Shirley Jackson, la paura svela ciò che sembra incomprensibile

Ne “La meridiana” Shirley Jackson vuole che il lettore si smarchi dai timori più razionali, muovendosi fra il reale e l’immaginario e che questo immaginario lo conduca più a contatto con se stesso. Dopo la morte del giovane rampollo Lionel, sua figlia, la piccola Fancy, punta il dito contro la nonna paterna, accusandola di omicidio…

Una meridiana, al centro del giardino, visibile da tutti, si fa largo nella nebbia e recita: che cos’è questo mondo? È un’allusione, premonizione o maledizione, ciò che sottende la frase fatta incidere dal primo Mr Halloran? All’indomani dei funerali di Lionel, le liti per il possesso della villa di famiglia gettano delle ombre oscure sulla morte del giovane rampollo della casata degli Halloran. Così Shirley Jackson, l’autrice del manoscritto ritrovato, una volta eliminato il personaggio, l’erede di sesso maschile, lascia nelle mani delle volitive, astiose e indulgenti protagoniste del suo romanzo, la conduzione dei giochi. 

Un’accusa sconcertante

Tra tutte loro spicca la piccola Fancy, figlia di Lionel, quindi orfana di padre. Ormai Jackson ci ha abituato alla sua scelta atipica di far muovere i bambini e gli adolescenti fra le mura dei suoi racconti per far sì che le dimensioni, in cui la narrazione si sviluppa, possano essere collegate. Fancy è allo stesso tempo portavoce di una scomoda verità, Fancy può permettersi, data la sua giovane età di puntare il dito contro sua nonna, Mrs Halloran indicandola come l’assassina di suo padre Lionel: è stata la donna a spingerlo giù dalle scale e nonostante questa frase accusatoria sia sconcertante, nessuno sembra prenderla sul serio, nonostante gli occhi di ghiaccio della piccola, nonostante queste gravi parole risuonino come reali nelle stanze vuote della grande villa. 

La voce della bambina

E poi Fancy, come spesso accade nelle opere di Shirley Jackson, è capace di muoversi tra dimensioni diverse, fra le alterazioni della realtà, sembra capace di muoversi nel tempo e nello spazio. Ne dà prova alla zia Fanny, il giorno in cui quest’ultima passeggia nel giardino di casa sua, quel giardino fatto costruire da suo padre, al centro del quale la meridiana lancia le sue ombre e il suo monito fa venire i brividi, mentre ripercorre i luoghi che ha tanto amato nella sua giovinezza: il labirinto, la grotta, il giardino segreto, una fitta nebbia la avvolge. Siamo nelle prime ore del mattino e colta da una certa insonnia, la donna si aggira fra le siepi, in quei luoghi che conosce e nei quali si muoverebbe a occhi chiusi, tuttavia quando la nebbia scende tutto ciò che la circonda perde i suoi contorni e la voce di Fancy sembra tagliare questo muro di nebbia, sembra quasi che la voce della bambina, che non riesce a vedere realmente, voglia, allo stesso tempo, farla smarrire oppure ricondurla fra le mura domestiche. Fancy sembra avere la capacità di insinuarsi nella coscienza.

Il giardino e la nebbia che purifica

Ancora una volta, anche ne La meridiana (251 pagine, 19 euro) tradotta da Silvia Pareschi per Adelphi, Shirley Jackson vuole che il lettore si smarchi dai timori più razionali, che ancora una volta possa muoversi fra il reale e l’immaginario e che questo immaginario lo possa condurre più a fondo, più a contatto con se stesso. La paura che zia Fanny avverte quando la voce di Fancy è distante e perde il contatto con la mano della bambina e si trova sola in quel giardino immenso, avvolta dalla nebbia, è una paura atavica, ma è una paura che ci porta nelle nostre viscere, nelle nostre profondità, è con una paura psicologica che Jackson vuole liberare il lettore. Lo vuole libero da se stesso, dai propri stereotipi, libero di vivere l’inspiegabile perché questo ci appartiene, è dentro di noi. La nebbia in questo romanzo è una sorta di purificatore della mente, zia Fanny avverte chiaramente due cose: la voce di Fancy che le fa da guida in questo labirinto in cui si trasforma la sua realtà, una realtà che può prendere i connotati del sogno, che è incomprensibile fino a quando davanti a lei non appare lo spirito di suo padre. Ecco allora che la paura, lo smarrimento, la nebbia abbassano le nostre difese, le nostre remore e i timori, lasciandoci liberi di vedere ciò che la mente non può comprendere.

Il messaggio sulla fine del mondo

Lo spirito di suo padre, il primo Mr Halloran (così viene spesso chiamato nel libro) torna da sua figlia perché ha un messaggio da riferirle: il mondo sta per finire e lei deve fare in modo di mettere in salvo i membri della famiglia, quella casa sarà l’unico rifugio per loro, fino a quando le acque non si saranno calmate e dopo il buio, che avvolgerà il mondo, il sole tornerà a sorgere su un nuovo mondo. A quella predizione, a quella possibilità di redenzione e di salvezza (contemplata per pochi), zia Fanny crede immediatamente. La fine del mondo è vicina e molti finiscono per convincersi che non può essere altrimenti. Cresciuta in una famiglia di architetti, come racconta Claudia Durastanti (l’abbiamo intervistata qui) in un articolo uscito per Esquire (si può leggere qui), Shirley Jackson individua nella casa, al centro di tanti suoi racconti e romanzi, prigione e luogo di liberazione. Quella villa, sulla quale la meridiana proietta lo scandire delle ore, il prima e il dopo, il passato e il futuro, diventa entrambe queste visioni. L’addio al mondo, la chiusura fra le mura di casa, l’impossibilità di sfuggire alle parole del primo Mr Halloran, gettano gli abitanti della casa in uno stato di euforia e di panico, c’è chi vorrebbe allontanarsi, non credendo a quelle parole apocalittiche e finisce per capitolare, chi invece crede e basta. Che tipo di mondo si affaccerà dopo la fine di tutti i tempi, sembra interessare poco i personaggi di Jackson, come l’assoluzione da eventuali peccati, la semplice possibilità di salvarsi, tra quelle mura, li considera, in un certo senso, eletti a creare il nuovo mondo.

Una sorta di Arca di Noè

Una sorta di arca di Noè in cui le donne, la maggioranza di coloro che resteranno in quella casa, nelle mani delle quali è riposta la forza della sopravvivenza e l’ingordigia del vantaggio che la premonizione attribuisce loro. Chi può far parte dei salvati, chi può essere messo al corrente di ciò che accadrà, sono interrogativi che non sfiorano nessuno, la salvezza è per pochi e questo deve bastare. Ed è attraverso questo stratagemma che Shirley Jackson rivela al lettore la mediocrità dell’essere umano, quello sguardo inebetito da uno sconosciuto privilegio che forse intravedeva tra chi continuava ad additarla come colei che non appartiene alla comunità perché “straniera”. Contrariamente a chi ha scritto usando il fantastico come elemento di distrazione del reale, per Jackson è il reale che si ingerisce in un mondo potenzialmente immaginario. Il suo sguardo sembra raccontare ancora una volta gli eterni abitanti di un piccolo villaggio, (come quello in cui si trasferì con la famiglia e del quale non sentì mai di far parte), capaci di mirabolanti cortesie come di dissanguanti giudizi di esclusione, protagonisti delle sue storie, (una su tutte La lotteria) fonte essi stessi di inadeguatezza e disperazione nonché di un estro artistico incapace di saziare l’insoddisfazione umana.

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