Mak-Bouchard, miti e leggende nella Provenza senza stereotipi

C’è anche del realismo magico nel debutto del francese Olivier Mak-Bouchard, “Il canto del Mistral”, che trasporta in territori nei quali frammenti della religione consolidata si sovrappongono al paganesimo. E c’è la volontà di difendere una regione e il suo popolo dal pregiudizio sull’arretratezza…

È fatto di terra e di pietra, di acqua, di fuoco e di vento il romanzo di esordio di Olivier Mak-Bouchard, scrittore francese émigré nella lontana dalle sue terre di origine San Francisco, California, ma che con il suo Il Canto del Mistral (304 pagine, 19 euro) traduzione di Camilla Diez per Alter Ego, canta il suo atto di amore verso la Provenza dalla quale proviene, restituendone un’immagine diversa da quella stereotipata dei grandi campi di lavanda o delle spiagge assolate della Costa Azzurra, anche se vi ritroviamo molti dei luoghi di quelle terre al di là del Rodano appena oltre i nostri confini di stato. Fra i vari elementi senza dubbio il vento, come suggerisce il titolo, è il protagonista principale, “il Vento Maestro” come è chiamato dai contadini provenzali. Quel vento è anche il cognome di una delle più rilevanti personalità letterarie a cavallo tra 800 e 900 e che ha dato lustro a queste terre persino con il Premio Nobel per la letteratura del 1904: Frédéric Mistral, scrittore e poeta di lingua occitana il quale nelle sue opere da sempre ha promosso la lingua e la cultura provenzale facendosi promotore dell’indipendenza culturale, e come dallo stesso a suo tempo auspicato politica, della Provenza nei confronti della Francia accentratrice, adoperandosi per combattere il pregiudizio sull’arretratezza della sua regione e del suo popolo. Il Mistral, il “bambino dispettoso” che secondo alcune leggende (il romanzo ne è pieno) nasce più a nord della Provenza, o quantomeno nelle sue propaggini settentrionali, nei territori dell’Ardéche, quel vento che “lascia il Vivarais, indietreggia fino al Rodano e risale fino a Lione. Lì contrae i muscoli, prende la rincorsa e rompe gli indugi spazzando ogni cosa al suo passaggio”, quel vento che ha spazzato nei secoli la cima arrotondata del Mont Ventoux, la cima più alta della regione che svetta sulla Provenza segnandone il naturale confine settentrionale, “il monte ventoso”, “la montagna dal cappello bianco”, un paesaggio lunare fatto di calcare e pietrisco ricco di suggestioni e miti, quel bubbone brullo che è diventato con il suo mix micidiale di salita e raffiche costanti e taglienti l’incubo dei ciclisti del Tour de France che quest’anno (a breve il suo inizio) nel percorso delle sue tappe lo eviterà accuratamente.

Un grande racconto di amicizia

Il romanzo di Mak-Bouchard è anche un grande racconto di amicizia. Infatti, due vicini di casa a seguito di una notte di temporale scoprono nella proprietà di uno dei due una fonte dalla quale affiorano dei frammenti di ceramica sui quali inizieranno a interrogarsi. Fra di essi delle trombe che si scoprirà avranno una precisa funzione nella leggenda principale che scorre sottotraccia lungo tutto il romanzo e di cui sono svelati i contenuti nell’epilogo.

I due, come dei piccoli Indiana Jones si cimenteranno in degli scavi clandestini in un percorso tra sogno, mitologia e realtà che dà al romanzo una coloritura da realismo magico. La Provenza narrata dall’autore non è certo la Macondo dei Buendìa, eppure le trecento pagine del libro trasportano in dei territori nei quali frammenti della religione consolidata si sovrappongono al paganesimo e a miti e leggende dimenticate che ci parlano di ciò che è più lontano e ci riporta alle origini, accorgendosi che le cose più banali del quotidiano, se solo siamo capaci di vederle, interpretarle, o forse solo giocarci per mezzo del prezioso dono dell’immaginazione, nascondano verità ancestrali ben più profonde: un incendio alimentato dal figlio di un dio che non ha saputo tenerlo a bada, anche se nella finzione narrativa uno dei protagonisti del romanzo sembra esserne il responsabile, o eventi e malattie che si manifestano per effetto di un’offesa rivolta a una dea ora incapsulata nella forma di una statua calcarea. È la stessa voce narrante che lo spiega nel prologo, il quale precede i 44 brevi capitoli del romanzo che si chiude con un epilogo che è l’esplicitazione della leggenda principale narratavi. Dal prologo quello che è quasi un manifesto programmatico del romanzo: “Se il lettore vuole capire veramente deve risalire fino alla creazione del mondo. Non quella conosciuta da tutti, ma quella delle leggende locali, quella che viene raccontata ai bambini per farli addormentare”.

La scoperta e il fascino

Il canto del Mistral sembra poter terminare dopo poco più di cento pagine, quando il frutto delle scoperte viene recapitato dai due archeologi clandestini in modo anonimo di fronte al museo locale, interrogando gli organi di stampa e il direttore del museo appellato come “Il conservatore”, colui che conserva ed è istituzionalmente responsabile della trasmissione della memoria, invece si dipana per altre duecento con i vari capitoli, ognuno dei quali introdotti da brevi esergo che ne fanno la didascalia e che sono estratti da ex voto, citazioni letterarie, massime e proverbi provenzali. La scoperta dei reperti archeologici e della fonte miracolosa che richiama per suggestione quella più celebre di Lourdes, sempre in territorio francese ma più a ovest, il fascino che esercita sui due provetti archeologi e le azioni che per suo effetto ne scaturiscono determinano lo svolgimento peraltro convenzionale del racconto che affascina per quanto intercalato dal controcanto fiabesco che va a scovare leggende che affondano nella mitologia del territorio provenzale.

Per avere un principio di spiegazione, da buon provenzale, guardai ancora alle leggende” ci dice il protagonista.

Leggende di epoca preromana in una terra cinta dal massiccio del Luberon, trafitta dal sole e screziata dal vento che ha affascinato e ispirato grandi pittori quali Renoir, Monet fino a Cezanne e Van Gogh, una terra ancora oggi ricca di vestigia e segni del passaggio dell’antico Impero. In una di queste, che come in un controcanto scandiscono la narrazione, un marito tradito dalla moglie coglie in un’imboscata l’amante, lo uccide e ne cucina il cuore offrendolo alla moglie fedifraga e inconsapevole dell’orrore che una volta svelatole la porta a gettarsi nel vuoto da un’altura generando una grande vallata del luogo, in un’altra di queste, nota come la leggenda della Fontaine de Vaucluse (la Valchiusa), compare una strana creatura animale ibrida la cui vicenda sarà l’origine di alcune famose grotte. Ne compare persino una su Annibale che durante la sua campagna di Gallia nell’attesa di varcare le Alpi per arrivare alla conquista di Roma rimarrà bloccato con suoi elefanti dal terribile Mistral che con le sue raffiche fa uscire di testa anche i cani e i pastori disperdendone il gregge.

È“il dio bambino” che fa tutto questo, il figlio del dio Vintur, il dio gallico del Mont Ventoux il cui racconto si sovrappone in modo onirico all’avventura archeologica dei due protagonisti, tramite la quale, in particolare per quanto riguarda la voce narrante del romanzo, un annoiato vicedirettore di liceo, questo riesce a trovare a una via di fuga al grigiore di un impiego mai amato fino in fondo, fino alla scoperta da parte dello stesso dell’enigmatica statua calcarea dalla quale sgorga la fonte miracolosa, una figura dal fascino estatico e inquietante: “Guarda lontano, fissa, eppure si ha l’impressione che ti guardi dentro”, fautrice di sogni o allucinazioni ad occhi aperti. Dalle parole e confidenze sussurrate dalla statua all’orecchio dell’uomo con il quale sembra stabilirsi una strana e in qualche modo struggente liaison si evolve la storia che rimane in bilico tra mitologia e realtà, fino al sorprendente ed affascinante epilogo che costituisce anche lo svelamento di segreti e significati di un’oscura leggenda che può essere compresa solo da chi sa ascoltare, come accade per le verità sussurrate dalla statua parlante.

Gli avi letterari

Non è molto più di questo (eppure è molto) Il Canto del Mistral, romanzo mitologico e di avventura di Olivier Mak-Bouchard, scrittore franco-provenzale il quale in tre bellissime pagine poco prima del finale ci dona anche una confessione autobiografica sul proprio mestiere di scrittore. Il futuro ci dirà se l’autore potrà essere consacrato erede di celebri scrittori provenzali del secolo scorso quali Henri Bosco o Jean Giono, spesso citati negli esergo dei capitoli e i quali in modi diversi sono stati testimoni e cantori delle loro terre assolate, ventose e ricche antiche leggende, con messaggi in ogni caso universali quali solo la letteratura può dare. Per il momento non resta che mettersi in ascolto del Canto del Mistral che Mak-Bouchard ha saputo cogliere e intrappolare nelle trecento pagine del suo romanzo di esordio.

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