Un memoir che, partendo dall’esperienza individuale, si estende alle comunità di colore del Mississippi, penetrando nel disfacimento psicologico e sociale di una moltitudine afflitta da secoli di prevaricazioni, incatenata ad un destino luttuoso. “Sotto la falce” di Jesmyn Ward racconta le morti premature o violente di un fratello e di alcuni amici della stupefacente scrittrice americana, vittime di se stessi e di una società imperdonabile
Neppure Jesmyn Ward, con tutta la sua cristallina, dirompente forza letteraria, era riuscita a trovare subito le parole per raccontare questa storia.
Per farcela è dovuta scendere negli inferni metropolitani di New York, dove, durante gli innumerevoli spostamenti alla ricerca di un’occupazione post-laurea, si ritrovava a spendere, ammutolita e traumatizzata, la propria condizione di sopravvissuta, spinta alla deriva, sballottata dentro a quei vagoni anonimi che raccoglievano la desolazione e l’ottundimento di una sorella menomata dalla recente morte del fratello, di una donna privata del conforto delle tante presenze della sua infanzia, amici, cugini, tutti morti giovanissimi, spazzati via da una violenza inestirpabile, vittime di se stessi e di una società tragicamente sbagliata e imperdonabile.
È prima dovuta scendere nel profondo di un dolore che aggredisce e spegne anche l’ultimo barlume di speranza, ha dovuto trovare un riparo dall’incontenibile ferocia di un uragano che ha spazzato via i luoghi interiori che ognuno di noi costruisce, per tirare avanti, per sopportare una condizione di ingiustizia e disperazione cronica.
Storia di chi fugge e di chi resta
È scesa, Jesmyn, nell’abisso da cui tutte le voci degli amici uccisi o suicidatisi, la chiamavano, si è fermata sul fondo ad ascoltare, a ricordare le loro storie, a ricostruirle, un pezzo per volta e, quando è riemersa, è tornata con la memoria e le parole giuste, per dare un senso a quanto accaduto e prendervi parte, come componente inscindibile di quelle vite, nodo cruciale nella rete che tutti ci collega, punto da cui partire per gettare un ponte tra chi è andato e chi è rimasto.
Per quanto l’impresa sia stata ardua, la Ward, dopo le stupefacenti prove di Bois Sauvage – tre romanzi di una bellezza folle, inesauribile, riecheggianti la forza della natura e lo stato di perenne lotta in cui, in quanto esseri umani, ci troviamo – torna con una storia implacabile, Sotto la falce (272 pagine, 19 euro) un memoir (tradotto da Gaja Cenciarelli per NN) che, partendo dall’esperienza individuale dell’autrice, si estende all’intero universo delle comunità di colore del Mississippi, penetrando nel disfacimento psicologico e sociale di una moltitudine afflitta da secoli di prevaricazioni, spogliata di ogni fiducia, appesantita da una gravità che si eredita, di generazione in generazione, come una condanna inespiabile, incatenata ad un destino luttuoso, strettamente legata ai propri fantasmi coi quali convive dentro a modeste abitazioni messe insieme una tavola per volta, puri pezzi di legno inchiodati tra di loro come i destini di chi le abita.
Paradisi perduti
In un’alternanza continua di tempo e di fuoco, la Ward scava nel dolore di un’emarginazione fatta di povertà e depressione, negli sforzi disumani di un’esistenza collettiva votata alla fatica e ad una precoce vecchiaia, nella tragicità di una sopravvivenza legata alle più svariate dipendenze. E tuttavia, com’è giusto che sia, l’autrice dissotterra anche i bagliori nati in quel buio, paradisi fatti di ultimi istanti – il fresco del condizionatore in una torrida notte estiva, il riflesso ipnotico della luna nelle acque della baia, i pomeriggi passati davanti all’ennesimo, attesissimo film noleggiato, con tutti i fratelli sdraiati per terra, su letti improvvisati, gli intimi tragitti a bordo di un’auto scassata, assecondando la strada, inseguendo una visione fosca, abbandonati ai bassi della radio, intuendo la bellezza, quando discende e si fa brezza.
La lama che miete in gioventù
È così che Jesmyn racconta la sua storia, dandoci modo di riconoscere con la stessa familiare esattezza i fitti boschi di Bois Sauvage – selve oscure a cui, inspiegabilmente, si continua a tornare –, gli impetuosi conflitti familiari, le incapacità diffuse degli uomini e gli straordinari atti di forza delle donne, che a quegli uomini fiaccati devono sostituirsi in tutto.
È così che Jesmyn racconta la storia di Joshua, il fratello di neanche vent’anni che ha perduto nel 2000, ed è così che racconta la storia di Roger e Demond e Charles e Ronald, tutti suoi amici, tutti falciati da una lama che li ha mietuti nel fiore della giovinezza, quando ancora erano incorruttibili nella loro grazia dorata, eppure già consci di tutto, messi a parte di una verità monolitica, schiacciante.
Addio, mio amato
Alla fine Jesmyn ha trovato la perfetta combinazione verbale per raccontare, per onorare, per restituire la giusta importanza ad un dolore inestinguibile, lasciandoci in appendice anche il commovente ricordo del marito, il suo Amato, venuto a mancare a causa del Covid, quando ancora al Covid non era stato dato un nome.
E a noi, giunti in fondo, tocca riconoscere che non rimane altro se non il potere della parola stessa, e quello di Jesmyn sopra ogni cosa:
Eravamo talmente acerbi da non riuscire a coniugare la nostra gioventù con il fatto che stavamo morendo, perciò bevevamo, fumavamo e facevamo anche altro, illudendoci che la giovinezza potesse salvarci, che da qualche parte qualcuno avrebbe avuto pietà di noi.
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