Pallavicini, se il padre (che non c’è più) sconvolge la vita…

“Il figlio del direttore” è l’ennesima magistrale commedia all’italiana di Piersandro Pallavicini, uno dei più bravi scrittori in circolazione. Nelle sue pagine spasso e riflessione, attraverso gli occhi di un libraio irrisolto e insicuro, omosessuale in incognito. La solitudine e la provincia, la morte e alcuni segreti familiari dal passato, i nodi di un romanzo da non perdere

Fate attenzione: Piersandro Pallavicini è da anni uno dei più bravi in circolazione, ma non è uno di quegli scrittori pallosi, pensosi, musoni, ombelicali, vacuamente cervellotici, inutilmente verbosi, o “impegnati”. La sua prosa sciolta e il bel lessico che la costituisce, insieme al combustibile delle sue storie rutilanti conducono dritti, al contempo, verso lo spasso e la riflessione. Inventa, improvvisa, scompagina sempre le carte in tavola. Non è un mestierante Piersandro Pallavicini, e la stesura e la pubblicazione dei suoi romanzi non sono un mestiere, visto che per vivere fa il chimico (impossibile non pensare all’immenso Primo Levi, per immaginare il top dei soggetti in questione…) e insegna all’università di Pavia da più decenni. Ottima partenza per fare letteratura sul serio e non farsi soffocare da tutto ciò che non è letteratura, ma che le ronza fastidiosamente attorno.

L’irrisolvibile relazione

Con l’ultimo libro – un’altra delle sue magistrali commedie all’italiana – Pallavicini (nella foto di Alessandro Levati, qui il suo sitoriprende il filo con Mondadori, editore a cui era approdato un paio di anni fa, dopo tantissimi anni alla corte di Feltrinelli. E scrive un’opera magistrale sulla morte, sull’essere soli, sull’isolamento sociale che si fa solitudine profonda e intima, sull’eterna complessa forse irrisolvibile relazione padre-figlio: Luchino, padre del protagonista, defunto, ha vissuto pienamente la propria vita, spavaldamente, banchiere di provincia spaccone, traditore, omofobo (e che pensava che il figlio fosse gay), razzista; lui, il protagonista, Michelangelo Borromeo, è agli antipodi, sessantenne irrisolto e insicuro, tutt’altro che guascone, libraio per collezionisti e bibliomani che affianca alla vendita di prestigiose prime edizioni autografate anche «quindici diversi prodotti al tartufo, colature di alici, bottarghe, creme di pistacchio, nocciola, fava tonka, tè cinesi esoterici, caffè campani artigianali, per non parlare degli champagne, solo grand cru, e dei vini di Borgogna, soltanto grand cru pure loro, e su ogni barattolo, scatoletta, bottiglia ci metto dei ricarichi semplicemente criminali».

Farsa e giallo, memorie e sorprese

Si assiste, leggendo Il figlio del direttore (264 pagine, 19 euro) di Piersandro Pallavicini, a una storia generazionale. Il solitario e raffinato libraio, omosessuale «in incognito», si divide fra la provincia pavese e Antibes, in Costa Azzurra, specie dopo le prime riaperture post-lockdown, nel 2020. Le pagine mescolano farsa e giallo, specie in presenza del momento spartiacque del romanzo, una chiamata al telefonino di Michelangelo Borromeo dal numero del padre, morto da un paio d’anni. Un episodio che è l’occasione per guardarsi alle spalle e tornare al passato, tra memorie di gioventù, segreti dei genitori, inquietudini della provincia profonda e amor perduti, come Marcella, conosciuta all’università. Si intrecciano, tra passato e flashback, osservazioni sardoniche e punti di vista ironici, che conducono però a verità sorprendenti.

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