Dar forma a un dolore? Attraversando Pratolini ed Ernaux

Il dolore? Può essere, in parte, addomesticato, cristallizzato, sublimato. Del resto, la letteratura è, sempre, costruzione di uno spazio che nella realtà non trova posto. Esemplari certe pagine di Vasco Pratolini ed Annie Ernaux. In “Cronaca familiare”, colloquio col fratello morto, Pratolini realizza che chi va via paradossalmente acquista vita e nitidezza solo quando muore. Ne “L’altra figlia” Ernaux riempie un’assenza, quella della sorella mai conosciuta, un’assenza da circoscrivere in modo da poterla padroneggiare; una possibilità virtuale che prende forma nel mondo dei condizionali: lo stesso della letteratura

Come si dà forma a un dolore? È una domanda ossessiva, martellante, che almeno una volta, prima o poi, incontra tutti. Accade quando i contorni del nostro mondo iniziano a sbiadirsi, a confondersi: un giorno, mentre prepari il caffè, squilla il telefono ed è tua madre – amore, è accaduto d’improvviso, Carlo è morto. E allora, nel silenzio che inizia pian piano ad invadere ogni spazio aperto e chiuso attorno a te, sette parole vengono fuori, con la forza di un grido, come un boato in una voragine: come si dà forma a un dolore? È una domanda vuota, sinistra, che viene a chiedere un conto per il quale non eravamo preparati: «anche se studierai come io mai ho potuto, ricorda questo…, che a morire non s’impara, non s’impara… Che la morte tradisce sempre» (L’ombra sulle colline, Giovanni Arpino). Eppure una forma bisogna pur trovarla, prima o poi: che sia quella di un silenzio grigio, di un pianto sommesso, di un pugno nel muro, di un coltello che squarcia una tela o di una penna che scorre via sulla pagina. È un inseguimento, un corpo a corpo, ossessivo quanto lo è il suono martellante di quelle sette parole nella mente; un parto sanguinolento, che ha il senso di uno strappo, di una conquista e una perdita allo stesso tempo.

Un fratello, una lacuna da colmare

Sulla prima pagina di Cronaca Familiare di Vasco Pratolini, subito dopo l’esergo, si trova un breve paragrafo “al lettore”:

Questo libro non è un’opera di fantasia. È un colloquio dell’autore con suo fratello morto. L’autore, scrivendo, cercava consolazione, non altro. Egli ha il rimorso di avere appena intuita la spiritualità del fratello, e troppo tardi. Queste pagine si offrono quindi come una sterile espiazione

Vasco Pratolini scrive queste righe due anni dopo la scomparsa del fratello Ferruccio, condotto prematuramente alla morte da una malattia sconosciuta e annichilente. Le scrive per colmare una lacuna, per tentare di mantenere un filo tra sé e quest’uomo sconosciuto che aveva da poco imparato ad amare, dopo anni di lontananza. È una storia commovente, delicata, che ripercorre il tempo andato e lo cristallizza per sempre, a partire dal momento in cui Ferruccio e Vasco si erano separati subito dopo la morte della madre. Sono ricordi sparsi, piccole cronache: un giorno su una carrozza, da bambini, in cui i due avevano litigato violentemente; una sera d’inverno in un biliardo, quando avevano quasi finto di non conoscersi; una notte passata insieme nello stesso letto, a raccontarsi per la prima volta e davvero, corpo a corpo:

parlavamo, immobili per mantenere il calore che i nostri corpi avevano conquistato […] a volte il tuo respiro mi giungeva in viso, mi era gradito e cercavo di raccoglierlo più da vicino […] Parlavamo della mamma, e di tante altre cose

La scrittura, esercizio di risarcimento

La scrittura si fa strada nel dolore in punta di piedi, silenziosamente, sorprendendolo negli interstizi, nelle cose taciute. È uno stile asciutto e minimale, eppure estremamente lirico. Pratolini sembra accarezzare con le parole il corpo martoriato di Ferruccio, in un atto d’amore e sublimazione, e il suo sguardo è pieno di affetto e di nostalgia, persino verso i dettagli più minuti: «l’acquamarina dei tuoi occhi era come diluita, velata da una cortina di bianco». Mentre si legge diventa sempre più difficile prestare fede a quell’avvertimento iniziale con cui il lettore era stato accolto, perché questo libro assomiglia in tutto e per tutto a un romanzo, a una rielaborazione letteraria; e questo Tu a cui ricorsivamente l’io narrante si rivolge assume la forma di una creatura partorita personalmente, ri-costruita in ogni paragrafo. Non sbagliava, Pratolini, a definirlo un colloquio con un morto. Queste pagine sono intime, calde, familiari, sfacciatamente oneste, e lo sono proprio in virtù del fatto che Ferruccio ormai non esiste più: perché hanno la consistenza delle cose che ci portiamo addosso ogni giorno senza avere mai il coraggio di esprimere. Non ci sarebbe alcuna Cronaca familiare se Pratolini non avesse improvvisamente realizzato che chi va via ci rimane sconosciuto, in maniera ineluttabile e perentoria, e che anzi, paradossalmente, acquista vita e nitidezza solo quando muore: «avevo scoperto l’esistenza della mamma dopo la sua morte». E allora la scrittura interviene come necessario esercizio di risarcimento, come espiazione, appunto: per cristallizzare la memoria e tentare, nello spazio possibile della letteratura, di intuire ciò che nella vita ci è rimasto vago come un’ombra.

Chi amiamo resta inaccessibile

La scrittura di Annie Ernaux nasce dalla stessa consapevolezza: chi amiamo rimane inaccessibile. E non importa quanto tempo ci abbiamo passato insieme, non importa se si tratta di papà, mamma, di persone che hanno affollato la nostra quotidianità e di cui sapremmo ritrarre con precisione ogni gesto: la vita degli altri è sempre un enigma. Ne Il posto è la morte del padre lo spunto della narrazione:

metterò assieme le parole, i gesti, i gusti di mio padre, i fatti di rilievo della sua vita, tutti i segni possibili di un’esistenza che ho condiviso anch’io. Nessuna poesia del ricordo […] la scrittura piatta mi viene naturale, la stessa che utilizzavo un tempo scrivendo ai miei per dare le notizie essenziali.

Ed effettivamente la scrittura scorre così, piatta, asciutta, quasi come se il foglio diventasse un mezzo di astrazione dal sé attraverso cui la vita e la memoria diventano oggetti da indagare. Si tratta di un tentativo di comprensione, anche in questo caso con la volontà di colmare una lacuna che aveva resi la scrittrice e il padre distanti, come due mondi speculari. Lui, lavoratore instancabile, parsimonioso, macchiato dallo stigma dell’umiltà e della povertà; lei, cresciuta nell’ossessione dello sguardo altrui da bambina, convive, da adulta, con la consapevolezza che aver abbandonato quel mondo umile è come averlo colpevolmente rinnegato. In questo libro i ricordi dei gesti e degli sguardi del padre si mescolano agli attriti che inevitabilmente derivano da questa lenta sovrapposizione tra elementi discordanti. Ed è un tentativo di riconciliazione, un modo per mettere in ordine, per ricongiungersi a una figura che ormai rischia di perdersi nel vuoto. È l’indagine di un interrogativo e lo sforzo di dare una risposta, attraverso una rielaborazione che, inevitabilmente, tradisce di continuo la vita per come è stata:

sforzandomi di fare emergere la trama significativa di una vita da un insieme di fatti e scelte, ho l’impressione di perdere, strada facendo, lo specifico profilo della figura di mio padre. L’ossatura tende a prendere il posto di tutto il resto, l’idea a correre da sola.

Memoria, cioé riconfigurazione e interpretazione

Annie intuisce, durante la scrittura, che questo padre che rincorre non esiste se non all’interno dei margini dei fogli che ha davanti. Perché la memoria è, sempre, riconfigurazione, interpretazione, e la scrittura non fa che cementificare ciò che già aveva cambiato forma nella mente. E infatti nel successivo L’altra figlia la parola diventa un mezzo per riempire un’assenza e costruirla letterariamente. Ancora una volta è una morta la protagonista del romanzo, ma in questo caso è una morta mai conosciuta in prima persona. È la sorella fantasma, quella di cui la scrittrice viene a sapere distrattamente, un giorno, origliando una conversazione della madre. Questa figlia, quest’altra figlia, è sorella e nemica, è assenza da circoscrivere in modo da poterla padroneggiare; è possibilità virtuale che nasce e prende forma nel mondo dei condizionali: lo stesso della letteratura. E infatti il colloquio con questa morta – per citare Pratolini – è possibile solo attraverso le parole:

tra me e te non c’è del tempo. Ci sono delle parole che non sono mai cambiate. […] Io non scrivo perché tu sei morta. Tu sei morta perché io possa scrivere.

La scrittura, espiazione e catarsi

Scrivere significa allora dare parola a chi non c’è più e a chi non c’è mai stato, ed è, allo stesso tempo, espiazione e catarsi, purga per un dolore che rimane privato e da cui solo chi scrive ha bisogno di riscattarsi. Perché i morti, alla fine, non vivono se non all’interno della rappresentazione che ne fanno i vivi. Non hanno voce, neanche nel momento in cui si crede di dargliela, né consistenza. Tra loro e i vivi esistono solo delle parole, delle immagini che presto sbiadiscono per essere ricreate, incessantemente, dal pensiero, nel tentativo di appigliarsi a qualsiasi cosa possa restituire ciò che è andato irrimediabilmente perduto.

E allora, come si dà forma a un dolore? Si tentenna nel dare una risposta perché una non sarebbe sufficiente. Ognuno lo fa come può, e nessuno ci riesce mai davvero. Il dolore non può essere ridotto completamente. E non si estingue. Rimane incastrato tra le foto, in una dedica sbiadita che neanche ricordavamo di avere, o sul divano, nella forma che prende il posto prima quotidianamente occupato da chi ormai non è più. Ma può essere, in parte, addomesticato, cristallizzato. Anzi, la parola adatta è: sublimato. Il dolore diventa schizzo, parola, melodia, e rimane come monumento eterno, come pietra tombale. Del resto, la letteratura è, sempre, costruzione di uno spazio che nella realtà non trova posto. E il linguaggio del dolore è un linguaggio straniero, da ammansire con pazienza, in uno sforzo di dialogo e compromesso tra passato e finzione, esperienza e rappresentazione. Il risultato è avere l’illusione di aver sconfitto, almeno per un momento, l’oblio e la morte; di aver resuscitato ciò che prima era inerte perché muto, impossibilitato ad esprimersi. E allora non c’è da stupirsi se, quando qualcuno va via, la nostra prima tentazione è quella di raccontare chi era, mettendo in ordine i ricordi: perché in quella narrazione ritrova posto chi ormai non ne ha più nella vita quotidiana, e le parole siglano un omaggio, un risarcimento, una riconciliazione.

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