A lunga conservazione. Orfeo e lo sguardo inopportuno

Il mito di Orfeo ed Euridice attraversa topoi ed epoche. Ha affascinato e fatto interrogare molti artisti, ispirando numerosissime opere di scultura, pittura, letteratura, opera lirica, teatro, cinema, fumetti, animazione e videogiochi. La rubrica “A lunga conversazione” (a questo link la prima puntata) riparte da qui

Il tema mi sta molto a cuore, anzi, mi circola dentro. Il mio primo romanzo, un paio di allestimenti scenici e un bel po’ di attività seminariale ne fanno fede.

Alle origini, la vicenda di Orfeo ed Euridice si inquadra nel topos narrativo della catàbasi, ovvero l’esperienza della discesa tra le Ombre. L’esempio più eclatante è la Commedia di Dante; e poi le discese di Dioniso, Eracle, Teseo, Odisseo, Enea, Psiche. La mitologia comparata, peraltro, ha dimostrato la ricorsività di questo topos a tutte le latitudini.

Ma da un certo momento in poi, il mito di Orfeo ed Euridice acquisisce lo stigma d’un altro topos: il tema della proibizione. Il peccato originale di Adamo ed Eva nel Giardino dell’Eden, ad esempio, inaugura l’antropogonia giudaico-cristiana, così come il tema dell’unica cosa proibita è assai diffuso nel folklore.

Ora, a livello mitologico, ovvero paradigmatico, le cause che determinano l’infrazione mettono in campo contrasti abissali (come in Antigone) o crudelmente ambigui (come in Adamo ed Eva, la cui scelta, che non poteva certo sfuggire all’onniscienza divina, determina la nostra vicenda esistenziale nel segno del peccato originale); o invece una disubbidienza indecifrabile, che rimette le possibili esegesi alla posterità. È questo il caso di Orfeo che scende nel mondo dei morti e implora il dio di restituirgli Euridice, la sua donna. Ci riesce, a patto che nella risalita verso il mondo dei vivi lui non si volti a guardarla. Invece a pochi passi dal traguardo Orfeo si gira e la perde per sempre. Perché mai?

Fortuna millenaria e variazioni

Questo mito ha conosciuto una fortuna millenaria, alimentando una cornucopia di variazioni e ripensamenti. Intorno alla sfuggente reciprocità di Eros e Thanatos risuona il sublime. Per dirla con Schopenhauer, siamo al cospetto di un’esperienza duplice, che tuttavia finisce col rendere inconsistente la volontà e annientare l’individuo.

Fra le tante riscritture, qui mi interessa accennare a quelle letterarie che offrono una riflessione sul voltarsi di Orfeo. In diverse riscritture recenti, soprattutto audiovisive, infatti, i racconti spostano il nord magnetico in altre direzioni, puntando sulla perdita o sulla salvezza impossibile.
La fama di Orfeo è attestata già intorno al VI secolo aC, sicuramente in quanto eponimo dell’Orfismo, un culto misterico che grande influenza ha avuto nel pensiero occidentale, introducendo il concetto dell’immortalità dell’anima. Al tempo stesso, Orfeo viene assorbito dal mito che lo vuole nato in Tracia, terra di sciamani, figlio della Musa Calliope, ispiratrice della poesia, e del dio Apollo (o del fiume Eagro, in altra variante). E a donargli la lira sarà il dio Mercurio. Insomma, quel che si dice avere natali illustri.

Un incantatore apollineo e dionisiaco

Egli riassume in sé tanto lo spirito apollineo che quello dionisiaco; canta, suona la lira e incarna il potere sovrannaturale della musica. È un incantatore universale, lui. Tutte le narrazioni antiche insistono sulla potenza della musica e della poesia, in grado di forzare i nessi che governano l’esistenza e di placare il volto ferino della natura.

Orfeo appare nel ciclo degli Argonauti, l’eroico equipaggio della nave Argo che naviga alla volta della Colchide per conquistare il Vello d’Oro; e in quella circostanza la sua musica riuscirà addirittura a sopraffare le lusinghe delle sirene e a ridurle al silenzio e all’annichilimento. (Più prosaicamente, alcune fonti del ciclo degli Argonauti lasciano intendere che Orfeo ebbe la meglio sulle Sirene perché strepitava come un ossesso. Sic!)

Ma la sua fama mitologica resterà principalmente legata a Euridice; e a ben vedere, nel suo caso, più che di catàbasi si dovrebbe parlare di anàbasi, visto che il problema sta tutto nella risalita e nell’impossibilità a stare ai patti col dio. Ma tant’è.

Questa favola ha ispirato numerosissime opere attraversando tutti i domini dell’arte fino ai nostri tempi: scultura, pittura, letteratura, opera lirica, teatro, cinema, fumetti, animazione e finanche i videogiochi: siamo, insomma, ben oltre un tema ultraresistente come certi soggetti pittorici poetici e operistici costantemente in voga tra rinascimento e neoclassicismo. Con Orfeo siamo nella Psiche.

Ora, per certo il tema della catàbasi orfica ha origini antichissime; quel che tuttavia non ci è dato di conoscere con certezza è l’esito dell’avventura. È ben possibile che le prime narrazioni prevedessero un lieto fine, come risulterebbe da un frammento del poeta Ermesianatte, attivo nel III secolo aC.

Ci sono poi diverse copie, alcune di epoca romana, di uno splendido bassorilievo originale greco databile verso la fine del V sec e attribuito alla scuola di Fidia. Sono tre figure che sostano: a sinistra c’è il dio Hermes, l’inventore della lira, in qualità di psicopompo, la guida delle anime nell’Oltretomba; a destra c’è Orfeo e al centro Euridice. Lo sguardo di Orfeo è rivolto alla donna, le cui mani sono in contatto sia col suo amato che col dio.


Ciò detto, il problema si sposta sull’interpretazione degli studiosi. Cosa rappresenta quella sosta? A quale momento della narrazione si riferisce? Silenzio mestizia e pudore sono il mood della scena. Il rilievo rappresenta un commiato accorato o lo stupore del riconquistato possesso?

Il parere degli studiosi non è unanime. Se si trattasse di un commiato significherebbe che il noli respicere, l’ordine di non girarsi con annessa infrazione, era già presente come variante almeno dal V secolo aC. Altrimenti dobbiamo contentarci di datare il noli respicere a Virgilio (Georgiche, libro IV).
Ma facciamo un breve salto indietro. Nel Simposio, Platone, la cui diffidenza per l’arte e per gli artisti è ben nota, inventa una variante del mito invero funzionale alle sue opinioni, tacciando Orfeo di pusillanimità: chi pretende di entrare e uscire da vivo nel regno dei morti è un uomo che non merita il successo. Spassosissimo il punto in cui Platone, per bocca di Fedro, dice che gli dei stimarono Orfeo un uomo debole «in quanto suonatore di cetra». Ovvero: mai fidarsi dei guitti. Sarei tentato di metterci una faccina ridens. Infatti, secondo il filosofo, il vecchio Ade mostra al cantore solo il fantasma di Euridice, dopodiché il musico va via con le pive nel sacco.

Tre ipotesi

A parte quel detrattore di Platone, tutte le favole asseverano l’eminenza di Orfeo in quanto sovrano del suono. E tuttavia, egli si trasmette alla posterità scomodando un senso che non apparterrebbe al suo statuto: la vista. Orfeo che si gira fonda una mitopoiesi dello sguardo.
Possiamo quindi tornare sui nostri passi.

Da Virgilio in avanti, le risposte fornite al girarsi di Orfeo si muovono fra tre tipologie: un girarsi involontario dovuto a squilibrio, timore o impazienza; un girarsi volontario ‒ di natura da determinare; un girarsi suscitato intenzionalmente da Euridice.

Nella descrizione virgiliana, Orfeo si volta per «improvvisa follia». È l’amor che culmina nella dementia.

Nelle Metamorfosi, Ovidio spiega il girarsi Orfeo adducendo a sua discolpa l’irrefrenabile trepidazione di chi vuole accertarsi della presenza: il dubbio ha la meglio sulla parola del dio: “nel timore che lei non lo seguisse e ansioso di guardarla, volse gli occhi indietro”. Scomparendo fra le brume dell’Averno, la povera Euridice non gli rivolge alcun rimprovero. “Di cosa avrebbe potuto lamentarsi, se non d’essere amata?” è la chiosa clemente di Ovidio.
L’Orfeo di Poliziano, primo dramma italiano ispirato a un soggetto profano, non andrebbe neanche annoverato in questa sede, in quanto testo teatrale. Faccio eccezione perché trovo buffo il modo in cui l’autore governa la svolta, liquidando la questione con una didascalia che prescrive il colpo di teatro: «Orfeo vien cantando alcuni versi lieti e volgesi». Letto così sembra un cretino a spasso nel cimitero di Sanremo. Fuor di celia: il dramma pastorale non era il genere da cui potersi aspettare una solida drammaturgia; per azzardare un paragone: non è un dipinto a tutto tondo, bensì una galleria di disegni ornati.

C’è poco da dire anche sull’Idillio di Orfeo di Giovan Battista Marino che ricalca appieno il senso ovidiano: «con desir curioso / con occhio frettoloso / rotta la legge et obliato il patto / fu per troppo voler poco felice».

Quel geniale ribaltamento dei ruoli

Il prossimo esempio invece è un pezzo forte, anzi fortissimo, benché non molto noto, se non agli anglisti o ai più appassionati lettori britannici. Parlo della lirica Euridice a Orfeo del poeta e drammaturgo Robert Browning (1812-1889), figura di spicco, non senza alterne fortune, dell’età vittoriana.

Browning trova consiglio in un celebre dipinto del suo connazionale Frederic Leighton, Orfeo e Euridice del 1864, nel quale il pittore opera un geniale ribaltamento dei ruoli. È Euridice ad asserire la sua presenza e la sua brama, mentre Orfeo cerca di attenersi alla prescrizione di Ade.


Il testo, peraltro assai breve, merita indiscutibilmente un primo piano:

«Sì, dammi la bocca, gli occhi, la fronte, / e insieme mi prendano ancora – un solo sguardo / ora mi avvolgerà per sempre / per non uscire mai dalla sua luce, / anche se fuori è tenebra. / Tienimi sicura, avvinta / al tuo sguardo eterno. Le pene / d’un tempo, dimenticate, e il terrore / futuro, sfidato – non è mio / il passato né il futuro – guardami!» (Traduz. Angelo Righetti)

Variazioni strappacapelli, chapeau agli autori.

Due appassionati contributi femminili

Seguitando sulla consapevolezza di Euridice ci sono due poetesse che hanno fornito un energico appassionato contributo dal/al punto di vista femminile. Si tratta di Hilda Doolittle (1886-1961) e Margaret Atwood (1939, vivente), entrambe brillanti scrittrici e intellettuali attentissime alle istanze della condizione femminile. Come già in Browning, la voce narrante è quella di Euridice.

Mi limiterò a stralciare pochissimi versi, ma vi invito caldamente a cercare i testi e goderveli parola per parola.
Hilda Doolittle, Eurydice:

[…] “se tu mi avessi lasciato aspettare / dalla mia apatia avrei fatto crescere / la pace, /se mi avessi lasciato riposare con i morti, / avrei dimenticato te /e il passato. […] cos’era che attraversava il mio viso /con la luce proveniente dal tuo / e dal tuo sguardo? /cos’era che hai visto nel mio viso? / la luce del tuo stesso viso, / il fuoco della tua stessa presenza?” (Traduz. Bianca Sorrentino)

Margaret Atwood, Eurydice:

“tu camminavi davanti a me / mi trascinavi di nuovo fuori / alla luce verde che un giorno / aveva messo zanne per uccidermi. / io ero obbediente, ma / torpida, come un braccio / indolenzito; ritornare al tempo /
non era mia scelta. […] io ero la tua allucinazione, in ascolto / e fiorita, e tu mi cantavi […] e mi hai chiamato perché già mi avevi / perduta. […] tu non riuscivi a credere che ero più della tua eco.” (Traduz. Maria Luisa Vezzali)

La passività della Euridice mitologica si riscatta e smaschera l’aberrazione solipsistica di Orfeo.

Il verso squassante di Rilke

Dal canto suo Rainer Maria Rilke, nel suo immenso Orfeo Euridice Hermes (ispirato al rilievo a tre figure di cui sopra) in apparenza ci consegna una risposta non originale (Orfeo si gira perché non udiva rumore di passi dietro di sé).

Ma in realtà Rilke disloca lo sguardo sulla consistenza della morte: Euridice «era radice ormai». Questo verso è squassante. Rilke sancisce una linea metafisica invalicabile, laddove il girarsi di un vivo suona come una bagattella:

“E quando a un tratto il dio [Hermes] / la trattenne e con voce di dolore / pronunciò le parole: – si è voltato / lei non comprese e disse piano: Chi?” (Traduz. Giaime Pintor, corsivo mio).

Da capogiro. Girarsi è solo il sintomo prevedibile dell’imperfezione della vita al cospetto dell’interezza isolante de «l’ardua miniera delle anime».
Il girarsi volontario di Orfeo, già sperimentato da Cocteau in una pièce teatrale, è stato poi ripreso da Cesare Pavese ne L’Inconsolabile e da Gesualdo Bufalino ne Il ritorno di Euridice.

Tre italiani

L’Orfeo di Pavese si gira per spezzare la ciclicità dello spleen: perché ciò che era stato si sarebbe ripetuto; perché la vita con Euridice sarebbe finita di nuovo, perché entrambi, da vivi, si sarebbero portati nel sangue l’orrido ricordo del regno dei morti: «Valeva dunque la pena di rivivere ancora?».

S’avverte tutta la fatica del mestiere di vivere che include anche il tormento dell’uomo Pavese alle prese con la sua impotenza.
L’Orfeo di Bufalino invece cerca deliberatamente il dolore come propellente dell’artisticità. Tutto è già accaduto. Aspettando il barcaiolo che l’avrebbe ricondotta nelle tenebre, Euridice ripensa alla sua vita con Orfeo, sino agli ultimi istanti in quel luogo inanimato, e cerca di capire perché il suo uomo si sia girato.

Ricorda allora d’averlo sorpreso «nel gesto di correre con dita urgenti alla cetra e di tentarne le corde con entusiasmo professionale”.

E veniamo alle più recenti metamorfosi del mito. Nel racconto di Claudio Magris, Lei dunque capirà, è Euridice a chiamarlo, perché lui si giri e la perda. L’Euridice di Magris conosce la ragione che ha spinto Orfeo a cercarla: voleva chiederle notizie dell’al di là. Ma, dopo il trapasso, Euridice non ha appreso nulla di nuovo, sa quindi di non avere alcun mistero da svelargli. Così, piuttosto che confessare al suo Poeta che dietro la Porta non c’è ulteriore conoscenza, preferisce farlo voltare, affinché egli la perda, e la Porta resti chiusa, onde propiziare ancora il canto.
Ovviamente, anche la psicologia e la psicoanalisi hanno indagato la questione. Per quanto concerne la prima, forse sarò cascato male ma ho letto delle ovvietà che non meritano un centimillilitro di inchiostro. La psicoanalisi, per contro, chiama in causa diverse dinamiche. Per citare un po’ maldestramente alcune aree tematiche intersecabili o intersecate di ascendenza freudiana, junghiana e lacaniana: il binomio incesto-castrazione; il lutto e la melanconia; l’identificazione con l’oggetto perduto; la mancanza a essere; la prevalenza dell’inconscio sull’Io; la perdita dell’Anima. Molto più divertente, non c’è che dire.

Quanto alla mia riscrittura del mito, nel romanzo ÒperÉ (acronimo di Orfeo per Euridice) ho escogitato un finale inedito, che travalica tanto le ragioni della disobbedienza che del richiamo; ma non mi pare garbato parlarne in questa sede.

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