Il verista Douglas Stuart e la madre meschina e amorevole

Douglas Stuart ha riversato il bagaglio personale nel super debutto “Storia di Shuggie Bain”, con cui ha vinto il Booker Prize. Un racconto personalissimo, trasfigurato letterariamente, e fedele fin nei più piccoli dettagli alla quotidianità dei sobborghi operai scozzesi durante l’austerity thatcheriana. Al centro della scena una madre, Agnes, girasole segnato da fragilità, dipendenza e volubilità…

 

Una madre io l’ho avuta,
viva ardente
sempre via con la mente
inetta a vivere.
Sarà stata poi lei? Mai le ho dormito in grembo.
Era un uccello
che migrava
con le ali tarpate.
Così io non ho misericordia di me stessa,
e non ho niente che mi abbracci dentro.

Sono versi di Anna Maria Carpi. Bellissimi e dolenti. Riassumono con sorprendente precisone la trama di Storia di Shuggie Bain (528 pagine, 21 euro), vincitore del Booker Prize 2020, romanzo d’esordio di Douglas Stuart, tradotto da Carlo Prosperi per l’editore Mondadori.

Un bimbo della periferia di Glasgow

Parafrasando Shakespeare azzardo nell’affermare che siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i libri che leggiamo. Se si potesse ispezionare il mio database spirituale, dunque, rivelerebbe due componenti principali: i romanzi che hanno come protagonisti giovanissimi – forse perché devo la mia dedizione alla lettura a quel David Copperfield di Charles Dickens divorato precocemente a soli sette anni – e quelli ambientati nel Regno Unito – ancora una volta c’entrano ragioni sentimentali: vi emigrai giovanissima e là vive oggi una delle mie figlie. La Storia di Shuggie Bain – nemmeno a dirlo – le include entrambe, narrando di un bambino della periferia di Glasgow. Già solo per questo, le probabilità che aprisse una breccia nel mio cuore erano altissime. Valore aggiunto, poi, è la poderosa traccia autobiografica che lega l’autore alle cronache del libro e determina nel lettore una alchemica compenetrazione ad altissimo tasso empatico alla quale non sono sfuggita.
Caduta, come da previsione, nella rete tesa da Stuart, irreparabilmente innamorata del suo alter ego letterario Shuggie, faccio fatica ad organizzare in un discorso coerente il caotico spettro di sentimenti nel quale mi crogiolo adesso. Mi obbligano ad accantonare la voce compassata che solitamente utilizzo nei mei consigli di lettura a vantaggio di un’altra meno analitica e molto più passionale.

Storia desolante e appassionante

Era dai tempi del romanzo Le ceneri di Angela di Frank McCourt o del film Billy Elliot, che non mi capitava una storia così amara, desolante ma altrettanto appassionante.
Shuggie Bain è il terzogenito di Agnes e Shug Bain. Lei è una casalinga visionaria e insoddisfatta, già madre di Catherine e Leek, nati da un precedente matrimonio con un bravo cattolico noiosamente dedito alla famiglia, dal quale fugge a gambe levate alla prima occasione – che chiameremo Shug – abbagliata da una chimerica speranza di felicità. Lui è un tassista narcisista, maschilista e donnaiolo, del pari divorziato, che ha abbandonato, oltre alla ex, ben quattro figli. Shuggie, lungi dall’essere il frutto dell’amore tra i due, è piuttosto il prodotto accidentale di un’unione nata sotto una cattiva stella e destinata a morire all’ombra di una peggiore. Le peripezie economiche motivate da finanze vacillantissime, ma soprattutto il rapporto di forza esercitato da Shug sulla moglie, costantemente e impunemente umiliata dai tradimenti che subisce sotto ricatto di abbandono, finiscono per convertire in dipendenza cronica – purtroppo con esito fatale – la consolatoria inclinazione di Agnes all’alcool – in verità rifugio alquanto comune nel contesto sociale a cui appartiene.

Un cucciolo fuori dal comune

Lo squilibrio e la precarietà dominanti in famiglia si riverberano in eguale misura sui figli, sebbene naturalmente a fare la differenza siano i rispettivi temperamenti e personalità, ma soprattutto le età individuali, che sollecitano a ciascuno una diversa strategia di sopravvivenza. Catherine si emancipa a modo suo, incatenandosi in un matrimonio precoce che la porta in Sud Africa. Leek, trincerato in una tattica di ostinati silenzi e con il conforto di una grande passione per il disegno, resiste più a lungo, certamente in virtù dell’attaccamento ad Agnes ma soprattutto al fratello minore, di cui rimane, anche a distanza, l’angelo custode. Nemmeno a dirlo, il cerino acceso resta tra le mani del cucciolo di casa, Shuggie, il quale con una generosità e un’abnegazione che travalicano di gran misura l’amor filiale, soccorso da un’intelligenza e una sensibilità fuori dal comune, si occupa di Agnes trascurando e la cura di sé, e di combattere le battaglie implicate dalla crescita: quella con il corpo, che gli invia input di difficile decodifica circa la sua identità sessuale, e quella contro i bulli appostati fuori dalla porta, pronti a sferrare colpi.

Lo sguardo ammaliato di un figlio

Douglas Stuart, nato e cresciuto negli anni Ottanta in una periferia di Glasgow, sebbene viva e lavori oggi a New York, condivide con Shuggie almeno un altro paio di significativi dettagli biografici. Anch’egli ultimo di tre fratelli, è rimasto orfano di madre, vittima dell’alcolismo, in giovane età. Corrispondenze che spiegano la forza e la credibilità del romanzo. «Scrivere di ciò che si conosce». Imperativo che l’autore ha interpretato alla lettera. Se ci intenerisce la mansuetudine di Shuggie, ci commuove l’ostinata solitudine che lo tiene stretto, ci stizzisce lo stato di bisogno, spirituale e ancor più materiale in cui versa, è perché Stuart ha semplicemente -si fa per dire- trasposto su carta con una franchezza percepibile, il suo bagaglio emozionale. E se ancor più siamo coinvolti da Agnes, girasole segnato da fragilità, dipendenza e volubilità, è senza dubbio perché gli riesce di rarefare, fino quasi a neutralizzarla, la filigrana di dolore, rabbia, delusione dalla quale tira fuori i ricordi, filtrandola attraverso lo sguardo ammaliato di un figlio che, sia come sia, non può impedirsi di adorare quella unica madre, “viva ardente/ sempre via con la mente/ inetta a vivere”, che gli è toccata in sorte. È così che placa il biasimo di noi lettori, disinnesca il nostro impulso a condannarla: mostrandocela con i suoi occhi. Percepiamo Agnes come la ricorderà per sempre Shuggie: incredibilmente bella nella sua somiglianza a Elizabeth Taylor, elegante e in ordine, piena di amor proprio. Capace, si, di terribili meschinità nel delirio alcolico, ma intensamente amorevole nei momenti di lucidità.

Miniatura di gran pregio

La carica di realismo, che scorre nella trama del romanzo di Douglas Stuart vivificandola, non si arresta entro quel confine e dirompe altresì nella perfetta ambientazione della storia, fedele fin nei più piccoli dettagli alla quotidianità dei sobborghi operai scozzesi durante l’austerity thatcheriana. I cortili di cemento, i cumuli di macerie ad integrare il panorama urbano, le case con i contatori dell’elettricità e del gas “a monetine” e le cucine con i pavimenti in linoleum. Le nidiate di scruffy baby (con il moccio al naso e trasandati) fuori dai piedi degli adulti a sciamare per le strade dei quartieri, gli acquisti a credito o sul mitico catalogo Freeman, i pub pieni e i fiumi di birra in cui affogare i sogni spezzati. Rifiniture di una miniatura di gran pregio, un vero e proprio colpo al cuore per chi, come la sottoscritta, quel Regno Unito lo ha conosciuto da vicino. Certamente la narrativa sperimentale rappresenta una necessità inderogabile per la letteratura, eppure romanzi di impianto classico che centrano un risultato di qualità come quello raggiunto da Storia di Shuggie Bain, hanno da dire sempre la loro. Con la sua ispirazione verista Douglas Stuart si è giocato sorprendentemente bene le sue carte: un esito convincente al cento per cento. Leggere per credere.

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