Prendere le distanze, trovare guai: ecco Sara Mesa

In “Un amore” di Sara Mesa non c’è nulla di Buzzati, salvo il titolo. Dritto e teso, il romanzo dell’autrice spagnola, in cinquina al Premio Strega Europeo, analizza la genesi di uno strano amore, sullo sfondo di una realtà marginale governata dal pregiudizio…

“Era meglio il mare, ma anche più costoso”. Ecco perché Nat si trova a La Escapa, paesino della Spagna rurale che ha scelto come “buen ritiro” per svolgere lontana da qualsiasi fonte di disturbo il suo lavoro da traduttrice. Le manca solo un cane per completare il quadro di sé che lei stessa ha dipinto.

Niente secondo i piani

Nella realtà, niente va secondo i piani. A La Escapa fa troppo caldo, sia di giorno che di notte. Ci sono le zanzare. La casa in affitto che si è trovata (l’unica che si può permettere) è vecchia, piena di piccoli problemi. Il giardino sembra più il Gran Deserto Americano che il piacevole angolo verde dove lei immaginava di potersi concentrare nella traduzione. Quanto al cane, il padrone di casa gliene trova uno, ma è schivo, anaffettivo. Tanto che lei decide di battezzarlo “Fiele”.

A La Escapa non c’è quasi niente, qualche negozio che ricorda gli spacci del Far West, un vicinato abbastanza discutibile, a cominciare dall’uomo che le ha affittato la casa, prevaricatore, sfidante. Poi ci sono una famiglia di gitani, una coppia di anziani, un hippie, uno che tutti chiamano “il Tedesco” anche se non lo è, il bar del Gordo, le abitazioni delle famiglie di contadini, coloni e piccoli commercianti che fanno la spola tra La Escapa e Petacas, il centro appena più fornito che si trova a una quindicina di minuti di automobile. 

L’hippie si chiama Píter, e non è affatto un hippie. È un artigiano del vetro che sembra sapere esattamente come si vive e che prende Nat – Natalia – sotto la sua rassicurante ala protettiva. Il ragazzo, una presenza organizzata e forte, comincia sin da subito a consigliare la sua nuova vicina su cosa dovrebbe e non dovrebbe fare a La Escapa. In pratica, con estrema disponibilità e semplicità, le fa mansplaining.

Come una meteora incompresa

Un amore (192 pagine, 16,50 euro) tradotto da Elisa Tramontin per La Nuova Frontiera, acclamato dalla critica spagnola, ha ricevuto molte attenzioni anche in Italia, ed è ora nella cinquina del Premio Strega Europeo. La sua autrice Sara Mesa utilizza una scrittura diretta e senza giri di parole per descrivere la parabola che Natalia compie traversando come una meteora incompresa i cieli torbidi e statici di La Escapa, dando vita a un romanzo breve e abbastanza luminoso, come una pietra dura, diverso da tanta narrativa senza ragion d’essere in cui ci si imbatte ultimamente e molto più simile a certe opere di Federigo Tozzi (Con gli occhi chiusi) o di Natalia Ginzburg da giovane (È stato così).

L’analogia con Con gli occhi chiusi la vedo nel senso di inadeguatezza della protagonista nel rispondere alle domande che la vita le fa; nella capacità di partire da un microcosmo (quello del paesino rurale) sino a inglobare qualcosa di più grande, le dinamiche sottese ad ogni comunità umana che viva richiusa su se stessa, ritirata; e nel fare di un luogo geografico – in questo caso immaginario – il simbolo di un senso di immobilità, di abitudine, di ottusità latenti.

L’analogia con È stato così la vedo nella logica stringente del testo, che può andare solo da quella parte. Nella lucidità piana dei fatti, nel come vengono inanellati, uno dietro l’altro. E nella fatalità della storia d’amore, che è cogente.

Sottrarsi alle cose scomode

Natalia trova scuse e alibi per sottrarsi alle cose scomode che deve fare, come chiedere al padrone di casa di provvedere alle riparazioni che gli pertengono. Nello stesso tempo, è determinata e non si smuove dalle proprie idee: il cane Fiele non va sostituito, prima o poi la amerà. Il fazzoletto di terra arida che circonda la casa può ospitare un orto, e se non l’orto, almeno delle piante ornamentali. Per Píter, chiaramente, ambedue i progetti sono perdite di tempo.

Nat è “quella strana”, la signorina di città che traduce libri – monologhi d’autore. Preferisce “passare inosservata, non vedersi costretta a presentarsi né a chiacchierare, sebbene a tale scopo debba fingere di fare sport”. Non ha un fidanzato, e questo agli occhi della cittadinanza la rende discutibile. Ancora più discutibile quando la riparazione di una grondaia del tetto ad opera del “Tedesco”, il bizzarro uomo solitario che si offre a sua volta di aiutarla, degenera in una inspiegabile ossessione amorosa.

Nat si perde per questo villico taciturno e pacifico, poi si scopre che lui, Andreas, ha un passato molto ben costruito, cultura, strumenti, che si è presentato come un mendicante alla porta di lei salvo poi ribaltare completamente il gioco di forza, arrivando a costituire per Natalia una vera e propria ossessione.

Di qui lo stigma da parte della comunità. Arretrata, ottusa, ma castigatrice e violenta, nel sommergere e nel salvare secondo le proprie arcaiche regole questo o quel cittadino, e decretando in maniera assolutamente arbitraria ostracismi e riammissioni in seno alla società.

Una Macondo triste e un Golgota

A fare da coronamento a questo luogo marginale, lontano da tutto come una Macondo triste, c’è il Glauco, l’altura che incombe sul manipolo di casette.

Nel paesaggio castigato dalla siccità sono disseminati olivi, sugheri e lecci. I cisti, appiccicosi e umili, sono gli unici fiori che punteggiano la terra. La monotonia dei campi è spezzata soltanto dal profilo del Glauco, un monte basso di arbusti e cespugli che sembra disegnato a carboncino sul cielo nudo.

Questa altura rappresenterà per Nat una sorta di Golgota, sul finale ribaltato in positivo. Così come il cane Fiele, che da spina nel fianco si tramuterà in causa scatenante di tragedia e creatura da salvare a tutti i costi.

La bravura di Sara Mesa sta nell’aver creato un personaggio che è contemporaneamente a fuoco e fuori fuoco, in una trascolorazione molto rapida di immedesimazione e straniamento. Le scelte di Nat sono sia condivisibili, sia aliene. La giovane donna è allo stesso tempo coraggiosa e inerme, tenace e inadatta, sana e “malata”. Le sue inquietudini, che partono dal riscontro oggettivo della realtà, sfociano in presentimenti ed ossessioni. Inoltre, è senza dubbio un personaggio punk.

Il senso di tragedia nell’aria

Interessante il discorso sulla traduzione e sul linguaggio. Qual è il significato corretto di un termine, si chiede Nat durante le ore che dedica al proprio lavoro. Ma “pensare in questo modo porta all’estenuazione e alla paralisi. Scandagliare il linguaggio con quel livello di consapevolezza lo depreda di significato. Ogni parola si trasforma in nemica e tradurre diventa la cosa più simile a ingaggiare un duello con una versione precedente, e migliore”.

È tanto più facile allora sottomettersi alle regole di questo strano gioco, dove i personaggi sembrano agire in base a leggi prestabilite e il senso di tragedia si respira nell’aria, oppure fare i conti con le proprie trasgressioni, con il giudizio della gente sempre pronta a isolare ed escludere il non simile, attraversando come in una personalissima discesa agli inferi tutti gli stadi della riprovazione sociale.

Per poi risalire. Perché da questa parentesi statica e vorticosa assieme, da questo segmento di tempo, di vita, così ben definito tra il punto A e il punto B, Nat viene fuori, per la prima volta assertiva, e le sembra di essere una persona nuova, anche e soprattutto se “È successo tutto in pochissimo tempo. Talmente poco che si sbalordisce quando ci pensa. Ha aperto un tubetto di dentifricio nuovo quando è arrivata a La Escapa, un tubetto che ha usato due o tre volte al giorno e, ciononostante, non l’ha ancora finito, ne rimane circa un terzo. È incredibile, si dice: smuoversi dentro completamente, scuotersi, voltarsi e rivoltarsi ancora, in meno di quanto si impiega a consumare 125 millilitri di dentifricio”.

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