Area 22. Fux e gli effetti collaterali della memoria

Una violenza matriarcale, mitocondriale, femmina è protagonista di “Eredità”, libro conturbante ma indispensabile di Jacques Fux, la cui penna è vita, anche quando parla di morte, come in questa trilogia di madri, vittime dirette e indirette della Shoah. Una nuova puntata della rubrica mensile Area 22 (qui tutti gli altri articoli)

Ogni volta che leggo un libro di Jacques Fux provo sempre un generale turbamento, ma diverso da tutti gli altri. Uno i propri turbamenti li conosce: sono come dei contenitori con dentro tanti sentimenti diversi; per meglio dire, tanti diversi stati d’animo. Ma di ognuno di essi, più o meno, conosci la provenienza e – se sei fortunato – la destinazione; soprattutto, in generale, conosci quali sono le circostanze che ti possano creare turbamento: circostanza diversa, contenitore diverso, altri stati d’animo, altro turbamento.

Jacques Fux è una circostanza, nella quale mi sono trovato per la prima volta alla fine dell’estate del 2020. Mi trovavo nell’azzurra e selvaggia Favignana, in una di quelle pacifiche vacanze medio-settembrine, quando la stragrande maggioranza dei turisti che amano il mare (e non sanno ancora che il mare più bello è quello di settembre) è già tornata a casa. Con me solo pochi amici, e tanto silenzio. La sera leggevo Fux, per la prima volta: Sulla follia ebraica (qui l’articolo). Lo leggevo prima di andare a letto, e poi a letto non c’andavo. Non che mi mettesse paura, ma mi faceva riflettere fino alla paura. A quella paura che hai di riflettere quando capisci che, in fondo, non vi è turbamento che non nasca da te, da quegli elementi che hai già dentro e che una lettura efficace può solo incastrare nel modo giusto perché il motore si accenda.

Mi aveva colpito (soprattutto) la prima storia, quella di Sarah Kofman, suicidatasi dopo Auschwitz, pur senza esserci mai stata. Auschwitz… una metastasi dell’inferno, l’avevo chiamata, capace di portare morte anche oltre quel suo spazio di tempo perimetrato dalla storia, capace di scorrere nel sangue di un’eredità troppo vasta per essere recintata da un filo spinato.

Oggi il libro è un altro: Eredità (Giuntina, 131 pagine, 14 euro), appunto, e c’è una Sara anche qui, e anche il suo cognome comincia per K.

Il richiamo è troppo forte, fin dall’inizio. Forse un caso, forse una strategia, forse un omaggio. Un’altra Sara K, e le iniziali del nome non saranno l’unica cosa in comune. E insieme a lei, almeno altre due donne: la figlia Clara e la nipote Lola. Ma Clara è anche il nome di una sorella di Sara, come Lola è anche il nome della madre di Sara. E poi c’è anche Luiza, l’ultima in questa toledā, con un nome nuovo che, se da un lato porta in sé la possibilità di lasciarti dietro il passato, dall’altro te lo strappa di dosso: una violenza necessaria; un aborto di memoria… terapeutico? Dimenticare chi sei, prima ancora che tu lo sappia, può veramente salvarti? La domanda pesante è un’altra: sapere chi sei e da dove vieni, e sapere cosa hanno subito le generazioni venute prima di te, un giorno potrà diventare la tua condanna?

Una scelta difficile, quando sembrerebbe facile

Questo testo si pone, in un periodo in cui la necessità della memoria non dovrebbe più essere messa in discussione, come una discussione ancora aperta, in maniera drammatica. Sta esattamente al centro tra chi, giustamente, propugna la memoria storica come necessità sociale ed educativa, perché gli uomini non commettano più le atrocità di cui si sono macchiati (ma sarà vero che funzioni così, o queste atrocità sono – in effetti – proprio gli uomini in quanto tali?) e chi, invece, vorrebbe interromperne il flusso, proprio perché la memoria, quando soprattutto appartiene alla coscienza di un intero popolo, ha la possibilità di memorializzarsi, di ripresentare i mostri oltre la cortina del passato. Ricordare o dimenticare, dunque? La domanda di Fux, che fa da sfondo a tutto questo libro, è la circostanza del turbamento, coi suoi propri stati d’animo. Perché tutti abbiamo almeno una cosa che lasciamo sospesa, che non sappiamo o non vogliamo riporre all’interno di una precisa scatola: quella della dimenticanza, o l’altra. È una domanda scomoda, certamente controcorrente (chi direbbe oggi che forse sarebbe il caso di dimenticare Auschwitz?), ma senz’altro legittima, soprattutto dopo essere passati dalle tre donne che, come altrettante vertebre, sostengono questa narrazione.

Toledot

Generazioni di Sara, figlia di Lola. Lola generò Sara, Clara, Mary e Róza, con Henius, al tempo in cui Łódź non era ancora Litzmannstadt. Sara generò Clara con Yaacov, perché Dawid era morto, dopo la deportazione in Auschwitz. Clara generò Lola con Adolfo, al tempo della memoria. Lola generò Luiza Silva da un padre senza nome, in un tempo senza memoria.

Generazioni.

Le generazioni hanno bisogno di parlare. Di testimoniare. Di trasformare l’indicibile in racconto.

Per questo Eredità è un romanzo, anche se non ne ha l’apparenza né la struttura. Anche se con un romanzo non c’entra nulla, come non era un romanzo Sulla follia ebraica. Ma Fux ha compreso che anche un elenco del telefono va raccontato, perché solo il racconto può trasmettere, fosse anche la necessità di un sospirato oblio.

Chi legge il libro non immagina, né potrebbe facilmente intuirlo, che le tre donne narranti (la prima trascrive una memoria, la seconda la subisce, la terza la raccoglie) siano in realtà tre personaggi inventati dall’Autore, anche se non ne sarò mai definitivamente sicuro, tanto realistico è l’impatto prodotto da ciò che queste tre donne sono e rappresentano. La verosimiglianza dei personaggi è già eredità, perché ripresenta archetipi di sofferenza generalizzata che qui, con necessaria e realistica violenza, Fux incarna in tre nomi con tre storie che sono, in fondo, una storia sola. È facile parlare di Olocausto, quando questo è fatto di persone che non hanno un nome. Basta che uno scrittore coscienzioso ne inventi tre perché si entri in crisi, e ci si accorga di come diventa terribile la storia (fino ad un certo punto solo conosciuta per sentito dire) quando poi passa dagli occhi di tre donne, come in copertina al libro.

E infatti, quasi trovandoci di fronte ad una immaginifica e segnica speculazione dei Cicli dei Patriarchi, è con tre donne che abbiamo a che fare. I padri sono assenti. Il Padre è assente. Dio, lo Sposo, il Padre, non c’è. Né lui né coloro che partecipano delle sue attribuzioni. Semplici comparse. Il dramma di questa memoria ereditaria non si reduplica in emissioni di seme virile, ma esce dalle mammelle delle donne come un latte avvelenato per le generazioni che se ne nutriranno. Una violenza matriarcale, mitocondriale, femmina. Come la storia.

Una tripartizione strutturale

Sara è la prima (come primo era Abramo) e scrive un diario a partire dal giorno dopo il suo tredicesimo compleanno: data importante, tempo di bat-mizvah, tempo in cui si lascia l’infanzia per diventare donna, quando invece si accorgerà che il passaggio sarà solo dall’infanzia alla vecchiaia, perché il cuore, capace di generare vita più di un grembo, è stato inaridito dall’orrore. Come tutte le Sara del mondo, questo personaggio è meraviglioso. È principessa senza regno, bimba eterna senza una Macpela. È una ruga del tempo anche lei.

Clara nasce dal suo ventre inaridito, da una terra secca, come un’erbaccia commestibile necessaria ad una doverosa sopravvivenza; come Isacco, dovrà subire una storia che non è la sua: si troverà legata da ricordi non vissuti, da un viaggio di me-Moriah che la porterà fin quasi ad un’auto-immolazione: legami forte, o madre, perché io non scalci! Si troverà a non voler subire ciò che, in fondo, cerca come l’intima determinazione di se stessa; non sarà un Padre a fermare la sua mano, ma una madre. E anche Clara, con una risata di rabbia psicotica ed echeggiante, scherzerà col suo corpo negli atroci giochi di chi vive alla luce dei traumi per invecchiare cieco, per non voler vedere ciò che ha sempre avuto dinanzi.

Lola è quella che, ultima di questa trilogia di madri, sapendo di cosa siano cariche le sue spalle, sapendo a che prezzo abbia ereditato questa storia, e sapendo che prima o poi dovrà pagare i conti con il proprio passato, sfida se stessa al guado della propria angoscia, e combatte contro Dio e contro gli uomini, come Giacobbe. Ma non sappiamo ancora se vincerà. Nel momento in cui sembra che stia per essere benedetta, in quella che pare un’alba nuova, rinuncia ad un nuovo nome (e lo dà invece alla figlia) e rinuncia ad essere Israele.

E poi c’è Luiza, di cui non sappiamo niente. Sappiamo solo quale sia il suo popolo, la sua famiglia, il suo sangue e la sua eredità. Ma non sappiamo cosa ne sarà di lei, destinata a crescere lontana dal suo passato, dalla storia del suo passato. Luiza crescerà nell’Egitto del mondo, facendo suoi usi e costumi che non sono suoi. Lei è quella che Fux ha aggiunto, è come Giuseppe. Forse Luiza dimenticherà ciò che le sue madri hanno voluto ricordare; ma… chissà se, proprio come Giuseppe che mise nome Manasse al suo primogenito, anche Luiza farà di tutto per ricordare ciò che in lei è stato piantato come un seme di oblio.

Jacques Fux è genio del simbolo, non si discute. Genio: che genera, che crea. Fux è uno scrittore. La sua penna è vita, anche quando parla di morte. La sua penna è capace di conferire, a ciascuna di queste donne, delle caratterizzazioni talmente forti e decise da fartele immaginare come necessariamente vere. Se uno scrittore è un vero scrittore, genera personaggi veri, genera persone. La funzione generatrice dell’autore, in questo libro conturbante ma indispensabile, è l’unica paternità che non ci viene tolta, che non ci lascia del tutto orfani.

Tre prospettive, tre stili

L’impalcatura narrativa di questa triplice storia, perché tre sono le prospettive, segue il ritmo e la scansione di tre precisi stili, diversi perché diverse sono le modalità attraverso cui queste donne comunicano.

Il fulcro narrativo, potremmo dire il bandolo fondamentale del racconto, è tutto nel diario di questa ragazzina, Sara K.

Anche lei è un diario, come Anne Frank e come tante altre. Anche di lei non è rimasto altro che un insieme di pagine, alcune strappate, altre sporche di cenere.

È poco più di una bambina quando comincia a scrivere, quando anche lei sceglie il chiarore di un foglio come interlocutore alla sua purezza che, via via, andrà consumandosi suo malgrado.

Sara scrive, inizialmente, non per necessità cronachistica (potrebbe mai il diario di una ragazzina cominciare per una tale e bruta necessità?) ma perché vorrebbe fare la scrittrice, e si prende così sul serio da scrivere, e scrivere di se stessa e della sua vita profumata e primaverile. Ci racconta le sue esperienze, le sue emozioni da innamorata, le sue tenerezze di sorella e di figlia, il suo amore per il cioccolato e – in una parola – tutto il fulgore di una giovinezza che sarà avanzata ma non trascorsa. La peste della brutalità umana la travolgerà senza darle il tempo di capire, di metabolizzare. Ma non esiste un tempo tanto ampio per poter capire l’essenza di ciò che avvenne in quegli anni, né la terapia di un diario – perché oltre certe date quel diario continua ad essere scritto perché Sara non si senta sola – potrebbe mai metabolizzare un orrore così indigesto.

Ciascuno può capire da sé come il diario di Sara, che cammina al ritmo dei giorni e delle sue stagioni interiori, ad un certo punto cominci a registrare un cambiamento di eventi, un salto in avanti il cui scarto sembrerà sempre troppo inadeguato rispetto all’anima che cercherà di descriverlo. Ma questo il lettore se lo aspetta, fin dalla prima pagina. Sappiamo che un diario ci mostrerà, prima o poi, ciò che dovrà avvenire.

Ciò che non sappiamo, invece, e che in fondo nessuno di noi vorrebbe sapere, è come un diario – al pari di una fotografia – possa diventare un flirt con la morte: possa scattare un’istantanea su un tempo che la sua piccola autrice non merita; e come, esattamente al pari di una fotografia, possa consegnare immagini anche a chi verrà dopo.

Clara è l’erede prima di queste immagini; prima inconsciamente recepite dall’atteggiamento di una morta sopravvissuta quale sua madre è diventata dopo Auschwitz; poi intraviste tra le pieghe di quei segreti che riesce a rubare, e infine – e finalmente – raccontate da chi avrebbe voluto sempre tenergliele nascoste, sapendo fin dall’inizio che avrebbe fallito.

Clara non racconta scrivendo, ma parlando ad una psicanalista. Sfogandosi con lei, raccontandosi in misture sospette di verità e finzione o, per meglio dire, di ricostruzioni necessarie anche se non necessariamente storiche: capaci di esprimere verità anche attraverso l’irreale immaginario e patologico. Clara diventa il catalizzatore di ricordi che non le appartengono e che lei rielabora per necessità, per avere dentro se stessa la possibilità di un confronto con una storia che, in una qualche maniera, cerca di incarnare come una proiezione, sforzandosi di far sua una colpa non sua, così da essere, piuttosto che solamente vittima, una specie di complice. Nell’illusione che il male si soffra di meno scegliendolo o procurandolo che dovendolo subire.

E se straziante è il flusso via via sempre più mortificato delle trascrizioni di una giovane Sara costretta ad abbandonare i suoi sogni, ancor più lo è accorgersi – in Clara – come un male che noi siamo abituati a collocare tra due date prese in un libro di storia in realtà debordi in maniera dirompente come le conseguenze di Chernobyl. I morti collocabili entro lo spazio ristretto di una tragedia circoscritta dalla storia sono sempre, in realtà, molti di più. Esistono radiazioni più forti e pericolose di quelle che, oltre il tempo della loro prima esplosione, hanno raggiunto le prime vittime. Facendone nascere molte altre negli anni successivi, con addosso i segni di storpiature e aberrazioni genetiche che ancora si riverberano quasi fossero un monito. Chi non vorrebbe che questa catena di molecole impazzite e perverse si interrompesse? Allo stesso modo Auschwitz. Quei camini inappagabili sono barre di uranio che ancora, a distanza di anni, producono devastazione e morte in chi ha ereditato quel dolore genetico, ultra-generazionale. E se il figlio di un sopravvissuto a Chernobyl deve patire sulla propria carne i malefici nefasti di una calamità che non conobbe mai di persona, e maledirsi per questa punizione insensata e inammissibile, come potrà sentirsi chi – ancora di più – dovrà rileggersi bestializzato ad Auschwitz pur senza averci mai messo piede, pur essendo nato dopo che Auschwitz non esiste più? Clara è la prima risposta del tempo a questa domanda. Clara, assente da Chernobyl, è la prima vittima delle sue radiazioni: è la prima a non aver vissuto quell’esplosione, e a sentire sul proprio corpo le medesime ustioni di chi c’è stato, di chi c’è morto, anche da sopravvissuto. Lei porta sul suo corpo e nella sua mente gli effetti, senza aver partecipato delle cause.

Il personaggio di Clara diventa, nella mano di Fux, un documento probatorio degli effetti collaterali della memoria, delle controindicazioni del ricordo, anche di quello che passa senza che lo si voglia far passare. Sara non voleva raccontare nulla, nulla voleva dire a Clara di ciò che aveva patito; eppure, come le radiazioni, i ricordi passano attraverso il metallo del mutismo. Solo il piombo della morte, forse, può fermarli.

Clara è la potenzialità mnemonica di qualunque lettore che la incontri, perché chiunque possa riflettere (ecco perché dicevo che Fux fa riflettere fino a far paura!) su quanto debba essere grato alla fortuna (per chi non crede in Dio o non vuol crederci, o non può più) per aver ereditato certi ricordi e non altri. Clara è lo specchio della nostra banalità, della nostra superficialità che mai tocca, nemmeno con un dito, le memorie di altri. Clara ci costringe a riflettere e a pensare che la nostra vita, a noi così su misura, sarebbe stata totalmente diversa se, tra i nostri ricordi fatti di gioie e spensieratezze, si fosse innestato “per generazione spontanea” quello di una generazione disperata.

Clara è scomoda.

Lola, sua figlia, ancor di più. Perché la sua funzione narrativa e letteraria – che si esplica come apparato critico a quanto raccontato da Sara e subìto da Clara, e che dunque appare (appare!) come più distaccato – è speculare alla (possibile) funzione etica e morale del lettore. Lola è ciò che, in qualche modo, potremmo diventare noi che leggiamo questo libro: persone capaci di infilare le mani nella merda per liberarne le cose salvabili che vi sono rimaste sepolte; sapendo che, una volta infilate le mani lì, il lezzo sarà inestinguibile. Ma a quale beneficio? Quello di salvare una prossima generazione. E non – attenzione! – attraverso la consegna di una memoria devastante, ma regalando a chi viene dopo la possibilità di nuove vite, svincolate dalla necessità di ricordi che, a forza di reiterarli, altro non diventerebbero se non un’amnesia infetta: la gente sente parlare di Auschwitz tutti i giorni, peraltro senza che il mondo cessi d’essere violento e cattivo. Si sente parlare continuamente di ciò di cui, continuamente, si fa sempre a meno. Fux intuisce la sintomatologia di una memoria sostanzialmente non solo inutile, ma anche nociva: una ferita mai rimarginata che, oltretutto, può creare nuovi contagi.

E dunque? Bisogna dimenticare Auschwitz? Bisogna smettere di parlarne? Bisogna interrompere la reazione a catena di questa fissione mnemonica? Basta con l’eterna trasmissione della sofferenza. Basta parlare di Auschwitz. Con queste parole si chiude il libro. Sono le ultime parole di Lola (nel senso, le ultime che lei annota su tutta la faccenda). Non sappiamo se siano anche le ultime parole di Fux. Certamente sono parole e dunque su di esse occorre riflettere. Il che è compito della più autentica letteratura: far riflettere sulle parole e attraverso di esse, senza la folle illusione di voler dire ciò che per noi è importante, pensando poi di non dover correre il rischio dell’impopolarità.

Dio mio, quanto Fux mi somiglia a Geremia in questo libro! È la necessità di un profeta che gli fa dire cose che nessuno vorrebbe sentire, neanche quelli della sua casa. Fux in un pozzo, subito! Scaraventatelo in una cisterna!

Un padre e una figlia

Lasciatemi coltivare una suggestione viscerale che, fin dalle prime pagine, ho suffragato più per istinto che per coerenza simbolica. Lasciatemi immaginare che Henius, il papà di Sara, sempre così silenzioso e meditabondo, così apparentemente distante e allo stesso tempo presente, altri non sia che la controfigura dello stesso autore. Lasciatemi credere che Jacques Fux, come certi pittori, si sia dipinto al margine della tela, nella descrizione di questo silenzioso San Giuseppe. Del resto, se Sara voleva fare la scrittrice, e se sapeva farlo bene, deve pur aver preso da qualcuno! Sara ha preso tutto dal suo papà, proprio perché lui parla poco. Fux ha custodito Sara come una parola, e l’ha resa capace di raccontare a modo suo, e con le sue parole, ciò che egli, in un altro modo, ci ha detto attraverso le parole delle altre due donne di questo libro meraviglioso.

Lasciatemi cullare l’immagine di questa ragazzina che, mentre si inzacchera il muso di cioccolato, viene guardata da un papà-autore che sa già come andrà a finire. Per questo Henius non parla mai: sa già come andrà a finire.

Ma Sara è sua figlia, ed è quella che – credo indiscutibilmente –  si farà amare di più dalla gran parte di coloro che leggeranno Eredità. Perché? Perché è l’unica che ci mostra cosa siamo e cosa potremmo diventare: è l’unica capace di mostrarci realmente la possibilità di una vita che, così come la conosciamo, potrebbe essere corrotta da un momento all’altro. È l’unica che, facendoci intristire per una giovinezza calpestata quand’era ancora in fiore, potrebbe tanto farci desiderare di salvarla al punto da farci ritornare indietro, giovani come lei, mescolarci alla folla dei suoi amici, e poi rapirla, portarla lontano da Łódź insieme a Dawid, e lasciare che la sua giovinezza prosegua e maturi portando frutti degni e succosi di vita.

Sara, costretta dagli eventi a trasformarsi in un Salmo 137 fatto di carne, costretta ad un certo punto ad appendere ai salici il suo diario, ci chiama alla responsabilità della giovinezza, e ad una giovinezza come vocazione! Ci richiama all’urgenza di rileggere in noi quelle cose che da piccoli desideravamo essere prima che gli eventi le seppellissero. Sara, finché ha potuto, ha scritto. Pur confliggendo con l’idea di un Dio assente dal suo dramma, ha fatto proprio come Lui: non ha mai rinnegato se stessa. Forse neanche alla fine. L’atto finale della sua vita, che qualcuno potrebbe leggere solo come il ripiego inevitabile di una intolleranza esistenziale, io lo leggo come un’offerta affinché Clara potesse vivere, cosa che poi avviene. Forse Sara aveva capito di aver avvinto al proprio cappio un Isacco che non c’entrava nulla, e ha voluto liberarlo. Chi lo sa? Nessuno condanni Sara. Né le altre due donne. Ciascuna ha fatto ciò che poteva fare per salvare qualcuno. Nessuna delle tre si è deresponsabilizzata. Ciascuna delle tre, in fondo, ha scelto di vivere.

Ma Sara ha fatto qualcosa in più: ha scritto. Ha seguito la vocazione di se stessa, è stata fedele a se stessa. Ha intercettato, pur convinta ad un certo punto che non sarebbe mai diventata una scrittrice, le tre missioni di chi scrive: la missione poietica, quella estetica e quella profetica. Non voglio più inventare parole, dice in un momento di sconforto. Eppure continuerà a farlo, continuerà a sfornare teneri neologismi fatti di bellezza e di speranza (o di disperanza, come scrive lei senza cedere del tutto alla parola disperazione); continuerà a cercare la bellezza e la speranza finché potrà e, facendo questo, preparerà inconsapevolmente la strada ad un Ritardatario; e lo farà anche tessendo e cucendo insieme alle sue amiche, nella serena attesa di un futuro che non era ancora certo, facendo di se stessa una Penelope e di Ulisse un Mashiach naufrago e ancora invisibile all’orizzonte.

Sara è già scrittrice perché dà forma a queste tre missioni, a questi suoi tre desideri, e il desiderio è qualcosa che viene dall’alto. Vi è una compiutezza, in lei, che essa realizza prima che qualcuno la convinca che la sua vita non potrà realizzarsi. C’è una parte, nella vita di Sara, in cui lei si compie perfettamente, come se quel Dio assente l’avesse fatta sua prima che qualcuno gliela portasse via. Prima che, a pagina 50, nel secondo giubileo di queste pagine, Sara celebri la sua Pesach drammatica, il suo passaggio distorto e perverso dalla giovinezza alla vecchiaia: il diario, con cui prima Sara descriveva il mondo, diventa adesso l’oggetto della sua stessa descrizione; Sara descrive il suo diario, Sara comincia ad oggettivare se stessa, a divenire qualcosa di così distante da sé da potersi guardare già con lontananza e rimpianto.

Il volto di Sara, dunque, i suoi occhi traditi alla luce di una giovinezza bruciata, e le sue parole diventate cristalli su quel diario, ci richiamano alla necessità – quantomeno – di una memoria che, se non si ci decide a toglierla di mezzo per i suoi effetti mostruosi, bisogna però sforzarsi di ricuperare nel tentativo di salvare chi vi è rimasto incastrato. E come diventa terribile che un’ebrea (erano le madri ebree a salvare il popolo di Israele!) come Lola sia costretta, per salvare sua figlia, a dover rinnegare se stessa e chi l’ha preceduta. Auschwitz è riuscito a fare in maniera perversa ciò per millenni è stato fatto in un altro modo: se per assicurare la tua discendenza dovevi ereditare un’appartenenza, Lola farà esattamente il contrario ma animata dalla stessa ragione. Dovrà rinunciare ai ricordi di Sara (a quella Sara che avrebbe voluto ricordare solo cose belle, anche se non le fu permesso) perché in Luiza una nuova generazione possa fiorire.

L’ultimo bacio

Pur nell’aggravarsi di quella tragedia che Sara vede crescere attorno a sé ogni giorno, e che compila fedelmente con tutta la fatica della fedeltà e della necessità, essa rimarrà sempre legata ad una memoria che, fino alla fine forse, sarà capace di oscurare tutte le altre: la memoria di un bacio. Quel bacio rubatole dal volto, da un Dawid innamorato, e di cui lei era innamorata, prima che tutto andasse in pezzi. Un bacio che fu davvero come un’ultima neve di primavera, prima dell’inverno.

Sara ricorda quel bacio e piange, e non vuol essere consolata, perché Dawid non è più.

È stata la scena più forte del libro; nessun forno potrebbe bruciare come il pianto di una ragazza che, travolta dalla barbarie, ricordi un bacio.

Cantando un Kaddish, ho immaginato che un giorno, oltre le coltri del tempo, quando un Atteso verrà, forse il diario di Sara potrà arricchirsi di un’Ultima pagina: Tante volte ho pianto ripensando a quel bacio. Il mio cuore era un pozzo profondo. Poi lui è venuto, mi ha baciato di un amore nuovo, totale, ed è stato lui a piangere. E quelle lacrime hanno asciugato le mie. Quel bacio mi ha fatto dimenticare tutto. Ha sigillato la mia memoria in qualcosa di eterno, ma me ne ha tolto il dolore. Per sempre.

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