Vonnegut 100. Senza cervello più compassione e meno guerre

Profondo e giocoso, sfrontato anticipatore allergico ai compromessi, Vonnegut – oggi un secolo dalla nascita – quasi quarant’anni fa affrontava in “Galapagos” temi attualissimi: consumismo, crisi climatica, guerra con le sue zone grigie e ingiustizie. Una distopia paradossale, a partire da una crociera di lusso, e una conclusione amaramente ironica…

Subito tre cose.

Mai avuto dubbi sul Kurt a cui dare credito. Vonnegut e non Cobain. Idee chiare: I Hate Myself and Want to Die non ha mai attecchito, Live forever è un’altra storia. E nonostante un’esistenza dannatamente complicata, in preda alla depressione, a fare i conti col suicidio della madre, con la morte della sorella e del di lei marito, con la schizofrenia di un figlio, lo scrittore statunitense di origini tedesche – che, pur affermato, all’occorrenza non mancava d’essere massacrato di stroncature – viveva di genio creativo e ironia, era pura vita, un monumento della letteratura americana,

Poi, prima di imbattermi nei libri di Vonnegut – ho iniziato con quelli editi da Feltrinelli, sono passato a quelli pubblicati da Bompiani e Minimum Fax, ma in principio Vonnegut era pubblicato da Rizzoli e successivamente da Mondadori – e nelle sue foto in cui era ritratto in età matura, mi ero convinto che fosse il sosia di Maurizio Barbato, mio professore di storia e filosofia al liceo, redattore della casa editrice Sellerio, in particolare per la collana La Memoria. Dopo aver letto Ghiaccio nove, Madre notte e Mattatoio n. 5, ho compreso che era Barbato a essere il sosia di Vonnegut: niente rancore, prof, e se dovesse leggermi, o magari qualcuno glielo può riferire, mi piacerebbe intervistarla sui decenni vissuti dietro le quinte dell’editore palermitano non più piccolo e neanche medio…

E poi, Vonnegut – un secolo dalla nascita proprio oggi – è uno di quegli autori che fa scattare una fratellanza inusuale fra chi lo ama. E, purtroppo, non sono molti. Non avrete difficoltà a trovare sodali innamorati dei russi o dei siciliani, dei giapponesi o dei mitteleuropei, degli israeliani e dei sudamericani. Ma farete fatica a imbattervi in chi ama Kurt Vonnegut. E quando lo troverete, avrete per lui, o lei, sempre pensieri di riguardo.

Romanzo poco noto, ma esemplare

Ho grande rispetto per gli scrittori contemporanei che profetizzano, prefigurano, prevedono, vaticinano; che osservano e guardano mentre noi siamo ciechi e ci spiegano tutto loro. Ma già nel 1985, e anche prima, Vonnegut, profondo e giocoso, sfrontato anticipatore allergico ai compromessi, scampato alle gabbie dei generi sebbene a più riprese gli affibbiassero la patente dello scrittore di fantascienza, prendeva di petto quello con cui facciamo i conti adesso, un terzo di secolo dopo: la crisi climatica, il fallimento del consumismo, l’effetto dei mass media sulle coscienze, il peso debordante del fattore economico, la trappola perenne, eterna, della guerra, con le sue ingiustizie e le sue zone grigie, a cui contrapporre un pacifismo militante, non di facciata, non di maniera. Il 1985 è per lui l’anno di Galapagos (319 pagine, 13 euro), presente nel catalogo Bompiani, tradotto da Riccardo Mainardi. Più che pensare ai suoi classici di successo degli anni Sessanta e Settanta, l’invito a scoprire o a riprendere Galapagos – che a Palermo era stato ricompensato col premio Mondello, nel 1991, un anno dopo la prima pubblicazione in Italia – è di quelli che scompaginano solo all’apparenza. È un titolo lontano dai mari conclamati dei suoi capolavori, poco reclamizzato, ma esemplare. Tanto humor nero, tanta inventiva, digressioni scientifiche e psicologiche, un asterisco prima del nome dei personaggi destinati a dormire di lì a poco. E uno sguardo ironico che abbraccia le risposte a tutte le domande e a tutti i dubbi, a cominciare da questi: Il mondo è incomprensibile? La vita è assurda?

La gente è ancora consapevole di dover morire, prima o poi? Macché. Per fortuna, a mio modesto avviso, se n’è dimenticata totalmente.

Crociera e naufragio: verso la regressione

Nei brevi capitoli di Galapagos e nei suoi tanti e non lineari piani temporali si assiste all’ineluttabile destino dell’uomo, condannato all’estinzione, guerre, carestie, crisi finanziarie e virus non danno tregua. A una crociera sulle tracce della natura e delle scoperte di Darwin negli anni Ottanta del ventesimo secolo (un milione di anni prima del tempo della narrazione) partecipano viaggiatori, ma tutti sui generis, abbastanza strampalati. Intanto però il Perù dichiara guerra all’Ecuador, pretendendo la restituzione delle isole Galapagos. E allora tutto cambia, anche la rotta della crociera di lusso, il passo successivo è un naufragio, costringendo a uno stato primitivo i partecipanti al viaggio inaugurale di una nave passeggeri, la Bahia de Darwin. Vonnegut affida a questo manipolo poco assortito il compito di perpetuare la razza umana, la sola speranza per la sopravvivenza dell’uomo. La conclusione paradossale di Vonnegut? I naufraghi, che di poco o nulla hanno coscienza sono il punto di partenza di una generale regressione dell’umanità. Avere meno cervello, sghignazza fra sé e sé Vonnegut, aiuta a farsi meno male: garantisce forse meno genialità, ma probabilmente più compassione, impedisce la produzione di opere d’arte, ma garantisce anche meno competenze… belliche. Distopia sì, Galapagos, ma anche una spassosa e lunga provocazione.

È possibile ordinare questo e altri libri presso Dadabio, qui i contatti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *