Non uno di meno, il fare scuola di Ambrosecchio

“Tutto un rimbalzare di neuroni” di Vanessa Ambrosecchio sta al confine tra letteratura, cronaca di un’esperienza, diario di bordo, riflessione. Un libro che utilizza la Dad per parlare di scuola, di una docente che prova a restare fedele a un’idea di scuola multipla e democratica, una relazione tra adulti e ragazzi dove ci sia spazio per le esperienze educative, ma anche per accoglienza e inclusione…

1. L’illustrazione mostra un ragazzo seduto su una sedia. Affacciato, guarda il cortile. Mentre scrive, osserva i suoi coetanei che giocano a pallone o vanno su un monopattino o si arrampicano. Ma il cortile non è un cortile reale e la finestra a cui sta affacciato il ragazzo è uno smartphone, lo schermo di un cellulare.

Il titolo del libro è Tutto un rimbalzare di neuroni. L’autrice è Vanessa Ambrosecchio. L’editore è Einaudi.

Altre informazioni presenti in copertina. Una citazione tratta dal libro stesso: “Hanno una strana vita, i miei alunni, da quando è cominciata la Dad”.

Non sto a riferire quel che la quarta di copertina o le bandelle interne riportano perché già gli elementi del paratesto fin qui citati parlano abbastanza chiaro ma se apri il libro, il frontespizio riporta il seguente sottotitolo: Il racconto di cosa ci ha tolto la didattica a distanza.

Il lettore che lo trovasse sul bancone di una libreria, già a leggere queste veloci indicazioni, avrebbe capito tutto: che è un libro sulla Dad, la famigerata Didattica a distanza di cui ogni famiglia ha avuto modo di fare esperienza. Ed è un racconto, non un saggio, non un libro tecnico né un manuale per addetti ai lavori.

Un romanzo? Può darsi. Forse un genere ibrido, che sta al confine tra letteratura, cronaca di un’esperienza, diario di bordo, riflessione.

Tutto questo potrebbe bastare e, in effetti, descriverebbe già bene il libro.

Un libro sulla Dad? Rimescoliamo le carte

2. Ma vorrei provare a negare l’evidenza: scompaginare l’assunto rimescolando le carte.

Vorrei provare a sostenere che quello che avete davanti non è un libro sulla Dad.

È piuttosto un libro che utilizza la Dad come occasione per parlare di scuola.

E se l’esperienza della Didattica a distanza dà immediatamente l’avvio al racconto, poi è il fare scuola, in tutta la sua complessità, che prende piede. E il fare scuola anche prima della Dad, il fare scuola di sempre, in ogni condizione e circostanza.

Perché importa anche poco, alla fin fine, come e in che circostanze la scuola venga fatta. Questo è un libro sui ragazzi che vanno a scuola, sui docenti che fanno scuola e che poi, non potendo per un periodo recarsi fisicamente in quel luogo fisico chiamato scuola, si adattano a fare scuola da casa in maniera inedita, strana, in una maniera mai vista prima, arrangiandosi con quel che si può e per come si può.

Perché la scuola da sempre è così. Anzi la parola scuola, a dirla tutta, declinata al singolare, è una parola che non ha molto senso. La parola scuola ha senso solo declinata al plurale.

In quest’ultimo anno e mezzo abbiamo, certo, faticato. Abbiamo maledetto computer, connessioni, smartphone, social network quali whatsapp, ecc. E tutto questo c’è nel libro di Vanessa Ambrosecchio (nella foto di Rori Palazzo): c’è il racconto, che spesso fa ridere o sorridere, sulle difficoltà di connessione, sulla linea che cade, sugli studenti che si nascondono oscurandosi, sull’aspetto orribile che avevamo noi docenti durante le riunioni a distanza degli organi collegiali.

Ma quel che risulta subito chiaro è che la stranissima esperienza che ci è da poco capitata, l’insegnamento massiccio a distanza standosene chiusi a casa, non fa che ribadire, descrivere, rafforzare questo assunto: la Dad è stato solo un tentativo un po’ assurdo, abborracciato, improvvisato, e a cui siamo giunti del tutto impreparati, di provare a salvare il fare scuola in un momento in cui le nostre vite sono state travolte da qualcosa di inaspettato.

E quello di Vanessa Ambrosecchio, dunque, prima che sulla Dad, è del tutto e pienamente un libro sul fare scuola.

Le scuole sono lì dove si prova a impiantare esperienze educative con i ragazzi, dove si prova a far loro imparare a scrivere e a far di conto, dove si prova a dar loro una prospettiva di vita per il futuro. Se ci si trova in un campo profughi fatto di baracche di lamiera, senza libri, penne e quaderni, la scuola sarà lì. E sarà vera scuola. Se ci si trova in una piccola isola con dieci bambini in tutto, di età molto diversa, in una stanza, si farà scuola così. Le scuole sono lì dove si realizza l’esperienza concreta del fare scuola, con gli strumenti che si hanno a disposizione, nelle condizioni che ci sono date in sorte e partendo dal mettere a fuoco prima di tutto chi abbiamo davanti: i ragazzi e le ragazze, i nostri studenti.

La scuola, al singolare, non esiste

3La scuola, per come la vedo io, va declinata necessariamente al plurale perché non è sui programmi ministeriali che si basa, né su un edificio con le sue dotazioni, e forse nemmeno sull’imparare perfettamente a leggere e far di conto. La scuola è un’esperienza di relazione tra adulti e ragazzi. E questo nel libro di Vanessa Ambrosecchio è chiarissimo. Tutte le energie profuse da questa professoressa nel momento in cui le scuole chiudono e ci si trova ognuno barricato nelle propria casa, a distanza, con un’unica possibilità di tenersi in contatto, sono spese principalmente a tenere salvo e saldo un canale di comunicazione, per non spezzare il filo tra lei e loro e tenere in piedi una relazione ancora viva e diretta.

La scuola, al singolare, non esiste perché ogni classe ti chiama e ti reclama in modo diverso. Ogni ragazzo e ogni ragazza ti chiama e ti reclama in modo diverso.

O la scuola è multipla o non sussiste. Se la scuola non si sa pensare multipla, allora è la scuola che respinge, boccia, rifiuta, contro cui Don Milani e i ragazzi di Barbiana hanno a lungo lottato.

Se la scuola si pone come modello regolativo a cui bisogna aderire, ha perso il cinquanta per cento almeno dei suoi studenti.

“Sono eguali due rondini/ se non sei rondine”, scriveva Danilo Dolci in una delle poesie di Poema umano (Mesogea). Anzi, trascriviamola tutta:

Sono eguali due rondini

se non sei rondine:

due occhi eguali non esistono.

 

Due alberi eguali non esistono,

fiori eguali, due petali –

due canti eguali,

due toni.

 

Due albe eguali non esistono,

tramonti eguali, due stelle,

ore eguali,

attimi.

 

Osservando gli studenti

4. Nel suo libro, Vanessa Ambrosecchio marca stretti i suoi studenti, come il più arcigno degli stopper vecchia scuola. Li marca a uomo. Li osserva, li descrive, ne interroga aspirazioni e limiti. Il libro è tutto incentrato sull’osservazione di quel materiale umano, per lo più storto, claudicante, pieno di limiti e di difetti, che ciascuno di loro è. Lo fa con uno stile insistentemente metaforico. In un continuo inventare, appunto, metafore e similitudini per provare ad afferrare il profilo unico e irripetibile di quei ragazzi. Soprattutto all’inizio quando, insieme con la pandemia, è “scoppiata” la Dad, e Vanessa Ambrosecchio ci immette direttamente, tramite il video grazie al quale a intermittenza e tra mille difficoltà si svolgono le lezioni, nel mezzo della sua 3H, che le tocca portare agli esami di licenza media in una situazione così inedita e complicata.

Osserviamo ciascuno studente con tutto l’apparato metaforico e di similitudini che si porta dietro, tenendo presente che la metafora appartiene prima di tutto alla poesia, ed è dunque uno sguardo poetico quello che la professoressa posa su questi ragazzi.

C’è Teotista, con il suo “viso piccolo montato su un corpo lunghissimo, e ci ha il diavolo in quel corpo. Gli corre su e giù per le gambe come le formiche in un formicaio”. C’è Sara: “il suo cervello è un orso in letargo” e il suo “corpo placido, largo, si impegna a  mimetizzarsi con la parete, il banco, l’angolo dove si rannicchia”. C’è Marzia, che “ha una testa veloce, la più veloce”. “Certo, non ha avversari particolarmente agguerriti in classe, perciò gode a sorpassarli tutti. Risponde lei, prima lei, solo lei, come avesse il pulsante di un telequiz sotto la mano. […] Sorpasserebbe se stessa se potesse”. C’è Mattia, che è in sedia a rotelle, “ma la padroneggia come Schumacher la Ferrari”. “Piccolo, smunto, è una canna al vento, e il vento dalle sue parti cambia spesso”. E c’è Zoran, “abile sobillatore”, il quale “sa benissimo che un fiume scorre tra lui e i suoi compagni, perfino quelli scarsi”. E c’è Barbara, di cui la prof dice: “Off, on, Barbara è un interruttore”. “Quando è su on è bravissima in grammatica, forse per il suo precoce impegno di interprete, ma quando è su off, non batterebbe ciglio se le sgozzassero un cucciolo ai piedi”.

Diversi punti di vista

4. La scuola è multipla e plurale anche perché – e questo è piuttosto ovvio – non tutti sono d’accordo su cosa significhi fare scuola. C’è chi chiede, insistentemente e da tempo, che si ritorni a una scuola incentrata sui saperi, sul merito e sulla disciplina, affermando che obiettivi come accoglienza e inclusione (parole messe spesso tra virgolette) siano retorica vuota. Chi chiede un ritorno alle nozioni, allo studio prescrittivo della grammatica e della storia della letteratura, individuando nelle idee e nelle esperienze dei vari Don Milani, Rodari o Tullio De Mauro l’inizio della fine della scuola italiana, il suo imbarbarimento. E c’è chi a fatica prova a rimanere fedele proprio a quelle esperienze di scuola democratica, tra un impedimento burocratico e un registro elettronico che si impalla di primo mattino, quando apri il tablet o il computer (rigorosamente personali, portati da casa, non certo forniti dallo Stato), provando a non perderne nemmeno uno dei ragazzi che ti sono capitati tra capo e collo, forse come una condanna, o probabilmente è meglio dire come un destino. E per questo Vanessa Ambrosecchio li marca a uomo, ne interroga i tratti e i silenzi, le momentanee sparizioni. Si fa cruccio dei loro silenzi. Proprio per evitare a tutti i costi il rischio di perderne anche solo uno, durante un’esperienza che ha fatto deflagrare le vite di ciascuno di loro, e di noi stessi, a causa della pandemia.

Quella speciale “ora d’aria”…

5. Non è la Dad, dunque, il fuoco del libro, ma è piuttosto la scuola del “non uno di meno”, la scuola di chi prova a rincorrerli tutti, per portarli tutti in piattaforma. Qualsiasi fosse poi la materia vera dell’insegnamento fatto a distanza. Anzi, ribaltando proprio la direzione di quell’insegnamento, per non perderne appunto nemmeno uno. Non uno di meno, anche in Dad.

Scrive Vanessa Ambrosecchio: “Ma il momento più emozionante fu il primo giorno di scuola a distanza. Quando cliccai il link che avrebbe aperto l’aula virtuale, mi sentii come il primo uomo pronto ad atterrare sulla luna: in bilico sul nulla”.

E poi, diverse pagine più in là, quando la connessione è stabilita, nasce il problema dello studio, del continuare a portare avanti il programma. Nasce il problema del fare grammatica: “E adesso pretendo di fare lo stesso. Seguire a testa bassa il binario tracciato nella nebbia, che siano gli esercizi di grammatica o la siepe de L’infinito […]. Ma adesso non sono più a scuola, in mio potere, gli alunni, quelle cinque o sei ore in cui si spogliano della vita loro come di una divisa. Adesso sono a casa, sotto l’egida dei guai di famiglia, delle dinamiche malate, della sfiducia, della frustrazione. La scuola a distanza è vicinanza delle case, incombenza, trista influenza dei destini. La scuola a distanza è immanenza, permanenza, aderenza, impossibile dimenticanza, quella dimenticanza di sé che fa spazio all’immaginazione, che è illusione a volte e a volte opportunità. Così ho smesso di pretendere e rimproverare. E ho smesso di fare grammatica”.

Mi viene in mente un’altra poesia di Danilo Dolci, tratta ancora una volta da Poema umano:

 

Per educare

meglio non inizi

dalla grammatica, dall’alfabeto:

inizia dalla ricerca del fondo interesse

dall’imparare a scoprire,

dalla poesia ch’è rivoluzione

perché poesia. […]

 

E infatti, cosa chiedono gli studenti di fare come prima attività in Dad?

Chiedono di leggere il libro. “Il libro” è un romanzo che ogni anno l’insegnante fa leggere, per poi incontrarne l’autore. Scrive, la loro insegnante: “ L’ora di lettura non è un compito in classe né a casa. Non è un compito, con la scuola non c’entra”. L’ora di lettura, dice, è “un’ora d’aria”. È tanto strano che, costretti a stare chiusi in casa per tre mesi di fila, notte e giorno, la classe decida di dedicarsi come prima attività didattica all’ora d’aria?

Vi ho già tutti sognati una volta

6. C’è un’ultima poesia di Danilo Dolci che volevo citare: quella da cui mi è venuto in mente di andare a rileggermele, le poesie di Danilo Dolci, quando ho chiuso Tutto un rimbalzare di neuroni.

La poesia è bellissima e fa così:

 

C’è chi insegna

guidando gli altri come cavalli

passo per passo:

forse c’è chi si sente soddisfatto

così guidato.

 

C’è chi insegna lodando

quanto trova di buono e divertendo:

c’è pure chi si sente soddisfatto

essendo incoraggiato.

 

C’è pure chi educa, senza nascondere

l’assurdo che c’è nel mondo, aperto ad ogni

sviluppo ma cercando

d’essere franco all’altro come a sé,

sognando gli altri come ora non sono:

ciascuno cresce solo se sognato.

 

Alla fine arrivano gli esami: anche questi fatti a distanza, tramite il video dei computer, dei tablet e dei cellulari. A modo loro, ogni ragazzo stupisce la commissione. Tutti si sono trasformati nei loro alter-ego/supereroi i cui i nomi durante il primo anno di scuola, in classe, avevano inventato. Perfino la festa di fine anno, a esami conclusi, viene fatta “in remoto”. Poi, una delle ragazze, Marzia, esce subito dal gruppo di whatsapp della classe. Quasi a volere segnare un momento di passaggio, il momento della crescita, dell’emancipazione.

Se per Danilo Dolci “sognare gli altri” (ragazzi e ragazze) “come ora non sono” è una metafora che indica la necessità di immaginare le possibilità inespresse di un ragazzo o di una ragazza, per scommettere su un’evoluzione di là da venire, Vanessa Ambrosecchio traduce questa sintesi poetica in un sogno vero e proprio. Li sogna tutti, come saranno tra vent’anni. Lei, ormai in pensione. Il finale è preludio all’abbandono, alla consapevolezza che non ci si rivedrà mai più e che poco o nulla sapremo di quello che ne sarà stato, di loro. Mi piacerebbe citarlo: è la parte che più mi piace del libro. E il cosiddetto spoiler in questo caso si potrebbe anche fare. Non rivelerebbe né l’ucciso né l’assassino. Ma è meglio leggerselo dal libro. C’è più gusto.

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