Vasta e Fazel, la storia della luce e la Palermo estranea

“Palermo. Un’autobiografia nella luce” di Vasta e Fazel è forse il racconto, per parole e immagini, tra ossessioni e ricordi, di una città, in cui lo scrittore palermitano – lessico ampio e puntuale che non compromette mai la sintassi – è tornato nonostante nessuna… riconciliazione. Un’autobiografia non convenzionale, un luogo incomprensibile, più immaginato che oggettivo. Un grande libro

Da parecchi anni il palermitano Giorgio Vasta sembra volere dare ragione a coloro che lo ritengono un saggista sopraffino piuttosto che un narratore. Distilla parole, frasi, libri, e con una certa parsimonia, a dispetto degli interventi su quotidiani, riviste o ai festival disseminati lungo la penisola. E soprattutto non dà alle stampe il successore de Il tempo materiale, ovvero il suo libro che più si avvicina alla forma romanzo. Ci lavora da parecchio, attorno a esso ci sono periodicamente sussurri e grida, e adesso pare che sarà pubblicato nel 2023. Negli anni si è dedicato parallelamente a tanti progetti editoriali. L’ultimo ad aver visto la luce è la “seconda puntata” della collaborazione con il fotografo iraniano Ramak Fazel, che vive fra gli Stati Uniti e l’Italia. I due avevano già firmato Absolutely nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani, edito da Quodlibet Humboldt: gli Usa fra deserti fisici e mentali, una specie di guida verso il nulla, con tanto di deserto interiore, non solo quelli reali disseminati in più di uno Stato americano, un libro quanto mai autobiografico, con la fine di una storia d’amore, una città lasciata malvolentieri, quella d’origine riabbracciata giocoforza. E proprio da questa città, Palermo, ricomincia il lavoro per parole e immagini di Vasta e Fazel, un grande libro.

Il fotografo, una bussola rotta

Ben cinque anni fa Vasta aveva anticipato quello che era un progetto in embrione e che adesso è un rettangolo di carta, Un’autobiografia nella luce (138 pagine, 24 euro), pubblicato da Humboldt Books. In un articolo scritto per l’edizione palermitana del quotidiano La Repubblica Vasta, con la consueta lucidità che ne accompagna l’opera, aveva individuato anni fa alcuni punti cardine, che è facile riscontrare nel risultato finale: «Palermo, i suoi quartieri, una materia che all’absolutely nothing americano oppone un eccesso di segni, l’absolutely everything se non addirittura l’absolutely too much»; «Percorrere lo spazio con Ramak è dunque in sé una forma di conoscenza… Ramak vaga, divaga, fonda il suo percorso (e la sua presenza) su flânerie e rêverie: sul vagabondaggio, sulla fantasticazione»; «raccontare questa città così selvatica e saldamente pericolante non è semplice…  Ramak — che di fatto funziona come una bussola strategicamente rotta — confonde la percezione dei luoghi». Vasta e Fazel sono «due signori di mezza età» che gironzolano, in virtù di un comune sentire e modo di immaginare, attraverso la scrittura e la fotografia. E le immagini del fotografo che completano il volume sono come le aspetterebbe chi ha letto il testo di Vasta. Ne riflettono pienamente l’anima e, in effetti, raccontano la luce.

Una luce da… lontano

La luce, se non una costante, è un filo rosso dell’esperienza letteraria di Giorgio Vasta. Nel corso di una conversazione, pubblicate su un sito che purtroppo non è più on line, Corrispondenze da Snova, Giorgio Vasta, intervistato da Donatella Orecchia, aveva spiegato il percorso che l’aveva condotto alla pubblicazione de Il tempo materiale per Minimum Fax.

… ho recuperato un centinaio di pagine che avevo scritto, un testo che aveva il titolo provvisorio di Storia della luce, un tentativo di percezione degli anni Settanta a partire da una particolare qualità di luce che consideravo emblematica di quel periodo, un racconto della luce come esperienza minima, elementare, eppure profondamente struggente…

Raccontarsi attraverso non luoghi

Bastano un paio di pagine delle quaranta effettive scritte da Giorgio Vasta in Palermo. Un’autobiografia nella luce,  per provare a inquadrare il volume, col suo lessico ampio e puntuale, che però non fa debordare mai la sintassi. La voce narrante ricorda il se stesso trentenne («andavo a zonzo e parlavo a vanvera, non desideravo altro che tergiversare e procrastinare»), nel 2001, alle prese con «una rigidità articolare e sentimentale» e con una Palermo «spudorata e caparbia», città che lo «aveva colmato di un sentimento di frustrazione», e che aveva lasciato a metà anni Novanta, per tornarci vent’anni dopo, «senza aver mai desiderato il ritorno, senza nessuna riconciliazione, al contrario avvertendo la città sempre più lontana e incomprensibile». C’è molta audacia nel raccontare la propria vita attraverso non luoghi, luoghi in cui si è estranei, i deserti americani prima, la città in cui si è nati adesso.

Due signori di mezza età

La scoperta di un software, di un gioco serissimo, dà la misura dei desideri («ciò che volevo: osservare, contemplare, scomparire nell’incanto della luce») di chi scrive dicendo io. Nella storia di questa ossessione per la luce ci sono ancora pezzi di vita, il lavoro, i viaggi, «qualcosa che allora aveva senso chiamare amore», un po’ come accadeva in Absolutely nothing. «Esiste una storia della luce?», è la domanda cardine di questo testo. E di sicuro esiste una storia personale della luce, che si fa fiamma ossidrica, fiammella di una candela, goccia di sperma, proiettore al cinema, oltre alla luce diversa che fa capolino in ogni film, in vecchi VHS. Ogni cosa è illuminata, ça va sans dire. E Vasta e Fazel, questi eredi di un mondo lucente, «due signori di mezza età», hanno in comune modi di immaginare, scrivere o fotografare, e sguardi concentrati su Palermo. Per il fotografo – le cui immaginano occupano uno spazio doppio rispetto al testo – è City of Phantoms, spettri viventi spesso disinteressati all’obiettivo; immagini in cui la commistione di arte e cronaca sembra naturale, evidente, in cui la sua Rolleiflex sembra essere scattata da un extraterrestre, senza per questo far venir meno il dialogo con le frasi di Vasta. Illuminando il tutto, il troppo della città.

Dove la vita manca

Non è certo un’autobiografia tradizionale di Giorgio Vasta quella figlia del rullino di Ramak Fazel e quella che emerge dalle poche pagine scritte, che si svolge fra più di una casa (all’Addaura, in via Sciuti, in via re Federico), in sella a un motorino, che ha forse, o forse no («… esiste solo ciò che manca, e la luce per me è dove la vita manca.»), la risposta alla domanda originaria sulla luce in vecchie bobine recuperate in digitale, filmati familiari che lo condurranno all’origine della sua vita, ai primi bagliori di luce del guardare e dell’essere guardato.

Una città ricordata e immaginata

Palermo è attorno e da nessuna parte, terra che resta sconosciuta e lontana, ostile e incomprensibile. La quintessenza di ciò che non è folkloristico e bozzettistico. Palermo è più negli angoli della casa paterna che altrove, più che «nello spazio fisico di centosessanta chilometri quadrati»; più che accaduta, è una Palermo dunque ricordata e ancora di più immaginata, tutt’altro che oggettiva. E la paratassi che è servita a comprenderlo, definitivamente (o forse no? Si potrebbe tornare in tal senso al romanzo che dovrebbe vedere la luce l’anno prossimo), è una corsa a perdifiato di periodi lunghissimi ma mai arzigogolati, prosa ma col ritmo dei versi. Un’esperienza da consigliare a lettori dell’intero “arco costituzionale”, dai più incalliti ai più disillusi.

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