C’è del sacro in… Fëdor Dostoevskij

La salvezza quando la condanna a morte era cosa fatta. L’amore per Anja. Il gioco. Dio, uno Scrittore nell’alto dei cieli che forse lo ama e l’ha perdonato. Un’intervista impossibile a Dostoevskij, durante la festa per i 200 anni della nascita

Qualche articolo fa, su questa stessa rubrica, ci eravamo soffermati ad osservare una scena da lontano, sperando di avvicinarci – però – il più possibile. Era il leggendario incontro tra Solovev e Dostoevskij, avvenuto – forse – in un qualche caffè di Pietroburgo, lì dove – tra gli sfumati riflessi di un tiepido sole in declino – stava per sorgere Ivan Karamazov.

Solovev, dunque; Simone Weil nell’articolo successivo ed oggi – nel giorno del suo duecentesimo compleanno –  la nostra attenzione si rivolge tutta al grande Fëdor, a completare questa Triade immensa. Sì, da qui in avanti lo chiamerò per nome, come uno dei suoi personaggi; come uno dei personaggi che Dio stesso ha inserito nel suo Libro. Perché quando si festeggia il compleanno di qualcuno si mangia insieme una fetta di torta e poi ci si siede in poltrona e – se il festeggiato è lui – si sorseggia della vodka chiacchierando di cose belle, di pagine di letteratura tratte una volta tanto dalla sua stessa vita e non da qualcuno dei suoi libri.

Giù dal patibolo

Con un po’ di curioso sadismo, sapendo di rinnovare un antico fantasma di terrore, gli chiedo di raccontarmi di quando quella volta, già sul patibolo, era poi arrivata la grazia dallo Zar.

Lui mi osserva dal sipario di una barba che – insieme agli occhi – è l’unica parte di anima capace di uscire da quel corpo magro. E dopo aver accennato uno sguardo grave, trafitto quasi da un sorriso di compatimento, mi racconta. Comincia a dirmi di quel tremore feroce che accompagna i condannati già ormai certi di morire e che, per quanto meno convulso del suo mal caduco, riesce ad essere ben più terribile proprio perché irrimediabile. Mi accenna velocemente a quelli che, in quell’istante, egli credette essere i suoi ultimi pensieri; il pudore lo ferma, prende fiato, tace. Poi riprende, e passa all’istante successivo, quello dell’alt, quello della salvezza. In un tentativo quasi grottesco d’imitazione narrativa cerca di riprodurre la voce del soldato che regge il provvidenziale dispaccio per poi tirare fuori, dal suo racconto, un sospiro memoriale (impossibile capire se sia quello del momento, o se riproduca quell’altro, quello originale).

«Non piansi, non subito» mi confessa quasi. La situazione – mi spiega – era così surreale da non concedere spazio a reazioni normali. Gli chiedo se nei suoi libri abbia mai cercato di riprodurre un po’ di quell’incubo, un po’ di quel surreale che lo ha reso immortale, dopo avergli permesso – quel giorno – di non morire. Lui mi risponde tacitamente, con un leggerissimo movimento di spalle, come a dire che sarebbe stato inevitabile non reduplicare quell’attimo.

Si è incupito.

Non gli piace parlare della morte, neanche di quella da cui è scampato. Ne scrive tantissimo ma, quando c’è altra gente e la solitudine non lo costringe a solipsismi di ripensamento, preferisce mostrarsi simpatico, come in fondo ogni russo sa essere.

Gira un po’ il capo, verso l’altra parte del salotto. Sembra che guardi gli altri invitati al suo compleanno: giovani estimatori, qualche borghese dai tratti gentili, alcuni ufficiali fiancheggiati dalle loro mogli. In realtà guarda dietro il mucchio della gente, in direzione di un piccolo tavolino rotondo coperto da un tappetino verde. Lo ha allestito lui stesso, mi dice subito dopo con un sorriso che cerca complicità. Non aggiunge altro. È chiaro che gli sarebbe piaciuto fare una giocatina a carte.

Se non la morte, l’amore?

Mi sento colpevole a tenerlo incatenato a quella poltrona, anche se potrebbe alzarsi in qualsiasi momento e mandarmi al diavolo, me e le mie domande. Ma non lo fa. Antichi costumi cortesi lo tengono avvinto alla necessità di rivelarsi.

Ora ha un’espressione quasi pietosa, come chi implora di chiedergli qualcosa che valga la pena di sostituirsi a un giro di baccarà.

Per conto mio, ho paura che qualunque cosa possa irritarlo. La sua barba non mi aiuta. Il suo sguardo è fermo, immobile, senza la speranza di un indizio possibile di conversazione. Devo tentare.

«Mi racconti di Anja?» gli chiedo timidamente. Se non vuole parlare della morte lo farà dell’amore!

«E così mi hanno riportato in cella, e poco dopo mi hanno liberato».

No. Ha preferito ritornare all’argomento di prima. Meglio ricordare antichi momenti di paura che viverne nuovi di imbarazzo. Anja è una storia solo sua, è normale che non voglia parlarne. Io la storia la conosco – unico in quel salotto – ma solo perché (in questa farsa) sono il personaggio impossibile, quello che sa tutto del protagonista. Lui lo sa. Sa che non può sfuggirmi. Sa che vengo dal futuro e che quello che stiamo festeggiando è il suo compleanno bicentenario, e che dunque lui è già morto da un pezzo e anche le sue cose più personali sono già state date in pasto alla storia.

Sospira, rassegnato. Poi si concede.

«Il mio editore mi aveva messo con le spalle al muro. Ed era la seconda volta che mi capitava.»

Ecco! La stessa ironia delle sue pagine! Si è ricollegato al ricordo della sua condanna a morte solo che questa volta, invece del plotone di esecuzione, ci ha messo il suo editore! Grande Fëdor!

Sorrido. Sorride. Finalmente.

«Se…» fa fuori tutto il bicchierino di vodka. «Se non avessi finito in tempo il libro, avrei dovuto cedergli tutti i diritti editoriali degli altri, quelli che avevo scritto fino a quel momento».

«E questa volta nessuno Zar a salvarti?»

«No».

«E dunque?». Conosco già cosa accadde, ma mi piace che sia lui a raccontarmelo.

Una giovane stenografa

«Assunsi una stenografa. Una giovane stenografa.»

«La assumesti perché era giovane?» Chissà come reagirà alla malizia della mia domanda.

Non risponde.

«La ragazza lavorava indefessamente. Io dettavo, lei stenografava. La notte trascriveva tutto. In meno di un mese terminai il libro.»

«Quando ti… accorgesti di lei?»

«Dal primo istante. Era la prima tra le mie distrazioni. Facevo più fatica io a formulare i pensieri, col suo volto negli occhi, che lei a scriverli.»

«Non capisti subito di essertene innamorato?»

«Non credo sapessi di esserlo. Forse non mi era mai successo. Non in quel modo».

«E come lo scopristi?»

«Il gioco. Mi attirava come niente in quegli anni. Non passava istante senza che non desiderassi di andarmi a infilare in una qualche bisca. Ma quel volto spense ogni desiderio. Ogni desiderio divenne quel volto.»

«Sei sempre stato un giocatore incallito. Cosa puntasti su quel volto?»

«Avevo quarantacinque anni, e lei appena venti. Puntai la mia stessa credibilità. Puntai la fama di uno scrittore, quel po’ di dignità sociale che il mio mestiere mi conferiva, se non altro agli occhi degli altri. Puntai tutto questo.»

«Come glielo dicesti?»

Fa uno sguardo soddisfatto e sorride di nuovo. Vedo persino un remoto baluginio di dente. Sta sorridendo sul serio.

«Finsi di fingere.»

«Cioè?»

«In pratica usai il mio mestiere. Era l’unica cosa che mi avrebbe aiutato a dirglielo».

«Perché?»

«Per almeno due ragioni. Lei conosceva i miei libri, li conosceva bene. E sapeva in che modo formulavo le idee prima di dettargliele. Insomma, teneva in mano i miei ferri del mestiere. E siccome li conosceva bene cercai di usarli a mio vantaggio.»

Sto zitto. Ma lo guardo con gli occhi spalancati. Tutto in me attende che lui continui a raccontare.

«Le dissi che avevo avuto un’idea su qualcosa da scrivere, una nuova storia per un racconto. Una scena in cui un uomo maturo avrebbe dovuto rivelare il proprio amore ad una giovane donna. E così, dopo aver riferito le frasi e le parole che lui le avrebbe detto, insieme a tutti i sentimenti che il suo cuore avrebbe provato, le chiesi un parere. Ma non letterario. Le chiesi se, secondo lei, quella giovane donna avrebbe risposto di sì.»

«Ed Anja?»

«Non disse nulla. Rimase di fronte a me, a guardarmi, mentre le si inumidivano gli occhi. Compresi in un istante che aveva capito, e forse in quel momento mi fu chiaro anche che mi aveva sempre amato. Ma era come se non sapessi nulla. Era necessario che lei rispondesse. E lo fece sprofondando tra le mie braccia».

«Meraviglioso!»

«Fu la cosa più bella che mi sia accaduta».

«Cosa?»

«Che qualcuno abbia scritto per me una pagina così bella. Se vi è uno Scrittore, al di là del cielo, ad avermi scelto per essere insieme ad Anja il protagonista di quella scena, quello Scrittore mi ama, e mi ha perdonato ogni cosa».

«Cosa avrebbe dovuto perdonarti?»

«Eccessi, viltà, orgogli, ed ogni genere di altre miserie».

«Sei un uomo, Fëdor. E anche un russo, non dimenticarlo. Non avresti potuto conoscere equilibrio. Però sì, ti ha amato! Su questo sono d’accordo. La tua vita è stata come uno dei tuoi libri, ma scritta da Lui».

«Ma alla fine della mia vita, tra le mie mani, avevo il suo di Libro».

«Tu hai scritto di Lui, Lui ha scritto di te».

Lo sguardo e la fine della festa

Si gira verso il salotto, di nuovo.

Alcuni sono andati via. Un bicchiere di champagne si è rovesciato sul tappetino verde del tavolinetto. Ma lui guarda Anja e sorride, e il suo sorriso è adesso davvero il più bello che sia uscito da quel volto. La guarda e tutto, di lui, sorride. Stringe il bracciolo della poltrona con la sua mano magra, come se impugnasse tutta la sua esistenza, come prima di alzarsi ci si poggia saldamente su qualcosa di stabile. Che però non è quel bracciolo, ma l’oggetto stesso del suo sguardo, lei.

Sì. Ci crede davvero. Non è solo una frase. Si capisce da quello sguardo cos’è per lui la Bellezza.

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