Vlautin e le minuscole vite di un’America dimenticata

Molto più della fuga di due fratelli per le strade del Nevada, piuttosto la quintessenza del viaggio, soprattutto interiore. Ecco cosa racconta Willy Vlautin in “Motel Life”. E scorrono stanze di motel in cui tutto può iniziare e finire in poche ore, perfino l’amore…

Al netto del fatto che Willy Vlautin sia un musicista di talento e che, quando nel 2006 uscì Motel Life (202 pagine, 18 euro) fosse già noto al grande pubblico, ci troviamo innegabilmente di fronte ad un autore intenso e conciso, abituato a lavorare sulla scelta lessicale in modo da trarne, ogni volta, il massimo risultato.

Paragonato più volte ai grandi nomi della letteratura americana, da Carver a Fante a Steinbeck, Vlautin condivide con loro il campo d’azione e un certo stile, che fonde uno studiato minimalismo ad una certa rilassatezza gergale.

Vlautin, insomma, tiene a farci sapere che è uno di noi, uno tra i tanti nello strabordante mucchio di quelle vite minime di cui non si parla mai: orfani, lavoratori saltuari, perdenti abituati a tutto, gente incapace perfino di immaginarsela una vittoria.

On the road

E, per farci sentire la sua vicinanza, ci racconta questa storia On the road, che è molto più del viaggio di due fratelli in fuga per le strade del Nevada, perché incarna la quintessenza del viaggio, che è soprattutto una dimensione interiore.

Buttati sui sedili sfatti di una decrepita Dodge del ’74, con un cartone di birre e un senso di colpa lacerante, Jerry Lee e Frank sfrecciano allucinati verso il Nevada. Devono espiare un omicidio terribile, capitato per caso, assimilabile al volo di un’anatra che, convinta della sua traiettoria, si schianta, invece, contro il vetro di una finestra e si spezza il collo. Allo stesso modo Jerry e Frank affrontano l’imperscrutabile, invincibile disegno divino di un dio in cui non credono. A metterli al mondo una donna sola, incapace di provare la minima forma di rancore, che li ha accuditi fino a quando un cancro non se l’è portata via, strappandoli ad un’infanzia per nulla serena, eppure ancora affrontabile.

Ecco, è da qui che inizia veramente il viaggio di Motel Life – in Italia edito da Jimenez nella traduzione di Gioia Guerzoni – da quando due orfani abbandonano la scuola e ancora minorenni iniziano a lavorare, uno in un cementificio e l’altro in una rivendita di auto usate, senz’altra prospettiva che sopravvivere ad un dolore spiazzante.

Un presente delirante e un passato ferito

In questa storia accade di tutto, e accade a più riprese. Vlautin ci muove a suo piacimento tra un presente delirante – gli accampamenti di fortuna, i soldi raggranellati in qualche modo, i tentativi di farla finita ed un inscalfibile legame di fratellanza – e un passato ferito che, come una marea, ritorna in quelle stesse, decadenti stanze di Motel ormai abitate dagli indigenti, camere in cui tutto può iniziare e finire in poche ore, perfino l’amore.

Il Nevada di Jerry Lee e Frank è quello della neve e del sole che le tramonta addosso, è quello dei pullman a lunga percorrenza e degli scarponi pesanti indossati senza pantaloni, è quello degli addii e delle ultime speranze; è un’entità che continua drammaticamente a esistere e a girare come una giostra sgangherata su cui qualcuno ci ha messi senza pagarci il biglietto, è la casa che abbiamo dovuto vendere e l’auto a cui abbiamo dato fuoco, ed è l’occasione che qualcuno, leggendone, si ricordi di noi.

Non la salvezza, ma l’umanità

Vlautin scrive questa storia senza cercare la salvezza per i suoi personaggi, lui la scrive per raccontare di tutta l’umanità – dimenticata e a volte inguardabile – che possiede.

Non sei un perdente, figliolo, ma se continui a comportarti da perdente non so cosa può succedere. Ho solo questo da dirti: non devi prendere decisioni pensando che sei un ladruncolo, prendile pensando che sei un grand’uomo, o perlomeno un buonuomo.

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