Benincasa, il potere della parola e l’abisso di vita e amore

“Eccetera ne ha di parole” di Giovanni Benincasa è un testo matrioska che si moltiplica in un crescendo narrativo, una particolarissima storia d’amore, un romanzo tutt’altro che convenzionale adatto a chi ama strizzare l’occhio al fumetto e al futurismo e, nell’era dei digital device, ama celebrare ancora la preziosità del libro, della carta e della fantasia che da questi può scaturire…

La prima volta che ho avuto tra le mani Eccetera ne ha di parole (181 pagine, 17 euro) di Giovanni Benincasa, edito da Baldini+Castoldi, sono rimasta affascinata, come poche volte mi capita, dalla copertina: in apparenza semplice, financo banale, in realtà studiatissima e ingegnosa. Il titolo, poi, era un invito a nozze per una appassionata di linguistica come me.

“Insomma!” mi sono detta “Chissà quante cose imparerò!”.

Così, in men che non si dica, ho accantonato le tante altre letture che mi ero ripromessa di iniziare e mi sono buttata a capofitto in questa.

La prima pagina, la seconda pagina, la terza pagin… la quarta pag…

“Aspettate! Fermi tutti! Mi sa che non ci ho capito niente… Ricominciamo!”.

E via di nuovo: la prima pagina, la seconda pagina, la terza pag…

“Alt! Ma davvero mi sono rintontita così tanto?!”.

Allora rileggo la biografia dell’autore, cerco qualche indizio-guida, ma niente! Non c’è prefazione, non c’è introduzione, non c’è postfazione… Sono seriamente smarrita.

“Mmmhhh… Riproviamo…”.

La prima pagina. La seconda pagina. La terza pagina. La quarta pagina…

“Allora vuoi proprio sfidarmi?! E sfida sia!”.

La quinta pagina, la sesta, la settima, l’ottava… e via andare fino all’ultima.

Certo! Ci ho messo un po’ per arrivarci, un tempo lungo e intervallato da qualche testo “canonico”, tanti stop and go e qualche – si fa per dire! – appunto preso sul retro che, magicamente, un po’ per volta è diventato molti, moltissimi, pure troppi per stare sul retro… Per non parlare dei mille collegamenti tra una nota e l’altra e schematizzati bellini, bellini.

“E ora che ho finito di leggerlo, di prendere i miei bei appunti, di annotare quello che c’era da annotare, recensione!”.

Macché! La verità è che non so da dove cominciare, non so quale tra le tante chiavi di lettura che il romanzo mi ha suggerito posso fornire più agevolmente a chi magari è interessato ad approcciarlo questo libro…

“Che, poi” mi chiedo “l’ho davvero colta l’essenza di quello che ho letto?”.

Ma, siccome io lo so che le cose belle arrivano senza fretta, ho deciso di aspettare ancora.

“C’è un tempo per tutto! Tu, Eccetera, resta fermo lì (n.d.r. sul mio comodino), così… per ispirarmi, pronto ad ispirarmi… No, è?! Non mi vuoi ispirare?! E allora io ti sposto sulla scrivania del mio studiolo e vediamo che fai… Anzi, sai che faccio io? Ti piazzo accanto a un altro libro che, come te, aspetta di essere recensito e vediamo un po’ chi la spunta!”.

Se avete avuto la pazienza di arrivare sin qui, sapete che l’ha spuntata lui! Perché Eccetera ne ha davvero tante di parole, un’infinità, un abisso: ha quelle che già esistono e che conosciamo, quelle che esistono e che non abbiamo ancora scoperto (e che forse non scopriremo mai), quelle che non esistono e che forse, un giorno, la nostra mente partorirà, quelle che, per dirla con Lacan, resteranno non dette. E forse anche per questo, oltre che per la complessa e finissima opera di scrittura dell’autore, ci ho impiegato così tanto a cercare, trovare e mettere insieme (e un po’ anche in ordine) le parole “giuste” o, meglio, quelle più adeguate per raccontarvelo questo romanzo e per dialogare (semmai mi leggerà) con il suo autore proprio come lui ha fatto con me.

Direte voi: «Vedi che novità! Tutti i libri ambiscono ad intessere un dialogo tra chi lo scrive e chi lo legge!».

Vero. Però non tutti lo fanno allo stesso modo. E in questo caso struttura e tecnica scelte da Benincasa sono davvero particolari. Perché Eccetera ne ha di parole è scritto proprio perché a chiunque capiti di trovarselo tra le mani sia chiara la consapevolezza che questo libro non è per tutti, ma per una persona sola.

Giocato su più livelli narrativi, il romanzo nasce infatti – e solo all’apparenza, aggiungerei io – per affidare a ognuno di noi un preciso compito:

Questo libro portalo sempre in giro: per strada, o in un parco, o in luoghi dove c’è qualche umano passaggio. Tienilo sempre con te: fallo vedere. Quando entri in un bar, poggialo sul banco e cerca di tenerlo bene in vista, anche se dovrai sederti in una sala d’attesa o deciderai di stenderti su un prato.

Dunque portare questo libro sempre con sé, ovunque si vada per rintracciare Elisabetta, l’unica persona a cui è davvero indirizzato, l’unica che, prima o poi, saprà riconoscere e decifrare il messaggio d’amore in esso contenuto.

Tutto ha inizio quando Giovanni, l’anonimo autore del “vero” libro, inaspettatamente – potremmo anche azzardare per serendipità – scova all’interno di una borsa di cuoio, acquistata in un mercatino dell’usato, una serie di vecchie lettere: una fitta, vivace, diretta, immediata, strampalata corrispondenza che un certo Giovanni, omonimo dello scrittore e dell’Autore – per semplificazione espositiva da adesso in avanti chiamerò il primo Giovanni-autore e il secondo con il suo cognome – ha intrattenuto negli anni Settanta, ovvero quarant’anni prima, e per molti anni, dal 1971 al 1980, con tale Elisabetta, appunto.

Apparentemente (e sostanzialmente) si tratta di lettere d’amore, di quelle che non si scrivono più e che, tuttavia, per via delle domande, delle vicissitudini, dei dubbi, delle crisi, dei conflitti che l’amore suscita rimangono eterne e, contemporaneamente, profondamente attuali specie per l’immediatezza con cui, spesso, i messaggi d’amore vengono comunicati. Perché l’amore vero, ancor più se ardente di innamoramento, si scrive come si vive: di getto. Senza intermediari. Senza sovrastrutture. Senza mezze misure.

Botta e risposta, botta e risposta. Con una sola differenza: i vostri non erano messaggini, non erano email. Erano lettere che viaggiavano sopra il mulo del tempo, con un’attesa assurda e oggi impensabile. Perché quando arrivava una risposta, tu magari avevi già cambiato atteggiamento e umore […] una misura incalcolabile per un rapporto di oggi, dove tutto si risolve in un lampo.

È esattamente lo stesso stile-non stile che oggi ritroviamo nei messaggi delle chat o dei social network, messaggi che nessuno stamperà mai e che per questo nessuno, mai (o difficilmente) un domani leggerà.

L’epistolario tra Giovanni (l’innamorato) ed Elisabetta presenta, così, i tratti del disordine, della confusione, dello scombussolamento amoroso pienamente in linea con l’Odi et amo di catulliana memoria e… monco. Sì, sì: avete letto bene! Monco, incompleto, manchevole, portatore di un “suo” vuoto: una lettera mancante (e anche qui Lacan si/ci delizierebbe). Una sola lettera, tra le tante, che non è mai stata spedita, l’unica che Elisabetta non ha mai avuto modo di leggere.

Giovanni-autore la ritrova in una busta ancora chiusa, insieme alle altre, sempre all’interno della borsa di cuoio. Da qui la necessità e – chissà! – la curiosità di ritrovare Elisabetta per poterle consegnare quelle parole rimaste sospese. Giovanni-autore si inoltra allora nella ricerca, a tratti ossessiva, di questa misteriosa

Signora Elisabetta, o Elisa, o Ely, spesso chiamata anche Sabè, Betta o Bettina, poche volte Betti, Lisa o Lisetta.

Eccetera ne ha di parole non è che l’ultimo atto di questa “caccia all’amata” ispirata proprio dalla speranza che, arrivando nelle mani di più lettori, prima poi qualcuno possa finalmente riuscire a stanare la “vera” unica destinataria.

A rendere la “missione” a dir poco complessa sono almeno tre ordini di ragioni: anzitutto, il tempo ha cancellato le tracce dei due amanti; in secondo luogo, Giovanni-autore non è che stia attraversando una fase brillante della propria esistenza, quindi soffre l’assenza di motivazione e di entusiasmo; terzo, vallo a trovare un editore disposto a pubblicare un libro destinato a una persona sola! Ma chi scrive lo sa e ce lo dice anche in quarta (di copertina).

– Un libro scritto per una persona sola?

Solo per lei, sì.

– Immagino il successo: una sola copia venduta.

Fallo! È magia.

Perché le parole, si sa, sono potenti.

[…] la scrittura riesce ad andare dove tu la vuoi mandare […] Se io per esempio scrivo un messaggio alla mia bella mamma che non c’è più, lei lo riceve: lo riceve sicuro. Il mio amico mi ha spiegato che le lettere viaggiano come onde attraverso una combinazione misteriosa di formalizzazione del pensiero, che corrisponde a questo fissare su carta il tuo messaggio, cioè scrivere. Bisogna solo evitare la stagnazione: bisogna cioè scrivere e buttare, scrivere e buttare, altrimenti certe parole formano un deposito incalcolabile e impossibile da decifrare, nel tempo.

Le parole sono talmente potenti da investire la vita e metterla nella condizione di scuoterla, di stravolgerla, di salvarla e addirittura di renderla immortale anche e soprattutto perché

Poi arriva la morte e le parole diventano candele: si spengono con un soffio, a una a una. Scende un silenzio denso: scende proprio un lenzuolo, come a coprire dei mobili anche alla propria vita.

E la scrittura, come ogni forma di fissazione della parola, ha, a sua volta, il potere e il dono di amplificare questa energia; essa costituisce, anzi, un invito a mettere un più di vita nelle scripta così da fermarlo questo più di vita nella misura in cui le parole impresse su carta diventano storie e le storie impresse su carta possono imprimere le anime – ci sarà un motivo per cui ancora oggi i bambini chiedono incessantemente a noi adulti di raccontar loro una storia?

Parole, dunque, che dicono e nascondono, svelano e mascherano proprio come un altro oggetto anch’esso ormai sempre più desueto: il rullino delle fotografie, rievocato da Giovanni-autore come strumento di mistero e rinnovamento.

[…] eccetera sta lì per chiudere, per dire e non dire: sembra una sintesi della pigrizia, eccetera. Puoi invece svilupparlo come quando sviluppiamo una foto: il negativo è eccetera, ma poi quello che si sviluppa sei tu sulla spiaggia, tu al Caffè Motta, tu e la tua faccia […].

Così le parole su carta tra Giovanni ed Elibasetta, frammenti della loro storia d’amore, a poco a poco finiscono per vivificare Giovanni-autore, smuovendolo dallo stallo personale e professionale e dalla solitudine in cui è piombato.

La corrispondenza tra te e Giovanni mi ha aiutato a superare delle brutte giornate, mi ha offerto delle idee e delle ottime distrazioni. E il racconto di una storia d’Amore, tormentata e sofferta, consolava la mia vita che franava giorno per giorno: pezzo per pezzo.

Le lettere, qui intese nel senso dell’oggetto-lettera, ma anche nel più ampio valore di litterae, fungono da salvagente, sono la luce che illumina il tunnel buio, l’ossigeno che permette di tornare a respirare la vita e… l’amore! Che questo sia uguale o difforme da quello vissuto da Giovanni ed Elisabetta un amore sofferto, romantico, triste, profondo, vergognoso della differenza d’età che passa tra loro poco conta. Che, poi, esisterà mai un amore uguale a un altro?

Ma Giovanni ed Elisabetta non sono gli unici che aiuteranno Giovanni-autore a uscire dalle sabbie mobili in cui è precipitato; un insieme di strani personaggi contribuiranno, infatti, nell’intento. Primo fra tutti Armando, ribattezzato da Giovanni-autore, in onore di “quello che ha fatto Il cacciatore”, Armando Christopher Walken, un anziano e insolito mago, avaro di notizie personali. Armando è anche il proprietario di un pappagallino, un parrocchetto di Lesson, che la fa da padrone in copertina – e in trasparenza nella sovra copertina – e che a un certo punto Armando lascia in custodia a Giovanni-autore.; a lui è affidato il compito di fare da collante tra le diverse storie che si sfiorano durante la narrazione.

Inusuale, ma non casuale è il nome di questo pappagallo: si chiama Collins come Michael Collins, uno degli astronauti, insieme ad Armastrong e Aldrin, dell’Apollo 11, l’unico dei tre che non ha mai messo piede sulla luna “mentre gli altri due saltellavano dentro i televisori del mondo”, quello che è rimasto nella navicella, più solo di Tom Neale a Suwarrow, e che per una strana coincidenza del destino è nato a Roma, in via Tevere.

Benincasa lo sceglie tra i tanti proprio perché Collins, l’astronauta, è l’emblema della solitudine più estrema dalla quale, in qualche modo, cerca di “riscattarlo” chiamando Collins anche il pappagallino, proiezione e metafora dell’innocenza del sogno di Giovanni-autore bambino di diventare un prestigiatore.

Cosa che Giovanni-autore, corroborato da Giovanni (Benincasa), diventa scrivendo questo libro confezionato, nei fatti, come un vero e proprio gioco di prestigio dove, con una scrittura fluida e (talvolta fin troppo) dinamica, un romanzo si infila dentro un romanzo, che si inserisce dentro un altro romanzo che diventa un altro romanzo quasi a costruire una sorta di rebus che il lettore volenteroso potrà cimentarsi a decifrare nella misura in cui i codici criptati rispondono a una logica-simbologia “simil-linguistica”: le parentesi (graffe, quadrate e tonde) che si sfrondano via via che le storie procedono; il carattere del carattere (tipografico) che vira dal tondo, al grassetto, al corsivo; gli spazi vuoti tra una sequenza narrativa e l’altra; e poi i giochi con i numeri e le date…

Eccetera ne ha di parole è un testo matrioska, insomma, che si moltiplica in un crescendo narrativo e che ci ricorda la non ancora discutibile verità del detto Verba volant, scripta manent anche in un tempo in cui la tecnologia ha reso la parola effettivamente tanto immediata, quanto potenzialmente labile. Un romanzo, dunque, tutt’altro che convenzionale, che mai mi sentirei di suggerire a chi cerca una lettura strutturata e composta e che, invece, caldeggio a chi ama strizzare l’occhio al fumetto e al futurismo – diffusissimo è il ricorso, mai casuale, alle parole onomatopeiche – e a chi, nell’era del digital e dei digital device ama celebrare ancora la preziosità del libro, della carta e della fantasia che da questi può scaturire.

Quando leggerai bum, significa che ho tagliato molte cose e ci sono buche e cadaveri narrativi tutti intorno: tu allunga la gamba e cammina saltando quei morti come dopo un’esplosione. Tutto quello che non trovi scritto, dovrai immaginartelo.

Si può venire a capo di un libro così? Me lo chiedo ancora ora, così come mi chiedo se la risposta non stia in un’altra domanda: esiste forse parola più adatta di eccetera per descrivere l’infinito abisso della vita e dell’amore?

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