena? Perché ho una risposta che potrebbe assolvere, a salve, alla stessa funzione: leggevo pochino e detestavo Genova, non intendevo iscrivermi all’università e comunque valutavo altre sedi universitarie, dopo i primi mesi in cui ancora rifiutavo l’idea di studiare e l’idea stessa di Genova è accaduto qualcosa di prodigioso che non so proprio spiegare. Dal chissà quale punto di partenza mi sono ritrovato a Genova di carta. Puff, fumo, fine».

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