Ginevra, sette voci di donna e gli orrori di un secolo

Sette vite straordinarie di donne normali, frammenti di un mosaico immenso, in “Ti aspetto sotto casa mia” di Katia Tamburello, che racconta donne e quartieri di Ginevra. Satelliti tutte (o quasi) di una città che le ha accolte ma che forse, a queste, non appartiene fino in fondo…

Ginevra è una città sommersa, ambigua e per certi versi anche misteriosa. Con le sue mille anime, etnie e testimonianze nascoste, si mostra come un caleidoscopio di esistenze raminghe, e vissuti personali, talvolta stupefacenti. 

Katia Tamburello, scrittrice, giornalista e docente di origini palermitane che da anni vive in Svizzera, nel suo nuovo libro Ti aspetto sotto casa mia. A Ginevra e dintorni (358 pagine, 20 euro), edito da Antipodes, ha intervistato sette donne comuni, proventi da ogni parte del pianeta che da anni, per destino, per scelta, per amore, per necessità, abitano a Ginevra. «Ho iniziato le interviste nel 2015. L’idea era di raccontare la città attraverso le voci di alcune donne comuni che vivevano in quartieri diversi – afferma l’autrice nell’introduzione al libro -. Volevo comporre un puzzle dei quartieri di periferia, la Ginevra dei ricchi, il mondo delle organizzazioni non governative e dell’Onu, i quartieri dormitorio come Meyrin, il mondo delle banche». 

Racconti difficili e dolorosi

Le storie raccontate dalle protagoniste si avvitano alle descrizioni dei vari quartieri di Ginevra, in cui vivono: da Servette, a Le Lignon, da Meyrin a Puplinge, da Le Petit Sacconex a Plainpalais. Un doppio viaggio quindi, nel mondo e nella Ginevra che seduce e cambia pelle, continuamente.  

Dalla voce di chi vive quei quartieri, si scoverchiano vasi e scrigni di racconti difficili e dolorosi. Così, le sette testimonianze femminili, diventano narrazioni inedite dei fatti storici più cruenti del Novecento: dal genocidio armeno ai fatti dell’11 settembre, alla dittatura di Nicolae Ceaușescu. 

Il genocidio armeno, l’orfana cinese

Karine, l’armena che da dieci anni vive a Ginevra e lavora per l’Unicef racconta la sua personale lotta per fare conoscere la vera storia del genocidio «che ancora oggi il governo turco si ostina a ignorare». Di quella tragedia vissuta in prima persona dalla sua famiglia ricorda gli oggetti che la bisnonna ha conservato, oggetti che diventato simbolo di quel periodo, e un legame con il passato. 

«Di tutta questa spaventosa storia di famiglia, l’unico ricordo intenso che ho è legato agli oggetti che la mia bisnonna era riuscita a salvare da casa sua. (…) Per noi sono divenuti negli anni il simbolo del genocidio. Il ricordo delle pentole che servivano per cucinare grosse quantità di cibo per l’inverno e un baule che noi bambini non avevamo il permesso di aprire».

Grace, la donna di origini cinesi, racconta la propria vicenda familiare partendo dall’infanzia difficile della madre, un’orfana senza nome e cognome che era stata venduta, maltrattata e assoldata nell’esercito di Mao. «Mia madre era orfana. È stata venduta non so quante volte durante la sua infanzia; da adolescente non sapeva ancora la sua data di nascita, il suo nome e il suo cognome (…) Giovanissima e poverissima entrò a fare parte dell’esercito di Mao, fece la Rivoluzione e diventò una veterana dell’esercito.». 

L’aborto, l’espatrio

O ancora la storia di Doris, la cui vita sembra un lungometraggio cinematografico. Attrice e regista teatrale, Doris è di origini rumene, nel libro racconta di aver vissuto i fatti dell’11 settembre quando lavorava a New York; di aver conosciuto la dittatura di Ceaușescu, di essere fuggita insieme con la madre e aver salvato il padre che era rimasto nel Paese per servire lo Stato. Con molta fatica, ostinazione, e anche tanta fortuna la madre era riuscita a trovare un modo per ricongiungersi con il marito. Grazie alla sua abilità di infermiera infatti, la donna aveva aiutato la moglie dell’ambasciatore romeno ad abortire clandestinamente, e quel ‘favore’ le aveva permesso di fare scappare il marito e portarlo in Svizzera: “«Giunta a Berna, fu ricevuta dalla moglie dell’ambasciatore in persona. Questa signora l’accompagnò nelle sue stanze private, aprì i rubinetti del bagno e mise della musica di sottofondo poi le disse sottovoce: «Ho bisogno del tuo aiuto, sono incinta e devo abortire, questo figlio non è di mio marito»”. 

Confidenze segretissime, oggetti conservati come preziosi e trasportati nelle valigie insieme ai ricordi e alle cicatrici. Storie inedite, lotte personali, frammenti piccoli di un mosaico immenso, un po’ come accade ne “La storia” di Elsa Morante, in cui grande narrazione sarebbe vuota senza i suoi  personaggi e le sue voci minori. 

Nel libro di Katia Tamburello le storie che legano il passato con il presente, sono sotterranee, dolorose ma ugualmente affascinanti, perché tutte, straordinariamente vere.

Anche le foto 

Ti aspetto sotto casa mia di Katia Tamburello (qui una sua videointervista) racconta quindi sette vite straordinarie di donne normali che non si imbarazzano a sfogliare i loro album fotografici, accogliere in casa una estranea e mostrare, della propria vita, anche le pagine più intime. Molte di loro si mostrano anche in volto, come testimoniano le foto scattate da Martino Di Silvestro, che corredano il libro. 

Storie di vita, storie di donne, madri coraggiose o matrigne, lavoratrici impegnate e vulnerabili. Satelliti tutte (o quasi) di una città che le ha accolte ma che forse, a queste, non appartiene fino in fondo. Le sempre straniere, testimoni della Storia. 

Ci auguriamo di leggere presto una seconda parte del libro, con altre straordinarie testimonianze.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *