De Caro, quei macellai garibaldini divisi da una donna

Per capire la Sicilia di oggi, e certi suoi problemi atavici ancora irrisolti, bisogna sapere cosa accadde nel 1860. Lo spiega il palermitano Giankarim De Caro con “Chianchieri”, romanzo storico corale e appassionante, con sguardo critico sulla spedizione dei Mille e occhi puntati anche sull’emigrazione di tanti siciliani…

Chi è nato in Sicilia (o a Napoli!), almeno una volta nella vita ha sentito la parola “chianchieri”, l’antico nome usato per indicare i macellai che deriva da planca (o chianca), il bancone di legno su cui veniva esposta la merce da vendere. Chianchieri (156 pagine, 15 euro) è anche il titolo dell’ultimo libro di Giankarim De Caro, pubblicato da Navarra editore, che vede protagonisti, per l’appunto, due macellai: i gemelli Cola e Totò. Nati a Palermo a metà Ottocento, i due fratelli vivono gli anni cruciali tra la spedizione dei Mille e l’Unità d’Italia: entrambi si uniscono ai garibaldini, credono negli ideali che infiammano un intero popolo che combatte per liberarsi dagli oppressori e conquistare la libertà. I loro destini si separano soltanto nel momento in cui incontrano Oliva, una donna che ha conosciuto e vissuto sulla propria pelle la violenza e che nei due fratelli suscita sentimenti opposti. Le strade, a questo punto, si dividono e portano Totò oltreoceano alla ricerca di un futuro migliore e Cola a frequentare le stanza di quella nobiltà tanto disprezzata ed osteggiata. Sono figli di Mimiddu, anche lui chianchieri, e di Lucrezia: pare che la loro nascita fosse avvenuta grazie ad una pozione magica preparata da una vecchia strega.

Siciliani da sempre straordinari e condannati

De Caro ricostruisce una parte di Storia che, in qualche modo, ha temprato il carattere dei siciliani, quel carattere che ne determina la straordinarietà  e, allo stesso tempo, li condanna. Sfruttati, maltrattati e spesso malpagati, i siciliani dell’era garibaldina vivevano aspettando che qualcosa cambiasse. “Libertà, rivoluzione, diritti” sono parole che hanno illuso non solo i nostri protagonisti, ma un intero popolo che ancora oggi chiede “pane e giustizia”. E’ l’atavico problema di scacciare un “padrone” per finire nelle grinfie di un altro, del potere che cambia solo abito. L’autore, infatti, tra le righe sembra voler spingere ad una lettura critica del mito di Garibaldi e lo fa citando fatti che non vengono raccontati sui libri di scuola, per esempio che lo sbarco in Sicilia fu favorito dagli inglesi e dalla massoneria.

Le speranze tradite

A dar vita ai moti del 1860 non fu il popolo, ma i nobili e i neo-proprietari terrieri che avevano l’unico interesse di consolidare le basi della loro ricchezza.

Garibaldi parlava di Italia Unita e di popolo italiano unito e libero, dimenticando che il popolo se soffre, se non ha cosa mangiare, se sente sulla propria pelle i soprusi, sarà sempre un popolo infelice. La libertà per i siciliani non era il pane, ma eliminare definitivamente coloro che glielo negavano vivendo sulle loro spalle.

Le speranze tradite hanno trasformato i siciliani da rivoluzionari in rivoltosi contro il nuovo potere, fino alla cosiddetta rivolta “del sette e mezzo” (perché durò sette giorni e mezzo) che scoppiò a Palermo e in varie parti della Sicilia dal 16 al 22 settembre del 1866.

Come spesso viene ricordato, le conseguenze dell’annessione delle Due Sicilie in un’unica entità statale che ha sempre e solo mantenuto il centro politico, ma soprattutto economico, nel Settentrione sono sotto i nostri occhi. Allora, sembra chiaro che la scelta di De Caro di ambientare le vicende di Cola e Totò in quel contesto storico ha lo scopo di dimostrare che il passato agisce sul presente: per capire la Sicilia di oggi bisogna sapere cosa accadde nel 1860.

Emigrazione, libertà, ribellione

C’è un altro tema trattato dal nostro autore a cui i siciliani sono particolarmente legati: quello dell’emigrazione. Totò è la voce di una generazione di isolani costretti ad abbandonare la propria terra in nome di quel bisogno atavico di libertà, di ribellione alla schiavitù dotata di un grande trasformismo al punto da manifestarsi sempre con facce diverse.

Nel romanzo ruotano personaggi forse non del tutto originali, ma convince il modo in cui vengono tratteggiate le personalità dei due protagonisti, diversi per indole e carattere: ribelle uno, più accondiscendente l’altro, ma legati da un amore che, nonostante tutto, resta indissolubile. La scrittura di De Caro è fluida e scorrevole, consente al lettore di immedesimarsi nei sentimenti, nelle sensazioni, persino negli orrori che vengono narrati. Un romanzo storico, corale e appassionante.

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