Barbara Cassin e una visione del mondo senza appartenenze

Nel saggio “La nostalgia, quando dunque si è a casa? Ulisse, Enea, Arendt” Barbara Cassin è lontana dalle pericolose distorsioni che hanno ancorato il sentimento nostalgico a una patria, un popolo, una lingua. Rifiutando un’idea totalitaria, ontologica, filosofica ed escludente dell’uomo

Ritorno a distanza di anni su questo libro di Barbara Cassin, direttrice di ricerca al CNRS, filologa e filosofa specialista dell’Antichità, La nostalgia, quando dunque si è a casa? Ulisse, Enea, Arendt (93 pagine, 14 euro), edito da Moretti e Vitali.

Lontananza e lacerazione

Lo sguardo in una libreria spesso ripercorre strade già frequentate, epifanie dell’attimo che esigono una sosta, la rilettura, il ritorno ad un libro, passo, verso già letto in passato che attraverso una nuova rimeditata riflessione genera metamorfosi interiori; anche la rilettura, dunque, è un atto nostalgico, espressione di quel bisogno di radicamento e sentimento dello sradicamento; binomio su cui si regge la nostalgia, nella definizione di Barbara Cassin; mito della lontananza, della lacerazione che fa di noi esseri eternamente spatriati alla ricerca delle origini.

Ma quale origine? Verso quale luogo torniamo? Quale lingua? Quale identità culturale e cosa resta sempre di identico, naturale e fedele all’ingessatura di sé stessi?

Non mi sento a casa in nessun luogo se non nella percezione dolorosa della separazione da questo; la città in cui ho studiato, quelle in cui ho lavorato, la città dove ho trascorso la mia infanzia, le braccia dell’uomo che ho amato, tutti calchi del mio vuoto nostalgico, della mia condizione permanente di esule, xenos, straniera ed ospite al contempo, creatura del “ritornabile”, nostimos. 

Non un sentimento univoco

Barbara Cassin ci conduce attraverso una prosa colta nella “visione del mondo affrancata da tutte le appartenenze”, da tutte quelle pericolose distorsioni filosofiche, ideologiche che hanno ancorato il sentimento nostalgico ad una ed una sola patria, un solo popolo ed una sola lingua e alimentato una idea totalitaria, ontologica, filosofica ed escludente dell’uomo.

Tutti noi, quando pensiamo alla nostalgia corriamo, con la mente agli archetipi, al ritratto di Ulisse, al suo doloroso sentimento del ritorno; tutti noi non possiamo non richiamare alla memoria l’etimologia della parola stessa che è greca, lingua delle origini della civiltà che si riconosceva nel suo rapporto di superiorità con l’alterità barbarica: nostos e algia; eppure la nostra mente erra; innanzitutto alle origini dell’Odissea non c’è un Omero, così come non è nell’Odissea il radicamento del lemma; lo pseudo Omero non parla di nostalgia nell’opera, ma i primi ad usare il termine in campo medico nel XVII secolo furono gli Svizzeri; era il mal du pays, la malattia di cui soffrivano i mercenari svizzeri di Luigi XIV, ci spiega Barbara Cassin.

Ulisse e il non ritorno

Ulisse stesso è l’eroe epico che non ha mai smesso di non ritornare; una volta riconosciuto e a fatica dai suoi cari, egli dovrà ripartire verso luoghi ignoti, come gli ha predetto Tiresia, laddove avrebbero scambiato il remo per un ventilabro, ultima tappa del percorso di definizione dell’identità nel confronto e assimilazione con l’alterità entro cui si inscrive coerentemente la sua natura umana e politica. 

“Di che cosa la nostalgia è in fin dei conti nostalgia? Nostalgia del medesimo o nostalgia dell’altro?”; quando Ulisse è in patria? Quando è a casa per tre giorni dopo venti anni di peregrinazioni o prima del suo ritorno o quando riparte verso l’altrove radicale? “La sua casa è il Mediterraneo, la sua identità il suo sé si sono estesi ai limiti del mondo conosciuto.” Così chiosa Cassin.

Enea e l’altrove

Come Ulisse, anche Enea è un migrante il suo è un viaggio di esilio e di rifondazione della patria, di cui i Penati ne sono emblema, in un luogo, l’Italia, verso cui tende per volere del Fato con nostalgia del futuro anteriore, non il ritorno la meta ma l’altrove; l’insediamento-fondazione di Lavinium prima e poi di Alba Longa e Roma attraverso i suoi discendenti, sarà il frutto di una mescolanza di genti ed etnie diverse che si incontrerà sul terreno di una nuova lingua, il latino, sulla quale si edificherà la civiltà romana. Per Enea il latino rappresenterà la seconda lingua, così come avverrà per i cittadini romani che parleranno due lingue e avranno due patrie, quella naturale e quella di diritto, la civitas romana; il modello romano di alterità inclusa induce a riconsiderare il rapporto che intercorre tra lingua, popolo, identità e nostalgia.

Arendt e la lingua madre

Barbara Cassin lo fa attraverso le osservazioni in merito di Hannah Arendt; nel suo esilio in America, dalla Germania hitleriana, la filosofa di origini ebraiche non smetterà mai di parlare la lingua madre, la lingua delle sue origini, il tedesco; è la lingua del carnefice ma per lei non ha nessun legame di appartenenza con una nazione, patria, con un popolo, è la lingua che gli esuli ebrei-tedeschi continueranno a parlare nell’altrove che li ha accolti.

Bisognerebbe, per evitare esasperazioni identitarie che ancora oggi generano scontri e guerre, in nome del diritto a ritornare nella propria patria o a tutelarla da contaminazioni esterne, coltivare (il verbo degli Dei, dell’anima e dei campi) la Sehnsucht, la nostalgia aperta, l’idea che la nostra condizione è quella dell’esilio, che le nostre radici sono aeree, sostiene Cassin e conclude infine la sua breve ma interessante trattazione con una riflessione che invita tutti noni a ripensare al mondo di muri e ghetti che andiamo sostenendo ed edificando impedendo agli esuli l’approdo, l’accoglienza, il diritto eneadico alle rifondazione: “piuttosto che le radici, vorrei coltivare l’altrove, un mondo che non si chiude su se stesso, pieno di differenti come noi non come noi. Quando dunque si è a casa? Quando si viene accolti, noi, i nostri cari, e la propria e le proprie lingue”.

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