“Non toglietemi subito il sole”, dal libro di Grazia La Paglia

Cinque vite che cercano di restare in superficie, non sprofondando e resistendo. Un viaggio onirico di cinque anime intorno al sole: ultimi, dimenticati – alle prese con dipendenze, disturbi alimentari, sfruttamento o depressione – che incontrano animali che li guideranno verso le strade a cui sono destinati. Ecco cosa di trova nelle pagine di “Non toglietemi subito il sole”, nuovo romanzo di Grazia La Paglia, giornalista siciliana trapiantata a Milano. Vi proponiamo uno dei cinque brani che compongono il libro. Buona lettura

Zucchero

I

Non conosco il mio nome. A stento, la forma del mio viso perché la vedo riflessa nelle pozzanghere su cui rimbalzo ogni giorno, mentre percorro questi cunicoli, queste gallerie che sono la mia casa.

Da quanto? Non ne ho memoria.

Penso che la mia vita sia sempre stata nel sottosuolo. O meglio, la maggior parte di essa. Non è qui che sono stata partorita. Mi piace pensare al luogo della mia nascita come uno spazio bianco e puro, senza i gas di scarico delle auto che respiro ogni volta che mi sporgo, che cerco di andare in superficie. Pochi centimetri appena del mio capo: fronte occhi e naso. Ma i rumori, la puzza di carburante bruciato, i piedi in corsa della gente sui marciapiedi: la mia testa rientra da quella fessura del tombino, quella fessura verso il cielo che non vedo mai.

Riesco ad uscire quando è notte, quando l’asfalto si fa silenzioso perché nessuno lo calpesta più. Poche auto a sfrecciare, che fanno tremare la terra in cui vivo. Poca gente che lenta, spesso ubriaca, percorre a zonzo i viali deserti.

Della città conosco solo il viso della notte. Poche volte sono stata fuori in pieno giorno. Mi piace pensare che, quando ero appena nata, probabilmente gattonavo dietro a chi mi aveva messa al mondo. E gattonavo tra le strade invase dal sole. Ma chissà se un giorno così, nel passato di cui non ho memoria, si sia mai presentato: un giorno limpido e sereno, come le chiese appena lustrate, dalle navate inondate dalla luce del cielo.

Gattonavo: ho usato un verbo insolito per chi, come me, viene definito sorcio, ratto, topo di fogna. Perché tra queste gallerie e la fogna non c’è molta distanza. E i cunicoli sotterranei della città, dopotutto, sono sempre fogna per chi vive in alti palazzi e appartamenti scintillanti.

Di scintillante io conosco solo la luce delle stelle. Mi perdo spesso a guardarle, quando la notte – finalmente – la città diventa nostra. Appena una manciata di ore, davvero poche, prima che i netturbini inizino la loro ronda: ci urtano, ci spingono via da quei cassonetti in cui molti di noi infilzano le teste sporche alla ricerca di piccoli tesori da mordere e assaporare.

Nelle nostre gallerie manca l’aria pura, come manca il cibo. Come manca l’acqua che non sia intrisa di terra e immondizia, di acido e di pioggia. Non conosciamo altri odori e sapori e la notte, con le sue macerie da smaltire, con i suoi avventori ubriachi che ci lanciano qualche briciola, ci regala sapori intensi, come non ne potremmo mai desiderare di migliori.

Mi piace pensare che ci fu un tempo in cui tutto questo era diverso, in cui non dovevo scappare all’arrivo di un netturbino, dove non dovevo pregare con lo sguardo un uomo o una donna per un pizzico di zucchero. Eppure, mi ritrovo in questi cunicoli, gallerie sottoterra, senza sapere come ci sia finita. Anzi, forse lo so.

II

Ricordo in maniera nebulosa i miei primi giorni di vita. Ricordo una gran confusione, intorno a me. Già in quel periodo si viveva in tanti, tutti insieme, stipati in stanze di fortuna, in case fatiscenti dai tetti pericolanti. Ma al mio branco non importava: era necessario rimanere uniti e spartirsi il cibo che si racimolava da quei cassonetti d’immondizia ripuliti e rinfrescati ogni giorno da abili portinai di case dei quartieri bene.

Noi mordevamo quel che ci capitava, concentrandoci sui dettagli dei sapori – quando non erano acidi – o sopportando quella nostra eterna punizione – quando lo erano. Come ogni branco, il nostro non avrebbe avuto vita facile: presto sarebbe stato individuato e segnalato. I bambini, attraverso le finestre con vetri ormai infranti e dalle punte aguzze, avrebbero iniziato presto a lanciarci sassi, con o senza fionde: un ratto lo beccavi sempre. In testa, sul dorso, su una zampa.

In quei momenti capivamo che nemmeno quella baracca sarebbe stata – ancora per molto – casa nostra. Ma questo lo sapevamo già da tempo. Da molto tempo prima che arrivassero i sassi con le fionde. Perché nulla, nella nostra vita, era mai definitivo. E quando uno di noi veniva colpito capivamo che quella sarebbe stata casa ancora per poco.

Di quei primi periodi di vita, ricordo spostamenti continui da una casa all’altra. Da una stanza all’altra. Da un materasso bucato all’altro. Freddo, pioggia dai tetti: poco ce ne importava. Avere quattro pareti e un tetto sfondato era una fortuna a cui un branco di ratti non poteva rinunciare. Era un breve momento di pace.

Presto il nostro branco sarebbe stato individuato, segnalato e, di conseguenza, cacciato via. Dovevamo resistere e correre per non finire triturati come carne da macello, per non finire ingabbiati, schiacciati. Perché un ratto in meno, su questa terra, è un peso in meno. E noi scappavamo, si, correvamo. I branchi più svegli avevano già individuato, per tempo, i nuovi luoghi che per poco tempo avrebbero chiamato casa. Noi no, eravamo un branco debole. Ci perdevamo pezzi ad ogni fuga. Chi finiva schiacciato, chi spariva durante la notte: non tornava più, al sorgere del sole.

III

Qualcuno non tornava più, al sorgere del sole. E non avremmo avuto più notizie. È così che andava, il nostro mondo fatto di sassi lanciati in testa e cicatrici sul dorso. Noi, i relitti, noi, quelli da cancellare. Fantasticavo, ai tempi, quando vedevo i grandi andar fuori, sotto la luce delle stelle, mentre io restavo con i più piccoli, a cercare di immaginarli tra le strade del mondo. E li immaginavo un po’ vampiri. E immaginavo che anche noi piccoli saremmo diventati così, quando i nostri denti sarebbero diventati ancora più aguzzi da essere come le sanguisughe mezze umane. Immaginavo quella vita fatta solo di ombre e contavo i giorni che mi separavano da quando l’avrei fatta mia – quella vita di ombre e luce di stelle.

Al buio di una stanza – l’ennesima – umida e dall’odore di vecchio, intorno ad una pietanza da rosicchiare dividendola in parti esattamente uguali, ci raccontavamo i luoghi che avremmo voluto visitare – sempre strisciando a testa bassa, mai osando fare di più – quando anche noi saremmo diventati vampiri.

C’era chi – prometteva – sarebbe riuscito a trovarci un rifugio migliore. E cibo migliore. Altri dicevano che avrebbero corso per le strade deserte, per noi vietate durante il giorno. Altri dicevano che sarebbero andati fino alla spiaggia. Non è lontana, dicevano, e descrivevano quella gente che in estate indossava costumi dai colori sgargianti sotto i vestiti, prima di salire sulle auto che li avrebbero trascinati tra sabbia e sole cocente.

Deve essere bello, il mare, agli occhi di chi con quegli occhi può solo immaginare le onde che cullano e che cantano.

Io ribattevo che il mare e la sabbia non erano fatte per le nostre zampe sporche. Ma c’era chi prometteva che – quando sarebbe diventato vampiro – ci avrebbe dato delle zampe nuove.

E come vuoi cambiarcele, queste zampe? Dicevo io, mettendomi in piedi sulle zampe posteriori. Più che un vampiro, in quei momenti mi sentivo uno zombie: barcollavo, imprecavo contro quell’equilibrio che non avevo ancora e che mi lasciava sempre più distante da quelle corse per strada, nel silenzio della notte.

IV

Ci fu poi chi riuscì a mantenerla, quella promessa: trovarci un rifugio migliore. Mantenne quella promessa uno dei piccoli che riuscì a diventare un vampiro prima di me. Vagava già da un po’ nella notte silenziosa. Era sempre l’ultimo a rientrare. Era il più robusto, tra tutti noi piccoli, era anche il più sveglio. Andava fuori quando le luci iniziavano ad abbassarsi, sfidando i timori che frenavano anche gli animi dei grandi più spavaldi. Tutto ciò lo rendeva oggetto di invidie ma anche di 57 ammirazione in noi che sognavamo di poter sgattaiolare fuori così, come lui, presto, molto presto.

Ma era sempre l’ultimo al rientrare, oltre che il primo ad uscire. Guardando fuori dalle finestre rotte, quando la luce del sole iniziava a intravedersi laggiù, dal fondo della strada, da dietro le teste dei palazzi più bassi, cercavo tra le poche figure che si muovevano tra l’asfalto e il marciapiede di riconoscere la sua. Dov’era? Perché non tornava? L’attesa dell’alba, del giorno nuovo, era per me attesa di quel fratello che avevo incontrato per caso, nel gioco dei casi della vita. E che mi aveva raccontato tutti i dettagli e tutte le meraviglie che aveva incrociato nelle sue corse notturne tra le strade della vita.

Perché lì fuori, mi diceva, in quel posto che ci negano di giorno, diceva con ancora più rabbia, c’è la vita. La vita che scorre nelle stazioni, incroci di tanti altri casi, di binari e di vagoni, di persone e di ricchezze.

La vita che scorre negli schermi dei televisori. La vita che scorre tra le corsie dei supermercati dove quell’acido che ingoiamo a forza (e che presto – mi dice – anche nelle tue vene verrà infilzato) non c’è.

Non esiste l’acido, là fuori. Là c’è la vita di zucchero che a noi non è concessa. Ma ce la prenderemo. Come? Iniziando a cambiare luogo in cui dormire. Ricordo ancora, quella notte di urla e risse, di qualche cazzotto di troppo volato in aria e di qualche dente schizzato fuori dalle gengive. La ricordo ancora quella notte in cui lui, il mio fratello del caso, ci disse che ormai tutti i branchi vivevano lì, nella città sotterranea.

Come fate a non capire, diceva: avremo la città tutta per noi. Correremo sotto la città, mentre gli altri corrono sopra. Nessuno lì ci tirerà sassi. Non avremo più cicatrici sulla fronte o sulla schiena. Non zoppicheremo più. Non c’è il sole, lì sotto – ribattevano.

Lo so, non c’è il sole, rispose mio fratello: ma cosa ce ne facciamo del sole fuori dalla finestra, quando non possiamo sentirlo sulla nostra pelle? Mai. Lo guardiamo per pochi istanti, quando sta per sorgere. Ma poi diventa troppo, troppo per noi. È già troppo per loro, loro che vivono nei palazzi, loro che non vengono cacciati.

Noi non siamo fatti per vivere al sole. Noi dobbiamo essere dimenticati. Solo così non avremo più cicatrici.

V

Ero curiosa di assaggiare quello zucchero, che era la vita lì fuori. Pensavo di averlo già assaggiato, in quei rari casi di fortuna che facevano delle nostre cene momenti di festa. Alle volte, infatti, rosicchiavamo zucchero, non più residui di cibo inacidito.

La prima volta che avevo assaggiato lo zucchero capii che non sarebbe passato molto tempo dal diventare una vampira. Perché funzionava così, il nostro mondo: ti fanno assaggiare lo zucchero, te lo infilzano con forza nel corpo, a poco a poco, attraverso il naso e le vene. E poi restano lì, a vedere come reagisci. Penso sia una prova: constatare se siamo resistenti – o meno – ai veleni che lì sopra, nel regno del sole, spruzzano, spalmano, cospargono per proteggersi da noi.

Io sapevo che quel giorno sarebbe arrivato, ma non volevo mai pensarci. Non perché non volessi diventare finalmente grande, finalmente libera di correre nella città a me sconosciuta e magari di correre fino al mare. No. Non volevo pensarci perché ne avevo visti tanti di ratti, cresciuti con me, non resistere a quell’assaggio. Magari riuscivano a reggere il primo. Magari anche il secondo. Ma poi li vedevo accasciarsi per terra e smettere di muovere i polmoni. Ne avevo visti tanti, anche di ratti che avevo tenuto tra le mie braccia quando erano piccoli, tanto piccoli, andarsene via per sempre. Ed erano andati via sperando di riuscire a vedere, dopo quel nostro rito, la luce delle stelle. Perché il nostro momento di libertà – di notti libere – sarebbe arrivato dopo quegli assaggi forzati e infilzati.

Mio fratello temeva quel giorno forse quanto me, o forse di più. Quando qualcuno ci lasciava, quando qualcuno non sopravviveva a quella prova, mi trascinava via. Ci nascondevamo insieme in un cunicolo dove nessuno potesse sentirmi piangere. Avevo vergogna a piangere davanti agli altri. Non volevo diventare grande, affrontare quello zucchero nelle vene, ma allo stesso tempo non volevo farmi vedere ancora troppo piccola, ancora troppo debole. Perché era la libertà di assaggiare la notte quello che a me importava. Il mio desiderio più grande.

Persi in un cunicolo, nascosti dal resto del nostro branco, mio fratello mi lasciava piangere mentre mi abbracciava e accarezzava il viso. Tu sarai più forte, mi diceva. Tu sopravviverai, verrai fuori con me. Ce la farai. Ce la faremo. Quando smettevo di piangere, lui iniziava a raccontarmi del mondo là fuori, di come fosse bianca come il gesso la stazione. Di quanti uccelli volavano dalla spiaggia alla città. Grandi, piccoli, bianchi e neri: quando si alzavano in cielo, era un tripudio di colori, un fruscio di ali che nemmeno le onde del mare potevano imitare. Lui era riuscito a sentirlo, quel suono melodioso, perché tante volte aveva atteso l’alba sulla spiaggia. Sì, mi diceva. Aveva visto il mare, le onde e mi avrebbe portato presto sulla spiaggia più bella che aveva scoperto, tra tutte quelle che era riuscito a vedere prima che il sole diventasse troppo alto per lui, per tutti noi.

Mi perdevo in quelle storie fatte di onde e conchiglie.

VI

Nel giorno in cui assaggiai per la prima volta lo zucchero avevo ricevuto un bellissimo regalo. Me lo aveva portato mio fratello all’alba. Era tornato con tanta sabbia attaccata alle zampe e con delle piume bianche e lunghe che si divertiva a passarsi sul viso, facendo il solletico. Io lo inseguivo e per un attimo mi sentivo di nuovo bambina, così piccola come nei miei primi ricordi che ho di lui: io che gattonavo e lui che mi chiamava, che mi spronava a seguirlo. Non ho memoria di un genitore che mi abbia insegnato a camminare, a correre, a scappare, a sopravvivere: era stato lui a insegnarmi tutto. E quella sera, insieme alle piume e alla sabbia che si portava addosso, attaccata alla pelle, portò un dono per me: un pugno di conchiglie bianche e gialle. Me ne aveva parlato tante volte, di queste splendide creature inanimate del mare. E adesso eccole lì: dai fondali del mare ai fondali della città. Ma qui non c’erano sirene che danzavano sott’acqua. No. Qui c’erano anime dannate che vagavano come zombie, in preda alla fame, alla voglia esasperante di avere altro zucchero, e altro, e altro ancora. 61 Presi quelle conchiglie tra le mie mani, incredula, come se avessi trovato un tesoro inestimabile. Le posai per terra, davanti i miei piedi e lì, seduta, iniziai a metterle in fila. Una dopo l’altra. Iniziai a contarle. Anche contare era una cosa che mi aveva insegnato lui. Conoscevo pochi numeri, ma erano sufficienti per contare quelle conchiglie. Quello fu il primo vero regalo che ricevetti.

Ero felice, di una felicità che non ricordavo di avere mai provato prima. Ero serena e tutto mi sembrava illuminato, splendente di luce propria. Anche quei cunicoli. Anche quei piccoli recipienti con acqua stagnante. Anche quelle gocce acide che colavano dai tetti delle gallerie. Lui mi osservava. Sorriso sulle labbra. Schiena contro la parete. Non si muoveva, quasi temendo di spezzare quel momento magico che mi aveva donato. Io finivo di contare le conchiglie e le riposizionavo in maniera diversa per poi ricominciare a contarle. Gli chiesi se avessi potuto averne ancora. Certo, mi rispose. Presto andremo in spiaggia insieme e allora potrai anche cercarle tu.

Non so nuotare, risposi, e non so andare sott’acqua. Non occorre, disse quasi ridendo. È semplice: basta infilare la mano tra i granelli di sabbia, spostarli, rovistare delicatamente. E vedrai: le troverai anche tu, tutte quelle che vuoi.

Mentre mi perdevo nel sogno di una spiaggia tutta nostra dove passare le albe a cercare conchiglie, ecco la sua faccia diventare all’improvviso seria. Aveva capito che stavano venendo a prendermi. Il rito doveva svolgersi quella sera. Così i grandi avevano deciso. Io capii e iniziai a urlare, a rannicchiarmi in un angolo, cercando di diventare invisibile, un granello di sabbia. Avrei voluto essere una conchiglia e perdermi nei fondali del mare. Ma così non fu. Piangevo, gridavo, mi dimenavo ma riuscirono a infilzarmi tanto zucchero quanto ne fosse sufficiente per mettermi alla prova.

Rimasi distesa, immobile, a fissare il soffitto intriso di acqua sporca e fango. Qualcosa dentro di me stava cambiando. Il mio corpo era all’improvviso più leggero.

Lo sentii più leggero anche la sera dopo, e quella dopo ancora. Così per ogni sera in cui ero io ad andare a cercare lo zucchero. Mi sedevo tra i grandi, volevo sempre più zucchero anche io.

Non sentivo più fame. Non avevo più nostalgia del mondo che non avevo mai conosciuto. Non mi importava nemmeno delle conchiglie e della felicità che avevo sentito, nel riceverle in dono o nell’immaginarle di poterle cercare.

Tutto aveva perso senso. Anche riemergere da quel regno degli inferi.

Tutto aveva perso senso. E quello che avevo tanto atteso – la libertà di un’alba in riva al mare – era un desiderio che non sentivo più scalpitare.

Ma mio fratello non dimenticò quello che era stato per me, per tanto tempo, il mio sogno più grande. Dopotutto era stato per tanto, tanto tempo, anche il suo. Così cercava di ricordarmi ogni giorno per cosa stavamo 63 lottando e perché stavamo cercando di sopravvivere: per poter finalmente andare fuori. Io continuavo a ribadire che non mi importava, mentre mi saziavo di zucchero e cibo acido. Del mondo fuori, di conoscerlo e percorrerlo, ormai me ne importava sempre di meno. Mi affacciavo, alle volte, dai tombini: fronte occhi e naso, per poi tornare giù al primo sguardo di un passante. Temevo i sassi.

Fu allora che mi disse qualcosa che mi fece risvegliare da quel letargo, da quell’immobilismo in cui mi ero trascinata. Mi rivelò che quello che io ritenevo essere zucchero, che quello che ci dicevano essere zucchero – prima di infilzarcelo in gola – altro non era che un acido dal gusto meno acido.

Io ribattevo che non era possibile: non avvertivo l’acido. Forse lo zucchero che lui aveva assaggiato nella vita lì fuori, gli dicevo, era ancora più dolce del nostro. Ma no, non volevo credere che mi avessero mentito, che ci avessero mentito, e che ci avessero dato dell’acido dicendoci che era zucchero. Io mi nutrivo di zucchero, finalmente. Lo sentivo e lo sapevo, perché mi sentivo sempre più leggera. Ero sempre serena e il mio sonno era un momento di pace.

Lui posava su di me uno sguardo misto tra pietà e pena.

Quando sarai fuori, e vedrai con me le stazioni dove questo zucchero – quello vero, quello buonissimo – passa da mano in mano, senza fatica, dando gioia alla gente, una gioia che il cuore non può contenere, capirai di cosa parlo.

Anche se mi ostinavo a non credergli, iniziai a desiderare quello zucchero che non conoscevo.

Senza ammetterlo, avevo ricominciato a contare i giorni che mancavano per diventare vampira. E finalmente la notte – la mia prima notte – arrivò.

VIII

Arrivò la prima notte della mia vita fuori da un alloggio di fortuna e – adesso – fuori dalle nostre gallerie. Da quando mangiavo zucchero migliore, portato sottoterra da mio fratello, di nascosto, per convincermi finalmente a provarci a vivere nel mondo reale, avevo fatto di tutto per sembrare abbastanza grande da poter uscire. C’ero riuscita.

Fu mio fratello a portarmi fuori in una sera in cui, da buon ratto, me ne stavo in un angolino sperduto di un cunicolo a rosicchiare il mio pasto. Avevo zittito la fame, ancora per un po’, ancora per qualche ora. Ma lui voleva farmi vedere le stelle e la luna.

La luna, mi diceva, è il sole della notte. Io l’avevo intravista qualche volta, mentre alloggiavo in una di quelle baracche dove il mio branco – molto tempo prima – mi lasciava durante la notte, insieme agli altri piccoli. Anche in quei periodi i grandi andavano a caccia di zucchero e acidi, mi svelò quella notte mio fratello. Ma in quel periodo io ero solo un piccolo topino che non sapeva niente della vita, né di quella vera né di quella immaginaria, né di quella bellissima che lui aveva visto lì fuori né di quella che avremmo avuto, se solo lo avessi aiutato.

I miei occhi erano pieni di terrore, quella notte. Con il mio esile corpo, avvolto da ombre nere e pelle senza riflessi di luce, percorrevo con ansia, premura e cuore palpitante quelle strade che tante volte avevo spiato dai buchi dei tombini.

Adesso le attraversavo. Passavo accanto alle vetrine illuminate di luce propria. Brillava tutto, irradiato dai loro piccoli soli che pendevano dal soffitto. In quella prima notte, il mio sole era la luna e la mia guida erano i passi sicuri di un fratello che voleva mantenere una promessa fatta a tutti – ma soprattutto a me, mi disse – anni prima. Alloggio migliore, vita migliore, cibo migliore. E zampe nuove per andare a mare.

Ma prima del cibo migliore, prima dei supermercati, prima del sole da guardare in riva al mare, con zampe pelose in mezzo alla sabbia, c’è lo zucchero migliore da comprare, l’acido più abbondante da portare nei cunicoli. Tutto questo, mi diceva, significa soldi.

I soldi non mi erano mai interessati: erano per me un’entità astratta al pari del sole e delle belle case dei quartieri bene del centro città. E quando mai si è visto un ratto avere soldi con sé? Mi strattonò, sentendomi parlare così. Sei una vampira adesso, e come tale devi comportarti. Lotteremo ogni notte. Berremo tutto il sangue possibile. Succhieremo dalle nostre prede fino all’ultima goccia. E avrai delle zampe nuove, bellissime, per andare a vedere le onde.

Il cuore dei soldi, per lui, era la stazione. Su quei binari arrivava lo zucchero migliore, l’acido più abbondante. Con questo riempiremo le vene di tutti i sorci, sottoterra e sopra la terra, lo capisci questo? Ma mi devi aiutare. Solo così avrai quello che vuoi.

Io, alla fine, non avevo mai desiderato nulla – a parte delle zampe più belle per andare a vedere il mare. O per poter indossare un costume e prendere il sole. Chissà come si prende, poi, il sole, così immenso com’è.

, mi dissi quella sera, forse, alla fine, l’unica cosa che voglio è un paio di zampe nuove per prendere il sole. Mi insegnerai tu, a prenderlo? Sì, rispose mio fratello.

IX

Ed eccoci, quindi, scivolare via da una strada all’altra, osservati solo dalle stelle. Il silenzio della notte non aveva nulla a che fare con il silenzio ovattato che sentivo, sottoterra, nell’attesa dell’alba e di mio fratello. Ed eccoci, eccoci sotto un cielo fatto di lampioni, alla ricerca di una strada che ci avrebbe condotto alle nuove zampe.

Mio fratello mi trascina mano nella mano verso la stazione. Me ne aveva parlato tante volte, ma così tante e sempre in maniera diversa, che avevo difficoltà ad immaginarla. Eppure eccola lì. Mi chiese se fosse simile a come l’aveva descritta.

Non lo so, dovrei vederla di giorno, risposi. La vedrai anche di giorno, mi disse, ma non subito, non adesso. Poco distante dalla stazione, un grande spazio fatto di sabbia e interrotto solamente da un imponente tendone a punta, che nascondeva qualcosa, sotto.

Voci allegre. Musiche. Qualcuno che intratteneva la folla scalpitante con grida e sproni amplificati da un microfono.

È un circo, sussurrò mio fratello mentre, da sotto la giacca, fece scivolare una busta con sacchettini pieni di zucchero, il migliore al momento in circolazione in piazza, diceva mio fratello. E lo abbiamo noi, io e te. E se lo vendiamo bene, sai, potrai avere anche una casa a mare. Ma ci vuole pazienza. E tanta attenzione. Dobbiamo stare attenti a chi lo vendiamo. Tu mi devi osservare. Memorizza le facce che incontro, a chi parlo, a chi dico che no, non ho niente, e di andare via. Perché tra qualche giorno sarai tu a vendere zucchero, qui. La stazione sarà tua, tutta tua. Io mi occuperò di un altro luogo della città, dove c’è gente più brutta, più pericolosa. Qui trovi solo balordi mezzi ubriachi e più ratti di noi, che venderebbero l’anima per uno di questi sacchetti e, soprattutto, per riceverlo dal tuo sorriso. Sorridi sempre, mi disse. Sorridi sempre, ma solo a chi sorrido io.

X

Non avrei immaginato che sarei diventata una venditrice di zucchero. Eppure, quante volte da bambina avevo osservato in silenzio quell’omino basso, che con il suo pentolone si piazzava accanto all’ingresso di un parco per rotolare e rotolare un bastoncino di zucchero filato. Sono un po’ quell’omino, mi dicevo. Ma invece di vendere zucchero ai bambini, lo vendo a balordi mezzi ubriachi e più ratti di noi. E devo sorridere.

Anche l’omino di zucchero – così lo chiamavo – mi sorrise, una volta. Ma io non avevo genitori che potessero barattare una moneta in cambio di un bastoncino pieno di zucchero. O meglio: chissà chi erano i miei genitori in quella bolgia di persone ammassate in camere dalle pareti nere e incrostate di vecchiaia e muffa, di fallimento e degrado. Chissà se c’erano mai stati, lì in mezzo.

Era una domenica e con gli altri piccoli ci avventurammo tra le strade della città. Fu una delle nostre rare incursioni fuori da una di quelle stanze piene di umidità e dalle finestre rotte. Perché, durante quelle uscite, seppur fossimo ancora dei piccoli ratti, ci rendevamo comunque conto di come non fossimo graditi. Di come la gente ci evitasse, ci guardasse con pietà o disprezzo, allontanando da noi anche i loro bei cani tenuti al guinzaglio. Non sopportavamo di dover restare sempre chiusi in casa anche se fuori c’era un cielo splendente. Ma avevamo la sensibilità necessaria per comprendere che non eravamo desiderati. Eppure, ci sentivamo quegli sguardi graffiarci come unghie di un gatto che no, non colpisce all’improvviso e velocemente ma trascina il suo artiglio lentamente sulla pelle.

Nonostante tutto, quel giorno volevamo provare a vivere un pomeriggio tranquillo. Sgattaiolammo tra traverse e strade affollate fino a giungere a un parco. Ci piacevano i parchi, volevamo mettere le nostre zampe tra terra, erba e foglie. Volevamo assaggiare la natura così per come era. Non ci bastava l’asfalto che vedevamo ogni giorno dalle finestre.

Ed eccolo lì, all’ingresso del parco: l’omino di zucchero che avevo già incontrato durante le mie altre e rare uscite.

Sempre lì, sempre con un sorriso per ogni bambino che si avvicinava con delle monete. Noi, però, non avevamo monete. Lui non ci guardava con disprezzo: lui non ci vedeva. Per lui non esistevamo. Non so se ferisse di più uno sguardo sprezzante o un viso indifferente.

Quella domenica provai ad avvicinarmi. Il profumo che veniva fuori dal suo pentolone era buonissimo. Mi chiedevo che sapore potesse mai avere lo zucchero cotto così.

Fu quel giorno che mi sorrise. Forse non aveva capito bene chi fossi, cosa fossi. Forse, in fondo, era veramente un uomo tanto buono con un sorriso per tutti.

Abbassò lo sguardo, mi sorrise. Ricambiai e poi fissai, con sguardo triste, la sua pentola. Lui prese un bastoncino di legno, avvolse intorno un tocchetto di zucchero e avvicinò al mio viso la punta della nuvola bianca.

Io mi sporsi in avanti, timidamente, e leccai quella bambagia di zucchero. Poi un altro assaggio. Lui sorrideva.

Arrivò un uomo dal vestito elegante. Accanto a lui, un bambino dai vestiti puliti e dalle scarpe bianche come quella nuvola che stavo assaggiando. L’omino di zucchero chiese se volessero uno o due bastoncini di zucchero filato. Uno, disse l’uomo dopo avermi appena sfiorato con sguardo disgustato.

L’omino di zucchero allora si abbassò, voleva darmi la bacchetta così che io potessi continuare a gustare quella minuscola nuvoletta che mi stava donando. Ma bastò un calcio del bambino dalle scarpe bianche per farmi perdere l’equilibrio – già precario. La nuvoletta finì per terra, inzuppandosi di polvere e terra battuta.

L’uomo non disse nulla. Il bambino mi guardava con un 70 sorriso cattivo. L’omino di zucchero si fermò, perplesso.

Abbiamo premura, per favore si sbrighi: così quell’uomo lo richiamò al suo dovere.

Quando ebbe finito la bacchetta per il bambino dalle scarpe bianche, l’omino di zucchero si voltò, mi cercò. Ma io non c’ero più.

Ero corsa a casa, nella mia tana. Preferivo piangere, nascondermi. Promettevo a me stessa che mai, mai più sarei uscita. Mai più sarei tornata nel mondo. Tornarono tutti a casa, al calare della sera. Tutti gli altri piccoli erano allegri, si erano divertiti e la loro felicità riempiva il nostro tugurio. Io li osservavo e un po’ li invidiavo. Chissà dov’era mio fratello. Lui ormai era grande e non passava più molto tempo con noi.

Chissà dov’era e cosa avrebbe fatto, al posto mio. Come avrebbe reagito. Mi addormentai, esausta per le troppe lacrime che avevo fatto scorrere in silenzio. All’alba mi svegliò lui. Era appena tornato nella nostra tana con una bacchetta piena di zucchero filato. Non so come avesse fatto a procurarsela. Non so come avesse saputo di quello che era successo. Lo abbracciai e ridendo iniziammo a mangiare insieme quella nuvola bianca, strappandola con le zampe dalla bacchetta.

Lui era mio fratello.

XI

Ogni sera, per più di una settimana, io andai a scuola. Seguivo le lezioni di mio fratello. Così si divertiva a 71 definirle, lui: lezioni di vita. Poi, come mi aveva già anticipato, sarei rimasta sola. La prima notte da sola, sotto le stelle, c’era un leggero vento, che si avvertiva appena. Era una notte di fine estate. Non era fredda. Avevo solo una sciarpa. Il vento era soave ma presente. Dovevo scegliere se avvolgere la sciarpa al collo o poggiarla in testa. Preferii capelli inumiditi a un collo debole. Avevo la costante sensazione che quella parte di me, così sottile, potesse essere – da un momento all’altro – stretta dalle grinfie di quegli uomini balordi e storto. Era un pensiero assurdo, ma pur sempre un pensiero da ascoltare.

Avevo ancora pochi anni per conoscere le crudeltà del mondo ma sottoterra mi avevano cresciuta in un clima di perenne ostilità. Da ratto qual ero sapevo nascondermi meglio di altri perché, seppur ancora con pochi anni addosso, mi vedevo già puntati addosso sguardi ingombranti sulle mie braccia e gambe bucate. A bucarli erano stati, molto presto, gli adulti. Per saziarmi, dicevano, soprattutto nei giorni in cui acqua e cibo erano un miraggio lontano. Ma il mondo, lì fuori, non poteva sapere. Non poteva comprendere. Sapeva che noi eravamo i ratti che vivevano sottoterra. Ma dei nostri riti, delle nostre lotte di sopravvivenza, di quello che dovevamo ingoiare pur di poter – un giorno – uscire a vedere la luna, non sapeva nulla. Ed eccomi qui, nel mio primo giorno di lavoro. Il primo di quelli che sarebbero stati tantissimi, diceva mio fratello.

Avevo memorizzato nomi, volti e soprattutto cattivi odori. Ero cresciuta come un animale – dopotutto ero un animale – e il mio naso era uno strumento di 72 sopravvivenza indispensabile, forse ancora più degli occhi.

C’era la donna con tanti figli e tanti uomini che, ogni notte, la passavano a prendere e poi a lasciarla di nuovo lì. Aveva un odore di sesso e sudore. Aveva sempre i capelli intrisi di puzza di tabacco. L’avrei riconosciuta anche senza la luce delle stelle a illuminarci, nella notte.

C’era un ragazzino che ci raggiungeva sempre a bordo di un motorino sgangherato. Riconoscevo l’odore della sua marmitta e il suo candore di bambino. Perché alla fine era un bambino che fingeva di essere adulto, troppo adulto da poter assaggiare tutto lo zucchero che poteva comprare con la paghetta dei genitori. Chissà cosa se ne faceva, poi.

C’era l’uomo ben vestito, sempre elegante, che anche dopo una giornata di lavoro aveva ancora l’odore di dopobarba appena sparso sul viso. Penso fosse l’unico a utilizzarlo, tra tutta la gente che passava a trovarci.

C’era l’uomo che puliva i treni, che arrivava sempre insieme alla sua compagna che lavorava nel bar della stazione. Avevano entrambi l’odore della loro casa, addosso. Un odore di bucato che lei, si capiva, faceva sempre con quel detersivo di discount che rimaneva addosso alla loro pelle. Così tanto da fare irritazione e portarli a grattarsi sempre mentre lavoravano.

C’era poi una donna in camice bianco, con l’odore della lacca per capelli e quello del suo profumo di marca addosso. Passava da noi prima di rientrare a casa. Dopo 73 aver salvato tante vite in ospedale, veniva lì a impastare di zucchero la sua.

E poi c’erano tanti altri balordi, volti anonimi tra i tanti, ignorati dal mondo. Ma comunque con uno spazio riservato da noi, per loro. Sapevano che noi li avremmo riconosciuti, li avremmo considerati, seppur per pochi minuti: il tempo di uno scambio di banconote e bustine.

Il mio naso li riconosceva subito, ancor prima dei miei occhi. Nella mia prima notte da sola sentivo addosso un misto tra felicità e paura, ansia da prestazione e incoscienza, beatitudine dell’inconsapevolezza del crimine che commettevo e voglia di incassare quante più banconote possibili.

Ed eccoli arrivare, i primi balordi. Io consegno i sacchetti. Loro mi danno quanto devono. Sanno che non devono nemmeno provarci a darmi di meno. Perché mio fratello è capace di riportare sulla terra l’intera città delle ombre, scovarli e dargliene fino a far uscire dal naso e dalla bocca l’ultima goccia di sangue rimasta in corpo. Era stato questo il suo monito, prima del passaggio di testimone, presentandomi ai suoi clienti. Ma queste minacce non avevano inibito altre paure: come la paura di toccare una donna. Quella paura non l’avevano. E tra la consegna di una busta e l’incasso del denaro, c’erano mani che scivolavano per pacche sul culo o che cercavano di insinuarsi sotto la maglia a partire proprio dal mio collo. Quel collo che avevo protetto, a costo di tenermi l’umidità sulla testa.

Quella sera avevo perso il conto di quante mani mi 74 avevano toccato o sfiorato. Chiudevo gli occhi, non pensavo, mi spostavo e attendevo gli altri clienti. Sopportavo in silenzio. E mentre ero immobilizzata nella mia attesa un uomo bellissimo, dagli occhi azzurri di ghiaccio, con un odore che non avevo mai sentito, mi chiese un sacchettino. Mio fratello era stato chiaro: non dare niente a chi non conosci. Ma lui mi mostrò delle banconote: tanti, più di quante gliene avrei dovute chiedere. Pensai che alla fine l’affare era buono, che magari non lo avrei più rivisto o che sarebbe diventato uno dei nostri affezionati. Non stetti a pensarci troppo. Gli diedi quel che voleva.

Fu la mia ultima vendita. E non solo per quella notte. Perché nella mia prima notte da omino di zucchero, nonostante le prime vendite fossero andate bene, nonostante le pacche sul culo sopportate, fallii.

XII

Fallii perché io sentivo le risate. Sentivo bambini allegri – bambini che avrebbero potuto avere giusto un paio di anni in meno rispetto a me. Sentivo il loro giubilo, la loro felicità. Sentivo quella voce al microfono che, sotto il tendone del circo, presentava i nuovi ospiti.

Resistetti, giuro. Resistetti il massimo che riuscii. Poi abbandonai il pentolone dello zucchero filato, rimisi la busta ben in fondo nella borsa di stoffa che portavo a tracollo e mi incamminai.

Non sapevo cosa fosse un biglietto d’ingresso, un posto numerato in cui sedermi. Un uomo anziano in divisa, sommerso da colori e nastrini sgargianti, con una gentilezza a me sconosciuta mi accompagnò passo dopo passo fino alla mia poltrona che altro non era che un piccolo schienale di plastica in cima ad una platea festante.

Mi dispiace signorina, mi disse a bassa voce una volta che mi sedetti. Ma è arrivata tardi e questo è l’ultimo spettacolo. Però c’è la nostra star più attesa: vedrà, ne vale la pena assistere, anche se è l’ultimo spettacolo. E conservi il biglietto: se domani, nello spettacolo del mattino, c’è qualche posto vuoto, la farò entrare così potrà vedere anche i numeri che si è persa.

Avevo un appuntamento, quindi fuori dal sottosuolo. Non a vendere zucchero. E non era un appuntamento notturno. Qualcuno, sulla terra, mi attendeva. Di giorno. Non mi era mai capitato ma soprattutto non mi era mai capitato che qualcuno, da qualche parte nel mondo, lì fuori, mi invitasse a rimanere. A non andare via del tutto. Sotto la luce del sole.

Il mio cuore impazziva, scalpitava, mentre i miei occhi si posarono sull’animale più bello, elegante e maestoso che avessi mai visto. Volava, senza ali, tra cerchi infuocati. Saliva su sgabelli con le sole zampe posteriori, stava in equilibrio perfetto, controllando ogni movimento e oscillazione di sé e del mondo attorno con due occhi neri, immensi. Il suo manto era dorato, i suoi denti bianchi aguzzi ma no, non faceva paura quando ruggiva. Eravamo uguali, io e lei. Io un piccolo roditore, senza denti e senza artigli. Lei, così splendida, ma con lo sguardo triste. Mancava qualcosa, forse, su quel palco, per darle conforto e sicurezza. Tra animali ci si capisce. Nel suo sguardo rivedevo la mia tristezza quando da piccola, all’alba, guardando dalla finestra in fondo alla 76 strada, mi convincevo che ormai era troppo tardi e che mio fratello non sarebbe tornato. Ma poi arrivava. Lui, mio fratello, non mi abbandonò mai.

Guardai il suo spettacolo e ogni suo movimento era per me un brivido alla schiena. Uscii fuori, quando tutto fu finito, mentre la folla si dileguava in città e non volli allontanarmi da quella cittadella fatta di tende e camioncini. Sapevo che da qualche parte, in qualche stanza su quattro ruote, c’era lei, a riposare. Avrei atteso il mattino lì, seduta in un angolo, in quello spazio immenso di sabbia da cui, con il vento, si sentivano – anche se in lontananza – le onde del mare.

Avrei atteso lì lo spettacolo della mattina successiva. Non volevo tornare sottoterra. Chissà cosa sarebbe successo e come e quanto si sarebbero arrabbiati mio fratello e gli altri vampiri nel vedere che avevo ancora tanti sacchettini di zucchero con me, rimasti invenduti.

Per quella notte, dicevo, non mi avrebbero vista tornare. Avrei atteso l’alba lì e mi nascosi tra alcune scatole di cartone accatastate nell’attesa di essere portate via. Rimasi ad ascoltare il silenzio della notte. Le onde si sentivano, anche se lontane. Mi soffermai a guardare il firmamento che lì, lontana dai lampioni e dalle luci della città, si vedeva in una maniera per me meravigliosa. Mai successo prima.

Poi sentii un odore che avevo già incrociato, quella sera. Si avvicinava verso di me, sempre di più, anche se non lo vedevo e non sentivo i suoi passi. Era l’uomo dagli occhi di ghiaccio, pensai. E un brivido di paura mi avvolse.

Avevo paura di cosa avrebbe potuto fare trovandomi lì, da sola. Pensai bene, pensai con freddezza. Lui non conosceva mio fratello, non sapeva del nostro regno degli inferi. Non sapeva che non poteva farmi del male perché la vendetta del mondo da cui venivo sarebbe stata terribile, per lui.

Mentre pensavo questo, alzai gli occhi e lo trovai lì, di fronte a me. Magro, di una magrezza sconvolgente. Bello, di una bellezza mai vista. Mi porse la sua mano. Vieni, mi disse, non voglio farti del male. Non puoi stare qui, sussurrava. Mi fidai di quella voce come mi sarei fidata di mio fratello. Mi lasciai andare. Quei suoi occhi erano tristi e buoni, sinceri e bellissimi, magnetici. Mi alzai, prendendo la sua mano. E iniziammo a camminare verso la città. Insieme passammo accanto a quelle vetrine con i loro soli all’interno, le stesse che avevo visto ogni sera, mentre andavo verso la stazione con mio fratello. Ma mai mi ero fermata a guardarle. Quella sera lo feci. Mi fermavo, guardavo i manichini ricoperti da gioielli, gonne, parrucche. Un mondo a me sconosciuto dietro lastre di vetro lucine.

Fu in uno di quei momenti in cui mi fermai ad osservare l’ennesima vetrina che lui lasciò la mia mano. Si tolse una giacca leggera che teneva addosso e dove aveva affondato le mani – dopo aver preso, ore prima, la bustina di zucchero. Si tolse la giacca e me la diede.

Forse è meglio che ti copra un po’, mi disse.

Lo feci senza ribattere perché quella giacca era il calore di cui avevo bisogno quella sera.

Camminammo ancora fin quando non arrivammo davanti una pizzeria. Lui si sedette in un tavolo sistemato nella piazzetta lì di fronte. Io davanti a lui. Ordinò due pizze, una coca cola e un’acqua naturale. Prese anche una porzione di patatine fritte che arrivarono subito e che iniziammo a mangiare senza continuare a dirci una parola.

Non mi parlava. Non mi guardava. Io provai a chiedergli il nome. Il mio non lo ricordavo, gli dissi, ma non è rilevante. Il suo, diceva, lo si trovava spesso sui giornali, così spesso che aveva ormai noia a ripeterlo. Gli risposi che non leggevo i giornali, che conoscevo poche lettere dell’alfabeto, che sicuramente non avrei riconosciuto il suo nome, se anche me lo avesse detto. Continuò a rimanere in silenzio.

Finimmo di cenare. Finimmo di bere. La luna era candida nel cielo e la città era sommersa nel silenzio. Fu allora che mi chiese se fossi stata, quella sera, al circo. Gli raccontai della leonessa e dell’appuntamento che avevo l’indomani mattina.

Attenderò fuori, non tornerò laggiù, per stanotte. Non dissi casa. Dissi laggiù.

Fu allora che lui, per la prima volta da quando c’eravamo incamminati e seduti, mi guardò. Mi disse solamente Non ci tornare più, laggiù.

Perché? chiesi.

Perché meriti altro, oltre alle gallerie sotterranee. Perché meriti di restare anche dopo le albe e di goderti i tramonti. Perché puoi correre sui prati come sulla spiaggia. Perché non c’è nessuno che ti obbliga a tornare.

Gli dissi che avevo un fratello che non mi aveva mai abbandonato. Non potevo lasciarlo da solo.

Portalo con te, rispose lui. Restate insieme, in superficie.

Furono queste le ultime parole che disse prima di chiedermi, adesso, dove volessi andare.

Risposi che non volevo rinunciare per nulla al mondo allo spettacolo del circo, l’indomani mattina.

Ci incamminammo verso la stazione. Adesso era lui a seguire me. Tornai tra le scatole in cui mi aveva trovata. Lui mi guardò rannicchiarmi tra esse, mentre cercavo di diventare minuscola. Si sedette accanto a me.

Non è conveniente che resti qui sola, disse. Andrò via all’alba.

Ci addormentammo mentre la città cadeva nel buio profondo.

XIV

Ci svegliammo all’improvviso.

Sentivamo urla e vedevamo le luci del circo che si accendevano.

È scappata! È scappata!

Gridavano tutti. Il piccolo villaggio fatto di tende e camioncini si svegliò, all’improvviso.

È scappata! gridavano.

Luci artificiali accese ovunque e gente che iniziava a correre verso la spiaggia. Mi avvicinai, correndo dietro quella piccola folla che si era formata, cercando di non farmi vedere – complice il buio della notte che loro lasciavano alle spalle. Poi sentii meglio: era scappata lei, la leonessa del circo.

Dobbiamo cercarla, dissi all’uomo dagli occhi di ghiaccio che mi aveva seguita, da lontano.

È quello che vuoi? Mi chiese.

.

È un buon motivo per restare in superficie. Così dicendo, mi porse la mano. Strinse forte la mia.

Resta in superficie. Corri, scappa. Ma resta in superficie. Era il suo saluto. Non lo avrei visto mai più.

La giacca: non dimenticarla gridai ma ormai mi dava le spalle. Si voltò. Un sorriso – l’ultimo – bellissimo. E non disse nulla. Sparì, inghiottito nella notte.

Dietro di me voci concitate e gente che correva.

Qualcuno gridava è in spiaggia, è in spiaggia!

Corsi con loro. La vidi, quando la raggiunsero, e la vidi quando, con un balzo perfetto, si staccò dalla sabbia e iniziò a correre via, verso la città. Iniziarono a inseguirla ma io non avevo la loro stessa energia. Quella sera avevo mangiato tanto, troppo, rispetto a quanto il mio stomaco non fosse abituato a reggere. Inoltre, non avevo zampe buone per correre così tanto. Alcuni iniziarono a correre via con un’auto.

Io ero troppo stanca e iniziai a vagare per le strade, cercando qualcuno a cui elemosinare dell’acqua. Ma no, mi dissi, pensando a quanto mi aveva detto quell’uomo magrissimo e bellissimo: resta in superficie.

Stavolta non avrei elemosinato nulla perché avrei potuto pagare, perché avevo con me quei soldi lasciati dai clienti. Mio fratello, dopotutto, aveva ragione, anche se lui non voleva restare in superficie. Mio fratello aveva ragione quando diceva che, se avessimo continuato a lavorare così, non avremmo più dovuto elemosinare né acqua né zucchero. E né il sole. Lo avremmo avuto sempre, tutti i giorni, come tutte le persone normali. Ma lui aveva bisogno di tempo, aveva bisogno di continuare a stare nel regno degli inferi.

Resta in superficie mi diceva una voce lì, insinuatasi nella mia testa.

Continuava a parlarmi, quella voce, mentre persi l’orientamento, smarrendomi tra vicoli e incroci a me sconosciuti. Era una geografia, quella della città, che non 82 conoscevo.

XV

Avevo sete. Avevo soldi. Ma tutto era chiuso, sigillato. E nell’aria si avvertiva il terrore per la fuga del leone. Mi ero allontanata così tanto dalla folla, dalla gente che correva, che inseguiva la leonessa impaurita, da ritrovarmi da sola. Io, i miei passi, il silenzio del cielo. Il sole della notte, pallido, lì, immobile.

Fu allora che lo vidi: uno stormo di gabbiani. Volava su di me, intorno a me. Volava lasciandosi il mare alle spalle. Andava oltre, verso la terra ricoperta di folti alberi e colline. Li seguii, senza una ragione, forse perché pensavo che sì, alla fine loro sapevano cosa significasse restare in superficie. Loro erano sempre sulla superficie del mondo: planavano sull’acqua, planavano sul suolo, poggiavano le zampe stanche sulla sabbia e solamente per poter riprendere il volo.

Li seguii fin quando non li persi di vista: erano andati troppo in alto e troppo oltre. Il buio della notte li aveva nascosti ai miei occhi da ratto. Ero in mezzo a un campo dall’erba alta e incolta. Sentivo il fruscio dei rami degli alberi così soave e così solenne. Si muovevano con il vento leggero che cominciava a pungermi. E si agitavano, punti anche loro. Non era così diverso dal rumore delle onde che avevo sentito poco prima, quando ero corsa anche io alla ricerca della leonessa.

Ripensai a quegli attimi e mi chiesi perché non fossi rimasta lì, io che avevo sempre sognato il mare e che finalmente lo avevo davanti a me. Sarei potuta rimanere lì, a farmi cullare dal suono delle onde e ad accarezzare la sabbia umida, cercando le conchiglie. Invece no, avevo preferito seguire quei due grandi occhi tristi che avevo visto danzare sul palco. Volevo rivedere la leonessa, dirle che alla fine eravamo, entrambe, due solitudini che si incrociavano. E che io la comprendevo. Anche io cercavo la libertà. Io in superficie. Lei fuori da una gabbia.

Mi sedetti sotto uno degli alberi più imponenti. Mi trasmetteva sicurezza, idea di riparo, di casa, di calore. Poggiai la mia testa ormai stanca al suo imponente tronco. Chiusi gli occhi.

XVI

Quando li riaprii il sole era ormai molto alto, in cielo. Avevo perso l’alba. Dopotutto, era l’unica cosa che avessi mai visto – nell’attesa che il mio vampiro tornasse sottoterra, da me. Era un sole caldissimo, scottava. Io non sapevo come tornare sottoterra: mentre la mappa dei cunicoli era ben incisa nella mia memoria, tutto quello che c’era sopra il regno degli inferi era, per me, un labirinto sconosciuto.

Sentivo urla non molto lontane. Stavano arrivando uomini in auto e con fucili che sporgevano dal finestrino. Erano diretti verso di me. Cosa volevano? Come sapevano chi fossi? Perché venivano verso di me con furia?

Ma non era me che cercavano. Mi alzai, mi guardai intorno mentre le mie zampe mi tenevano in piedi in mezzo a un campo deserto. Lei, la leonessa, era lì. Si era appena svegliata, probabilmente. Come me. Eravamo simili, l’ho già detto.

Ci guardammo per un attimo e i nostri occhi si scambiarono i racconti sulle nostre vite, ne sono certa. Io sentivo sulla sua pelle, come sulla mia, il calore del sole, per la prima volta. Per la prima volta senza paura, senza l’obbligo di tornare all’ombra. Perché per la prima volta, sia io che lei ce lo stavamo godendo tutto, quel bruciore piacevole sulla pelle.

Poi lei scappò. Io corsi verso la direzione opposta.

Mi nascosi tra i rami degli alberi. La vidi catturare e portare via. Le lacrime scivolavano sul mio volto senza che me ne fossi veramente resa conto. Quando tutti andarono via, notai lì, davanti a me, la lunga strada che avevo percorso la notte precedente e che mi aveva fatto smarrire tra le campagne. Adesso sapevo come tornare in città. Ma non sarei andata sottoterra. Sarei rimasta in superficie.

Più camminavo, più mi addentravo nelle strade della città, più la mia pelle e i miei vestiti mi sembravano così sporchi, così fuori posto. Mi rendevo conto che ero inadatta a quel mondo.

Percorsi le vie del centro invasa da rumori e suoni che mai avevo sentito essere così forti. I clacson, gli allarmi delle ambulanze, il brusio della gente che parlava, si chiamava, parlava al telefono percorrendo le strade: avevo sempre sentito tutto questo ma ovattato. Avevo sempre sentito tutto ma dagli spiragli che lasciavano piccoli scorsi di visuale del mondo mentre io, lì sotto, mi nascondevo – come tutti gli altri.

Noi, i sommersi.
Noi, i ratti.

Guardavo le vetrine che, la sera prima, avevo visto irradiare luce propria e illuminare i marciapiedi. Adesso era il sole a farle brillare.

Sognavo di entrare in un negozio qualunque, uno di quelli con le vetrine grandissime e con tanti indumenti esposti sui manichini, e comprare vestiti nuovi. Avevo ancora i soldi delle vendite della notte precedente e altri sacchettini di zucchero: avrei potuto pagare qualsiasi cosa, pensai. Ci provai.

Entrai seguendo il richiamo di bei tessuti rosso porpora e blu mare esposti in vetrina. Ero sporca, certo, adatta a un altro mondo, ma chiesi di poter avere quel costume rosso esposto in vetrina. Forse la promessa di mio fratello si stava avverando: zampe nuove per andare a mare. Le avrei avute.

Che taglia, mi chiese una donna.

Non lo so, risposi. Prese un costume, dopo avermi osservata per qualche minuto. Penso stesse prendendo le mie misure con il suo sguardo. Lo piegò con delicatezza, inserendolo in una busta di carta. Mi disse la cifra da pagare. Misi sulla tavola tutti i soldi racimolati la notte prima. Non bastano, mi disse. Ma io ero certa di poter pagare fino all’ultima moneta necessaria. Poggiai accanto alla cassa, lì dove avevo già messo le banconote, due bustine di zucchero.

Un momento, mi rispose la signora dalle belle unghie colorate di rosso. Aprì una porta, in fondo al negozio, e uscì dalla stanza. Non tornò più per un bel po’. Poi riapparve, sorriso imbarazzato ma comunque un sorriso, che io ricambiai.

Un attimo di pazienza, mi disse, mentre mi dava le spalle e apriva e chiudeva cassetti, con fare nervoso o forse sbrigativo. Non so, non sono brava a interpretare i movimenti degli uomini di questo regno.

Pochi minuti dopo sentii aprire la porta d’ingresso con un suono di campanelle che sembrava un cinguettio vero. Non mi voltai, perché continuavo a osservare quella donna per capire se darle altre buste o se quelle due fossero sufficienti.

Poi avvertii una mano robusta posarsi sulla mia spalla. Mi fece girare. C’erano, davanti a me, due uomini in divisa. Mi trascinarono fuori, mentre mi ponevano domande che non capivo. O, semplicemente, non sapevo quale fosse la risposta esatta da dare.

Aprirono lo sportello della loro auto. Ripensai alla leonessa, a come l’avevano portata via. Eravamo simili, io e lei. Poco prima di sedermi in auto, alzai gli occhi al cielo. Vi prego, non toglietemi subito il sole, dissi. Ma non mi ascoltarono. Da quel giorno, vidi il sole attraverso la grata della 87 finestra della mia nuova stanza. Qui dentro tutto è bianco: la tavola dove mangio, le lenzuola del mio letto, le pareti e il pavimento. La finestra si affaccia su un cortile dove ci sono fiori e alberi, ma anche filo spinato.

Qui l’acqua sa di acqua, il cibo sa di cibo. Mi piace pensare che sia stato il sole, alla fine, a salvarmi, dandomi una prigione migliore.
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