Dolcezza sommersa, Caminito “scopre” il presente

Torna in libreria una delle più inquietanti e originali scrittrici contemporanee, che svetta come spiga settembrina su un panorama desertico di paglie già mietute. Ne “L’acqua del lago non è mai dolce”, con un linguaggio lussureggiante e magnetico, Giulia Caminito abbandona il romanzo storico e si tuffa in acque più recenti. Una figlia, una madre, un’intera famiglia in una specie di “gioco dell’oca” attorno al lago di Bracciano, dove la morte aleggia in ogni dove…

Non c’è dolcezza in questa storia.

E Giulia Caminito ci avverte sin dal titolo del suo ultimo romanzo per Bompiani, L’acqua del lago non è mai dolce (304 pagine, 18 euro). Non è acqua che si può bere, questa. È piena di benzina, se ci butti un fiammifero prende fuoco. Non è acqua che lascia spazio a sentimenti, a comprensione. Se non quando è troppo tardi, e la dolcezza, la comprensione, virano al rimpianto, alla nostalgia ipotetica.

Quando l’acqua del lago di Bracciano, succhiata via dalle pompe di Roma, città depredatrice e onnivora, si ritira, emergono rovine, reperti, detriti, città antiche, morti annegati, pale di elicottero. Ed è solo di quelli che possiamo parlare, di archeologia sentimentale, di affetti sepolti da bastioni di difesa, di amori raffreddati da acque gelide di fossato.

In questa sua terza prova narrativa, Giulia Caminito abbandona il romanzo storico e si tuffa in acque più recenti, quelle del G8 di Genova, dell’11 settembre e degli anni che ne conseguono.

L’abitudine alla lotta

La storia (ed è storia tributaria a Morante, per forza e contesto) esplode sin dalle prime pagine: Antonia, la madre della protagonista, rossa di capelli e di fede, occupa solitaria un ufficio dell’Ater, pretende l’assegnazione di una casa popolare, lei moglie di invalido con quattro figli a carico. Ed è l’abitudine alla lotta, alla rivendicazione del diritto che è il tema portante dell’inizio del libro.

Antonia educa così i suoi figli, a combattere per ciò che è dovuto, per ciò che è giusto, ma nel rispetto degli altri, nel rispetto, soprattutto del bene comune. E costringe la figlia allo studio, la spoglia di fronzoli, di orpelli che non si possono permettere, la focalizza, lama acuta e determinata, al riscatto sociale. In lei, suo doppio fulvo, Antonia proietta il suo desiderio di rivalsa. Ma nella figlia, una volta raggiunta l’adolescenza, la rivalsa, la rivalsa obbligatoria, si trasforma presto in rancore. In rabbia, rancore e violenza, con picchi insospettabili e inaspettati (ginocchia fracassate, parabrezza sfondati, l’assassinio di un cinghiale, automobili incendiate, pestaggi all’annegamento).

Un grumo nero, una ragazza cattiva

Della figlia, della protagonista, dell’io narrante, conosciamo soltanto alla fine il nome, un nome, Gaia, che è antitetico a ciò che lei è, un battesimo di gioia, mentre lei è un grumo nero, una ragazza cattiva.

E per antitesi, per antinomie, per ossimori procede il linguaggio di Caminito, linguaggio solenne, a volte sontuoso, spesso lacerante, da ferita non rimarginabile, come quelle che la protagonista infligge, come quelle che la protagonista più spesso subisce.

La prima, la più grave, quella di essere sradicata da Roma, grazie a uno scambio sottobanco di case popolari, ed essere costretta alla provincia, ad Anguillara Sabazia, borgo medievale sul lago di Bracciano, nella periferia della periferia, in case fuori dal mondo e limitrofe solo a incroci d’asfalto e al nulla di un paesazzo rattrappito, nell’ostracismo ignorante della popolazione indigena, nella chiusura Ralph Lauren del generone romano, bottegai arricchiti isolati in ville lussureggianti con sale hobby e acefale statue fintoromane nei giardini.

Sulle rive di un lago che dal balconcino con vaso di aloe della casa di Gaia neanche si vede. Un lago che appare dopo, limaccioso e pericoloso, un lago fatto di mulinelli e alghe nere, un lago sul cui fondo alloggia un presepe che nessuno ha mai visto, ma che sicuramente c’è, un tesoro nascosto che la protagonista non riesce a scovare.

Galleggiare a stento

Nonostante provi a scavare, nonostante provi a nuotare, Gaia a stento riesce a a galleggiare, a sopravvivere senza forse un senso finale, si laureerà in filosofia ma per fare cosa? Si intravede a tratti un baluginio lontano, una promessa di speranza, che però Giulia Caminito/Gaia è brava a seppellire in elenchi di difesa, in barriere di protezione dove inciampino gambe e ruote di motorini truccati.

Magistrale l’elenco con cui Gaia rinfaccia alla madre i motivi per cui la odia, celando alla fine il vero motivo, l’allontanamento da casa del fratellastro anarchico Mariano:

Ma forse avrei dovuto urlare: sei tu, sei tu certamente che mi tormenti e poi il mondo tutto, e poi quello che non ho, in primis la televisione, i telefilm su Italia Uno, le mèches bionde ai capelli, le figurine dei calciatori, il Game Boy, la PlayStation, Tomb Raider, tutti i libri che m’hai vietato, le Lelli Kelly luminose, i Chupa Chups da succhiare ogni pomeriggio senza sentirti dire che mi cadranno i denti, i tiri alle sigarette senza temere di finire sdraiata su una panchina, il corso di nuoto, di pallavolo, di teatro, il cellulare che trilla e trilla e non si stanca mai, il McDonald’s dove festeggiare il compleanno, la borsa di Guess da abbinare alle scarpe, miliardi e miriadi di scarpe Nike e Adidas, i costumi Sundek e le magliette con Winnie the Pooh, le compilation del Festivalbar, i dischi di Britney Spears, le uscite pomeridiane alle discoteche per minorenni, la minicar, il motorino con le luci al neon sotto alla pedana, le Big Babol da masticare in classe, il fumo da sciogliere sul palmo della mano e gli occhi lucidi di mio fratello, tutto m’ha tormentato, tutto, come i pesci che stanno zitti anche se la gente mi accusa.

Alla fine, Gaia torna al punto di partenza, con una famiglia che si ricompone, ma si ricompone attorno a cosa? Si torna al Via! In questo gioco dell’oca attorno al lago di Bracciano, in questo Monopoli dove a stento si riesce a occupare una casa dell’Ater, dove i soldi finti per comprare Vicolo Stretto bisogna rubarli scassinando case e spacciando fumo. Dove la morte aleggia in ogni dove, per suicidio da soffocamento, per radiazione d’antenna di Radio Vaticana.

È un romanzo di formazione questo? È narrativa di conversione? Ne usciamo migliori assieme a Gaia o abbaiamo alla luna la sua solitaria disperazione? Ci immergiamo in flussi narrativi poderosi e violenti, che scorrono sotto la superficie infetta del lago. Sopra niente cambia e tutto annega, in una provincia neghittosa e asfittica, avvolta intorno al suo ombelico postprandiale e incapace di cavalcare via, foss’anche su un cavallo azzoppato.

Ma noi, con Caminito, cavalchiamo eccome, ci abbandoniamo al suo linguaggio lussureggiante e magnetico, a volte remoto, e veniamo trascinati nei gorghi, ci riempiamo narici e timpani di acqua di carburi, e risorgiamo stenti e smozzichi dalle pagine di una delle più inquietanti e originali scrittrici contemporanee, che svetta come spiga settembrina su un panorama desertico di paglie già mietute.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *