Magliani, la malinconia è una posizione dello sguardo

Microcosmi protesi nel mare della scrittura sono i territori liguri verso la frontiera francese protagonisti di “Peninsulario” di Marino Magliani. Tra l’andare e il restare si muovono le figure di queste storie, in una terra che scivola in mare e alza le chiome al cielo come a protendere lo sguardo più in là, verso ciò che diventerà racconto

Un pacco arrivato per posta con timbro postale di Imperia. Le pagine sono da aprire col tagliacarte, come si conviene a un nuovo elegante volume della collana di Italo Svevo Biblioteca di Letteratura Inutile con le sue pagine intonse. Peninsulario (161 pagine, 16 euro) è il titolo del nuovo libro di Marino Magliani, e no, il timbro postale non era sulla busta, ma è proprio sulla copertina del volume: questo volume raccoglie infatti sei racconti che sono tutt’uno con la geografia dei luoghi che narrano e dove sono ambientati, caratteristica ricorrente nella scrittura di Magliani, autore del ponente ligure, ma forse qui più curiosa, più ragionata e ricercata. 

Ritratti di luoghi liguri 

La bella prefazione di Filippo Tuena che apre il volume avvisa: gli scrittori liguri sono autori di frontiera, schiacciati così come sono, tra mare e monti nel giro di pochi chilometri. Nel ponente di Marino Magliani la frontiera c’è davvero, quella con la Francia, subito dopo Ventimiglia, e quella tra i mondi opposti e inseparabili dell’aprico costiero e balneare e dell’opaco che si insinua per le valli dell’entroterra. Calvino è una citazione di riferimento secondo Tuena: scrittore a suo modo dell’esilio, che dall’altrove riesce a parlare di casa propria. 

Sta nella posizione dello sguardo la malinconia connaturata a queste scritture di penisola, “ritratti di luoghi liguri”, come li definisce Tuena, ai quali il paesaggio deve tanto. Le penisole sono le vallate che Magliani presenta come incipit geografico prima di ogni racconto. La Valle Impero, la Val Prino, la Valle Argentina e la Val Roia che risale dietro la frontiera francese, da est a ovest, un pettine che disegna una piccola area con i suoi microcosmi, ciascuno penisola che si protende nel mare della scrittura. 

Le vallate, una dopo l’altra, non sembravano neanche collegate tra loro, ma emergevano dal mare come coltellate, e tutto quel vuoto di luce e ombre passava sulla città, sotto i ponti dell’autostrada, nella terra incolta, e poi su, tra le rupi. Gli occhi ne dettavano il ritmo, infilavano gli spazi, spartendo scogliere, palmeti, uliveti secchi e bruciati.

Racconti della frontiera 

Personaggi indecifrabili e in cerca di qualcosa, a volte surreali, soli e ossessionati abitano i racconti del Peninsulario, ciascuno contraddistinto da una lunghezza differente e dalla messa in scena di una storia più o meno articolata. Una caratteristica tiene insieme questi soggetti, ed è la sospensione, frontiera metaforica tra un ricordo di ieri e l’oggi, tra mondi destinati a non mescolarsi, tra ciò che è visto o forse solo intuito, tra un qui e un altrove. 

Non ci sono vincitori: non lo è il giovane che costruisce muri, né il poliziotto che scavalca la frontiera, non lo è il promettente scrittore, e nemmeno colui che torna e ricorda le estati della giovinezza, e lungi dal vincere è anche il protagonista del racconto più esteso, destinato a inciampare, fino a sprofondare, in quel gusto un po’ amaro che Magliani stesso riconosce a queste storie. 

 “Ogni oggetto minerale e vegetale aveva l’obbligo di mostrarsi agli occhi e al mare, ma poi erano solo gli occhi a fare tutto, ad assalire per un istante la valle”: per navigare tra penisole occorre uno sguardo allenato, capace di cogliere i lampi di luce dentro al profondo e antico mondo di una Liguria incastrata a ovest, tra le Alpi e la Francia. Uno sguardo che ha imparato la sottile arte dell’equilibrio sul ciglio della frontiera, dove l’andare e il restare non sono movimenti opposti ma due facce di un foglio il cui filo è la capacità di porsi sulla frontiera, e osservare. È lì che si muovono le figure di questi racconti.

Sulla possibilità 

Un piccolo scarto, tra la Francia e l’Italia, tra il voltare le spalle e il restare, tra la lucidità e la follia, permette alla malinconia di attivarsi. Non una soluzione, piuttosto una posizione dello sguardo: Magliani osserva le contraddizioni dal bordo delle cose, un occhio qui e uno là, a cavallo della frontiera. Perché, proprio come scrive nel libro: l’universale non esiste, è un locale senza muri. 

Ognuno dei racconti di questa raccolta è una potenziale isola, “città invisibile” creata dall’incrocio di possibilità che permetteva a Marco Polo di incantare il Kahn. Ma le radici della Liguria di ponente la chiamano a terra, nella penisola che non ha nulla di invisibile, dove sobbolle la nostalgia per tutto quello che sarebbe potuto e non è stato. 

Non sarà forse un caso se, con una sorprendente autocoscienza, lo scrittore esordiente di uno dei racconti dichiara di scrivere “cose liguri, di frontiera, con molto paesaggio e poca trama”. E lo fa per domandarsi, immediatamente dopo, se la Liguria in fondo abbia una trama, o se non sia invece una geografia per malinconici, densa, raccolta tutta dentro la sua veste che si offre allo sguardo e a chi la percorre, un paesaggio fitto di contraddizioni, ostacoli e muri – frontiere, appunto – per destreggiarsi tra i quali occorre un atlante che raccolga tutti i volti di un arcipelago che voleva essere ma che è rimasto radicato a terra solo per un lembo. Un peninsulario, questo resta in mano: il racconto di una terra che scivola in mare e alza le chiome al cielo come a protendere lo sguardo più in là, verso ciò che diventerà racconto. 

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