Su questa stessa rubrica, qualche mese fa, abbiamo presentato l’ultima opera del compianto rav Jonathan Sacks, sforzandoci – in verità molto poco – di mostrare la grandezza di quest’uomo nella sua qualità di guida spirituale e culturale del nostro tempo.

Oggi, quasi come se esistesse un filo rosso che lega le menti più luminose ed i cuori più fecondi – un filo che esiste, eccome! – Area 22 presenta, proprio attraverso gli adattamenti del rav Sacks, un altro gioiello della Giuntina, tanto impegnativo quanto efficace e, soprattutto, utile, come cercheremo di dimostrare. Si tratta di Lezioni di Torà, di Menachem Mendel Schneerson (431 pagine, 20 euro), ultimo rebbe del movimento chassidico Chabad Lubavitch. Proprio lui, che distribuiva banconote da un dollaro ad ogni bambino, e diceva a ciascuno di essi: Ora va’, e con questi soldi fa’ un’opera buona. Proprio lui, che non si accontentava di fare del bene, ma che spese l’intera sua vita sforzandosi di far fare del bene agli altri. Lui, che moltiplicava le scuole della Torà, perché si moltiplicassero le coscienze e i cuori che, attraverso di Essa, avrebbero reso più vicino il Giorno dell’Atteso.

Il Chassidismo

Cos’è il Chassidismo? Rispondere a questa domanda è fondamentale per comprendere la portata di questo testo che, ben più che un saggio, si propone come la sintesi di un’intera dottrina e di una meravigliosa esistenza, e di tante altre prima di questa, trascorsa a scrutare la Torà alla ricerca di quel senso che realizza l’uomo non nonostante le sue occupazioni di ogni giorno (pensare ad una distinzione tra vita e spiritualità sarebbe quanto meno deviante) ma proprio a partire da queste ultime. La Chassidut, che qui siamo costretti a definire nello spazio di pochissime righe, è quel movimento spirituale ebraico che, consegnando alla gente comune gli strumenti della più alta mistica ebraica (come la kabbala, ad esempio) si propone di ricercare all’interno dello strato più immediato della vita di ogni giorno quel limpido senso di pietà e di amore che, disciolto nelle azioni più semplici e quotidiane che regolano la vita dell’uomo, fa sì che l’intera esistenza ne sia santificata ed elevata sul piano della consapevolezza e della trascendenza. Per capirci: girare una chiave in una toppa, aprire una porta, passare da un luogo all’altro; un gesto ripetuto decine di volte in una giornata, migliaia e migliaia di volte in una vita. Una sequenza di gesti semplici, immediati, senza clamori di eroismo derivati da insuperabili difficoltà. Eppure… girare una chiave in una toppa, aprire una porta, passare da un luogo all’altro: cosa dicono questi semplici gesti ad un’anima che rimane unita a Dio e alla sua Legge? Cosa rivelano questi passaggi a chi, illuminato dalla Legge, considera ogni parola una chiave, ogni porta una condizione, uno stato, una modalità di percezione della realtà, ed ogni passaggio da un luogo all’altro come la ripresentazione mistica di una Pesachche si realizza in ogni istante dentro il cuore dell’uomo? Questa obliqua consapevolezza, che trasverbera il vissuto come un raggio di sole tra i pulviscoli di una banalità spicciola che spesso governa ogni azione, specie in questo secolo, costituisce propriamente il contributo della mistica chassidica, dove tutto ciò che si trova nella Torà si incarna nei tasselli materiali della vita umana, a formare una composizione totale e totalizzante che, nel suo processo ascendente di ritorno, riporta l’uomo alla Legge e alla sua più intima Essenza: il suo Creatore, che vive in tutte le cose non perché panteisticamente presente in esse, come se ogni cosa fosse Dio, ma perché ogni cosa – restituita al suo senso più profondo, originale e finalistico – rende possibile un aggancio al Divino. Bellissimo, sulla scia di queste riflessioni, comprendere perché Elohim sia uno dei modi con cui ci si rivolga a Dio: si scopre nel contatto con Lui un’armonica e pacificata relazione con quella molteplicità di esistenze che, ciascuna a modo proprio, ne rivela la permeante e santificante presenza, finché da queste multiformi processioni di realtà, in una cammino a ritroso, si possa ritornare a quell’Uno che – contemporaneamente – è principio e compimento della fede di Israele e causa prima e fine ultimo di tutta la creazione. In tal modo: giro una chiave, apro una porta, passo da un luogo all’altro, realizzo la creazione, anticipo e compio – nel mio piccolo e santo affanno quotidiano – il tempo del Messia. La sarta cuce un orlo, il bimbo impara a leggere e a scrivere, il falegname tenta un incastro, il contadino apre un solco nella terra e – tutte queste cose – diventano il motore del Senso stesso della storia del cosmo. Perché? Perché ognuna di queste cose può essere obbedienza alla Torà e sua vitale ed attiva interpretazione. La Torà si interpreta attraverso le azioni: sono esse che, poste in un certo modo, performano l’uomo sul riflesso di quella prima azione creatrice che lo ha posto in essere.

Le parashot

Così, quando la Torà viene suddivisa in brani che, settimana dopo settimana, illuminano la vita dell’ebreo, ognuno di questi brani diviene una parashà, una sezione libera dal vincolo dei capitoli e dei versetti, una pericope che risponde ad un criterio “altro” rispetto alla comune ripartizione dei testi in base alla loro struttura redazionale. Si prende un brano, lo si legge, lo si interpreta e si comprende in che maniera – ed è questa, fondamentalmente, la bellezza di una tale scoperta – ogni episodio contenuto nel Pentateuco abbia visceralmente a che fare con il presente, con la vita di ogni giorno, con quelle cose che magari pensavamo lontanissime dal Testo Sacro: la Torà ha a che fare con me; e in effetti è qui che si scopre come quella Parola, ben più delle parole che la compongono, sia una presenza vivificante e significante.

Lezioni di Torà si presenta proprio così: 54 parashot, secondo la suddivisione del culto sinagogale, più 5 sichot, riflessioni che il Rebbe tenne in occasione di svariate circostanze e che, all’interno del testo, si armonizzano tematicamente con la parashà a cui si riferiscono e parlano delle cinque feste di Chanukkà, Purim, Pesach, Shavu‘ot e la festa dei Dieci Giorni.

Si può così immaginare di trovarsi a Brooklyn, e ascoltare il Rebbe Menachem che nel giorno di Shabbat, in sinagoga, ci spiega per quale motivo in quel determinato passo apparentemente ridondante (ma non esistono ripetizioni nella Torà, perché in essa non vi è un trattino che sia inutile, ed ogni parola è necessaria ed unica) si usi l’espressione Isacco, figlio di Abramo e, subito dopo, si dica Abramo generò Isacco. Già? Perché? Era ovvio, era stato appena detto. Come mai questo chiasmo? Vabbè, su, sarà un ricamo poetico, sarà un modo giocoso di ripetere nomi importanti…

E invece: il Rebbe aggrotta le sopracciglia, facendo sua la perplessità dell’uditorio, prendendola su di sé perché anche per lui, che deve spiegare la cosa, questa non risulti troppo semplice rispetto a come gli altri la vedono; si fa pensieroso, dimentica di aver capito per quale motivo vi sia quella ripetizione, si riconosce e si rende umilmente piccolo davanti alla Torà, vi si perde dentro senza trovare una risposta e la invoca (e così facendo egli è orante prima che oratore), poi sorride. Ma di un sorriso tenero, come del bambino che spalanca gli occhi perché ha trovato un regalo che non immaginava, come il contadino che ha trovato un tesoro in mezzo al campo, e il suo sorriso si schiude ad una parola, ad una spiegazione: Isacco in un primo momento teme che, non obbedendo a Dio, Questi possa punirlo; similmente, Abramo accetta di sacrificarlo ma, all’inizio, lo fa solo perché si aspetta una ricompensa da Dio (del resto lo aveva detto ai servi: ritorneremo! E quindi si aspetta che Dio gli restituisca Isacco vivo, dopo il sacrificio); ma poi capisce che lui è lui, e Dio è Dio, e dunque deve obbedire per amore e basta, perché obbedire a Dio è già la sua ricompensa. Ed è proprio in quel momento che Isacco, animato da un nuovo sentimento, dice al padre: “Legami stretto, perché io non sgambetti”. Ecco perché vi è scritto “Generazioni di Isacco, figlio di Abramo – Abramo generò Isacco”!

Noi, che siamo lì, e che siamo già rapiti da questa spiegazione, abbiamo la sensazione di aver capito qualcosa di importante. Sì, certo! Perché vi è qualcosa nell’atteggiamento di Isacco che si riflette in Abramo, e qualcosa che, da Abramo torna a riflettersi su Isacco. Abbiamo capito ma sentiamo che manca un piccolo particolare affinché la nostra comprensione risulti migliore e possa servirci ogni giorno. A me che non ho figli da dover sacrificare sul Moria, sorge la domanda su quale applicazione pratica quel brano debba o possa avere nella mia vita. E proprio a quel punto, accanto a noi, un uomo distinto, pacato e sorridente, ci mette una mano sulla spalla e ci spiega: Il Rebbe sta parlando dei gradi del timore e dell’amore. Isacco – Abramo – Abramo – Isacco: il timore inferiore, quello che teme per paura; l’amore inferiore, quello che ama nella speranza di una ricompensa; l’amore superiore, quello che ama per obbedienza e il timore superiore, quello che teme per desiderio che Dio sia felice! Questo vuole dire il Rebbe. Non è meraviglioso?

L’uomo accanto a noi è il rav Jonathan Sacks, anche lui lì, che prende appunti e si esercita ad adattare le parashot ad un pubblico come noi, che ha bisogno di qualcuno che gliele spieghi. Noi, bambini di cinque anni che cominciano a studiare la Torà.

Una metodologia etica

Leggere il Rebbe Menachem non significa solo avere un primo approccio con l’interpretazione del Testo Sacro; significa soprattutto, in un primo momento, avere un approccio con la realtà, con il fatto, delle molteplici e possibili interpretazioni. In un mondo sempre più autoreferenziale, dove il mio parere ha una tremenda sete di assoluto e di prevaricazione, la molteplicità ermeneutica che persino la Torà accoglie diventa il riflesso della stessa umiltà di Dio, il quale permette che il suo dono sia accolto in molti modi. E se le interpretazioni possono provocare all’inizio lo stridore di un conflitto, che riecheggia le guerre della Torà dentro le sinagoghe, dove le scuole rabbiniche mettevano su vere e proprie battaglie ermeneutiche sul senso di una sola parola, esse promettono poi – quando si capisce che fin dal primo giorno della creazione Dio separa le cose perché queste possano mettersi ciascuna alla ricerca dell’altra, creando relazione – l’armonizzazione delle diverse tradizioni. La nonna è una: il nipote ne parlerà in un modo, il genero in un altro, la figlia in un altro ancora; in tutto ciò la nonna tace e sorride, perché ciascuno di essi sta dicendo una cosa giusta su di lei, mentre, seduta in poltrona lavora ai ferri. A cosa lavori, nonna? Chiede il bambino, attirato dai tanti colori di quella lana: Preparo un vestito per colui che deve venire, risponde lei. Così le interpretazioni su ogni singolo passo della Torà: ciascuna, insieme alle altre, dispone l’universo al Tempo dei tempi.

Vi è un’etica della molteplicità, che si declina attraverso un’umiltà di base: una corona aurea sulla quale le interpretazioni si intarsiano come pietre preziose; ciascuna interpretazione sa di avere a che fare con un oggetto talmente immenso da dover necessariamente prevedere, almeno all’inizio, un non lo so come spiegazione migliore. Così, a pagina 72 del testo, scopriamo che il Rebbe era solito affermare, davanti ad un qualche enigma partorito dalla Torà: Non so come risolverlo. È già un grande, grandissimo insegnamento. Il bimbo chiede al papà come funzioni il moto dei pianeti; il papà risponde: non lo so, tesoro mio. Il bimbo cresce insieme al padre e questi si fa piccolo insieme al bimbo, e si scoprono tutti e due figli di un Mistero che li supera e che entrambi possono e devono amare senza il rischio che uno dei due possa sentirsi già arrivato. L’etica del non lo so, il prodromo ad ogni umilissimo tentativo di avvicinamento al Divino. E di avvicinamento all’altro, quello che aspetta alla fermata dell’autobus insieme a me, quella persona con cui devo comunicare parlando, dicendo e raccontando: parlerò con le parole, dirò con il cuore, racconterò con l’anima.

L’etica dell’interpretazione diviene così una morale esistenziale, un modo di creare relazioni proprio a partire dalla ricchezza di quelle diversità che si cercano attraverso la sinestesia dei sensi, che solo una persona innamorata può conoscere: così, se ai piedi del Sinai è possibile che il popolo veda il suono dei tuoni, è anche possibile che, mentre aspetto l’autobus, io veda nella persona che mi sta accanto le vibrazioni del suo cuore, le grida della sua anima, i sussurri dei suoi sogni.

L’autobus non passa e qualche viso si adombra: sorgono già cattivi pensieri, si affacciano già parole troppo dure e sconfortate. Ma un vecchietto che si chiama Aqiva, e aspetta l’autobus anche lui (perché alla fine l’Autobus giungerà certamente!), ad un certo punto dice: Sta ritardando perché ha dovuto fermarsi: una donna che era in viaggio ha dato alla luce il suo bambino e tutti i passeggeri l’hanno aiutata, ognuno di essi ha compiuto per lei una buona azione! L’autobus per questo non è ancora arrivato, e dunque rallegriamoci! L’etica dell’attesa, che si spende su quell’ottimismo illuminato dalla speranza, dal trasformare la realtà attraverso la speranza, per far sì che una cosa immaginata come possibilità trasfiguri un mondo banalmente attaccato alla fretta di un orario.

Sono solo suggestioni?

Una recensione strana, con troppe suggestioni dentro. Ma è possibile che siano solo queste? Una lettura deve creare suggestioni, ma ciò non ha a che vedere solo con un bene di consumo emozionale; un libro non è mai solo – beh, alcuni sì – un motore emotivo; la suggestione può essere la scintilla di un’ispirazione! Leggere i commenti del Rebbe Menachem significa lasciarsi ispirare da un’anima, abbracciare una metodologia capace di donarci una vista che vada oltre le possibilità degli occhi e delle cose; significa capire come funziona quell’amore che, oltre un certo limite, comincia a non lasciarsi più ispirare dal limite, ma da tutto l’Infinito che vi si trova oltre.

È un testo sacro sul Testo Sacro, e il cuore che tira fuori cose vecchie e cose nuove da ogni parashà soffre di un’inquieta e innamorata tribolazione, che ha lo stesso scricchiolio di due ginocchia che adorano. Si percepisce, da questa lettura, l’altissima intenzione che è quella di voler bene all’uomo perché si voglia bene a Dio, e viceversa. Si capisce, da queste pagine, che amare con tutta la mente, il cuore, l’anima e le forze, può cominciare già dallo sfogliare un libro, e non perché se ne ami l’Autore, ma perché ci si sente amati. E proprio allora, da un atto di gratitudine, comincia il ritorno di un’anima a Chi l’ha creata.

Sì, perché se una frase mi ha colpito più di tutte, ed è forse la sintesi di quest’opera meravigliosa, essa dice che è sempre possibile ritornare, da ogni esilio che viviamo, dentro e fuori di noi.

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