Los Angeles senza stelle, Franceschini sui luoghi di Bukowski

Nel suo libro “A Los Angeles con Bukowski” Enrico Franceschini intercala digressioni di esperienze personali, in parte bukowskiane, con o senza Los Angeles sullo sfondo. Ma il fulcro del volume è la vita sregolata, beona, misera e reietta dello scrittore – di cui si alimenta il culto – negli angoli malfamati della megalopoli che non è quella hollywoodiana…

Leggere è anche tracciare delle mappe, mentali, emotive e persino vere e proprie, con precisi riferimenti geografici e topografici, quindi inevitabilmente anche i luoghi che fanno da sfondo a romanzi, racconti o anche solo opere saggistiche e storiche, quando quei luoghi non siano più direttamente quelli dove l’autore o autrice abbia vissuto, si sedimentano e spesso ci fanno venire la voglia di vederli quei posti, e se non ci è possibile farlo dal vivo li viviamo in qualche modo sulla pagina come se vi fossimo stati. Ecco forse il fascino di narrazioni che ruotano attorno all’anima di città e luoghi che a vario titolo hanno attinenza con la biografia o le opere letterarie dei loro autori. In tal senso la collana Passaggi di Dogana di Giulio Perrone editore è ricca di suggestioni e stimoli. Dalla colonnina esposta in bella vista nella mia libreria di riferimento nella quale ammiccavano titoli tra gli altri quali A Buenos Aires con Borges, A Città Del Messico con Bolaño (ne abbiamo scritto qui), A Londra con Virginia Woolf, A Lisbona con Antonio Tabucchi, A Praga con Kafka, A Marsiglia con Jean Claude-Izzo, il mio occhio si è soffermato su una fiammante copertina con l’immagine di una lattina di birra accartocciata. Si trattava di un libro di tale Enrico Franceschini (fino ad allora per il sottoscritto un completo sconosciuto) dal titolo A Los Angeles con Bukowski, sottotitolo (che ci sta tutto) birre, sesso e cavalli (165 pagine, 15 euro). Mi sono immediatamente detto che se la mia esplorazione delle mappe di Giulio Perrone editore doveva iniziare da qualche parte, quella era la parte giusta e che quel libro sarebbe stato un modo per rivivere uno dei primi amori letterari giovanili: un volume su Buk, Henry Chinaski o Hank come i suoi più accaniti estimatori da sempre lo appellano e la “sua” Los Angeles, non potevo chiedere di meglio. 

Il culto e la metafora dell’autostrada

Enrico Franceschini, già autore di svariate opere narrative e saggistiche, corrispondente dall’estero da trentacinque anni per il quotidiano La Repubblica, per il quale ha lavorato tra l’altro nelle sedi di New York, Washington e Londra (dall’esperienza londinese si immagina abbia tratto ispirazione per un altro volume edito nella stessa collana di Perrone dal titolo A Londra con Sherlock Holmes), non riesce a nascondere il suo culto per Charles Bukowski (perché di questo si tratta per i suoi lettori), del resto non avrebbe scritto un libro del genere e non sarebbe già stato traduttore di tre sue raccolte poetiche.

Questo volume “bukowskiano” diventa una guida turistica sui generis di quella che forse è la città meno turistica al mondo: Los Angeles, la non città o anti-città per eccellenza, una megalopoli grande quanto la Campania, senza piazze (come tutte le città americane), una città fatta di strade, che sono in pochi a percorre a piedi, fatta di autostrade a otto corsie e svincoli micidiali, una città per molti versi cinica e crudele che può essere riassunta in un passo del suo di Bukowski Il capitano è fuori a pranzo: «L’autostrada ti ricorda sempre un po’ come è la gente: è una società competitiva. Vogliono che tu perda così loro possono vincere. È una cosa innata e in autostrada si manifesta. I guidatori lenti vogliono bloccarti, quelli veloci vogliono superarti».

Il libro di Franceschini può essere accostato a una piccola Lonely Planet in compagnia di Buk, o meglio con la sua ombra, sulle tracce di quartieri e strade dove Buk ha abitato (Franceschini ne elenca gran parte), potendo magari divertirsi con Google Maps andandole a cercare e scoprendo un po’ di storia della città degli angeli e aneddoti su alcuni dei suoi luoghi simbolo, quali la collina dell’Hollywood Sign (la celebre scritta emblema della capitale del cinema) o di una delle sue spiagge più note quali Venice Beach.

Tra falliti e derelitti

Ma il fulcro del libro di Franceschini è ovviamente lui: Henry Chinaski, Hank o Buk che dir si voglia, al secolo Henry Charles Bukowski Jr. nato ad Andernach in Germania nel 1920 da padre di origini polacche e tedesche e madre tedesca, ben presto trapiantato nella sterminata America per approdare a L.A. che diventerà l’inevitabile sfondo dei suoi scritti, soprattutto quella East Hollywood ove ha trascorso buona parte della vita durante il suo apprendistato letterario, quel periodo cioè di vita sregolata, beona, misera e reietta che getterà nelle sue opere, in quelle modeste case in affitto nei pressi del mitico Sunset Boulevard (quale nome più bukowskiano per una strada), all’epoca dell’alcolica epopea di Hank una delle aree più povere della città nella quale pullulavano e in parte pullulano ancora oggi porno shops, bar malfamati, banchi di pegni intorno ai quali gravitano alcolizzati, senzatetto, uomini falliti, donne perdute e derelitti di ogni risma, o nei pressi di Alvarado Street dove il buon Hank era solito recarsi presso le sue prostitute delle quali è assiduo frequentatore dalla tarda adolescenza fino a cinquant’anni e con le quali troverà più interessante una conversazione rispetto a quella con uno scrittore.

Altre Los Angeles

La Los Angeles di Bukowski ha ben poco della patinata Beverly Hills con le ville e i lussuosi alberghi dei divi quali il Beverly Hills Hotels o lo Chateau Marmont a West Hollywood dove troverà la morte per overdose John Belushi, né tantomeno con lo scintillante mondo di celluloide degli Studios, seppure Buk abbia abitato anche nella loro prossimità e abbia dedicato due dei suoi romanzi (Hollywood, Hollywood e Pulp) alla fantasmagorica macchina dei sogni americana, una macchina fatta anche di soldi: “There is no business like show business” recita il motto di Los Angeles. L.A. è assurta nell’immaginario collettivo fin dalla nascita del cinema a centro gravitazionale della settima arte, non a caso è anche definita la città dei sogni, nei casi dell’umanità narrata da Bukowski dei sogni infranti e per esteso del fallimento del grande sogno americano. La Los Angeles bukowskiana non è nemmeno quella di un altro grande romanziere di stanza nella città degli angeli, il Raymond Chandler di Il lungo addio e Il grande sonno (tra gli altri) nei cui romanzi la città diventa lo sfondo perfetto per le avventure poliziesche del detective letterario Philip Marlowe e le storie affollate di poliziotti corrotti e criminali incalliti. Non è nemmeno quella di Henry Miller, scrittore che ha vissuto sulla costa alla fine del Sunset Boulevard e che con i suoi Tropico del Cancro e Tropico del Capricorno darà scandalo nell’America degli anni Trenta, il quale seppure ammirato (e anche incontrato) da Bukowski non può essere accostato all’estetica bukowskiana contraddistinta da bar di quart’ordine, uomini in rotta con tutto, donne perdute, sesso scadente e solenni sbornie.

Nei bassifondi

Mettendosi idealmente sulle sue tracce, sembra vederlo Hank in alcune di quelle case, nelle sue stanze spoglie dove è da poco rientrato e mettere su una sinfonia di Mahler facendosi un goccio dalla fiaschetta di whisky involta dentro la carta gialla o del pessimo vino dalla bottiglia rimasta dalla sera precedente, prima di mettersi a scrivere uno dei suoi racconti. In quelle squallide stanze non si limita a sbronzarsi ma scrive tre o quattro racconti a settimana che puntualmente riviste grandi e piccole gli rifiutano. L’umanità descritta da Bukowski che, come pochi, ha saputo cogliere in modo così limpido e con i tipici sottofondi umoristici e poetici è sfrenata, sbracata e disperata; le note patetiche e inquietanti delle tragicommedie della vita quotidiana riverberano nelle pagine di un anti-intellettuale (un anti-scrittore per molti) sincero e onesto (per questo così amato), mai retorico, sfrontato pur riuscendo a essere romantico. Nel cinico, osceno, ironico e nichilista ubriacone si nasconde la tenerezza di un poeta che il Time definirà il “Nobel dei bassifondi”, quei bassifondi nei quali Buk si trova a suo agio perché ritiene che lì sia la vera poesia. Tolto infatti lo stereotipo dello scrittore ubriacone e sporcaccione o barbone che da sempre lo accompagna, dovremo infatti ammettere con Franceschini, che lo mette bene in evidenza, che Bukowski forse è stato ambedue le cose: poeta e ubriacone, grande scrittore e barbone, o meglio un uomo che se scrittore non lo fosse diventato barbone lo sarebbe stato nel vero senso della parola, uno che riceve un degno riconoscimento e successo soltanto in età avanzata potendosi finalmente permettere una casa tutta sua e una bella auto, una Bmw nera per l’esattezza, perché ci dice Buk «Le Bmw nere sono le macchine dei duri». Una notorietà che lo porterà a potersi permettere cene di lusso nei ristoranti esclusivi del Sunset Strip a fianco di star hollywoodiane o dove nel passato dive e divi del cinema ne hanno occupato i tavoli, quali Greta Garbo, Marylin Monroe, Humphrey Bogart o Rodolfo Valentino, solo per citarne alcuni. In ogni caso uno scrittore che ha dato voce e ci ha fatto guardare a un mondo di emarginati, disperati e folli, esistenze che anche se non saremo disposti ad ammetterlo un po’ ci disgustano come in parte ci possono disgustare le storie che Buk ci racconta con la sua tipica ironia e disarmante sincerità perché anche lui fa parte di quella genìa di reietti, con l’unica differenza che lui ne ha scritto diventando il cantore di un’America povera, emarginata e sofferente. Se qualche benpensante gli avesse fatto notare che tutti soffrono Buk avrebbe risposto: «Certo, ma nessuno soffre come i poveri». 

Quella vecchia intervista

Una delle frasi più citate di Bukowski è la seguente: «La gente è il più grande spettacolo del mondo. E non si paga il biglietto».  La varia umanità che emerge dai racconti, dalle poesie e dai romanzi di Bukowski  (quando se ne va in un giorno di marzo del 1994 lascia alla sue spalle sette romanzi e oltre settanta titoli tra racconti e poesie oltre a una grande quantità di inediti tanto che a trent’ anni di distanza continuano ad uscire suoi libri) è la viva testimonianza del suo credo artistico e di una vita on the road molto prosaica e che ha ben poco a che fare con il lirismo di uno come Kerouac, tanto disastrata quanto affascinante, tanto da mantenere negli anni un così solido seguito di lettori, di emuli letterari e di coloro che ne hanno scritto e continuano a scriverne in ossequio al loro “culto”. Tra costoro è giusto inserire Enrico Franceschini, seguace della prima ora del vecchio Hank, a partire dal 1979 quando si recherà con degli ex compagni di università a casa del loro mito letterario di gioventù, da poco anche se non con la eco successiva salito alle cronache libresche, per un’intervista durante la quale Buk siede tranquillo sul divano ascoltando e rispondendo alle domande circondato dagli amati gatti, nella cui indolenza Bukowski ritrova la sua stessa immagine. Un’intervista il cui spassoso racconto sembra proprio uscito da una delle pagine del vecchio Buk. Allo stesso modo nel volume Franceschini intercala digressioni di esperienze personali, frutto anche del lavoro di corrispondente dall’estero di un grande quotidiano, esperienze in alcuni casi e in parte un po’ bukowskiane, con o senza Los Angeles sullo sfondo.

Spiagge e ippodromi

Proprio per tornare alla cornice che contiene il quadro, cioè alla Los Angeles che contiene l’epopea di Henry Chinaski e dei vari alter ego del suo creatore, non se ne può parlare senza citare le sue famose spiagge, e anche quelle meno note: dalla tranquilla Malibù delle lussuose residenze dei divi dove Buk si recava a fare visita a John Fante poco prima della morte del suo vero e proprio padre putativo letterario, a Santa Monica dove andava in bicicletta da adolescente e poi da adulto con la sua unica figlia a prendere il gelato o a teatro o in spiaggia (nonostante la vita sregolata un surplus di tenerezza paterna è appartenuta anche al vecchio Chinaski) prima di riaccompagnarla da sua madre, Frances Elizabeth Dean, una delle donne della vita di Buk, fino alla colorata, chiassosa e affollata Venice Beach, una delle icone losangeline, per non dimenticare Redondo Beach, San Pedro, dove Bukowski grazie alla notorietà acquisita comprerà la sua prima casa insieme alla seconda e ultima moglie e donna che lo accompagnerà fino alla fine dei suoi giorni, Linda. Che Buk con l’età si sia imborghesito? Che il perenne richiamo del sesso si sia affievolito? Che l’anarchico dissacratore dei miti americani si sia normalizzato? Meglio essere diffidenti, e del resto Los Angeles è ancora lì con i suoi ippodromi, luogo fondamentale dell’iconografia bukowskiana e seconda casa di Buk, quello di Santa Anita in particolare il suo preferito, dove passava interi pomeriggi fra alterne fortune alle scommesse ma sempre fonte di ispirazione per i suoi racconti. Una delle sue più celebri frasi, oltre a quella già citata: “Voglio essere sepolto vicino all’ippodromo, per sentire la volata sulla dirittura di arrivo”. È andata diversamente, la morte, quell’uccello dal becco giallo spalancato del quale parlerà nel finale di Pulp e che lo coglierà in un giorno di marzo del 1994 lo porterà a essere sepolto al Green Hills Memorial Park. Sulla sua lapide un semplicissimo epitaffio “Don’t try” che è un po’ la summa del suo pensiero sulla scrittura e sull’esistenza stessa come appare da uno stralcio di una conversazione nella quale dirà: «Non sforzatevi. Questo è molto importante. Non provate troppo a ottenere qualcosa, che sia una Cadillac, una creazione letteraria o l’immortalità. Aspettate, e se non succede niente, aspettate un altro po’. È come un insetto là in alto sulla parete. Aspetti che sia lui a venire da te. Quando è abbastanza vicino da prenderlo, colpiscilo e uccidilo. O se ti piace il suo aspetto, addomesticalo». Sembra una di quelle massime provenienti dal buddismo, la religione più laica che esista alla quale Buk aveva iniziato a rivolgersi verso la fine della sua esistenza, che il libro di Franceschini con lo sfondo della sconfinata e contraddittoria città degli angeli (come contraddittoria è tutta l’America) ci permette in parte di ripercorrere grazie a Giulio Perrone editore e alla sua collana, nella quale ho cercato ma non trovato ad esempio a Newark con Roth o a Mosca con Bulgakov, ma questi sono desideri personali e per il momento va bene così e mi posso accontentare, perché ora lo posso dire: con il libro di Enrico Franceschini a Los Angeles con Bukowski un po’ ci sono stato anche io.

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