Napoli stanca (320 pagine, 18.50 euro), edizioni Solferino: è una raccolta di diciassette storie firmate da altrettanti scrittori partenopei. Mi correggo: diciassette + una, dal momento che considero tale anche l’ottima introduzione di Mirella Armiero, curatrice del progetto. Benché in posizione di outsider, infatti, il preambolo di Armiero si muove anch’esso nei territori della narrazione vera e propria. Lo sostengo non in virtù di una forzatura frutto di una mia arbitraria interpretazione estensiva, quanto piuttosto per un evidente merito di mestiere: i ragguagli sulla genesi e finalità del progetto, armoniosamente integrati con una carrellata sullo stato delle cogitazioni sulla città, completati, infine, con osservazioni personali, danno vita a un efficace e piacevole racconto di benvenuto.

L’obiezione

Sento levarsi un mormorio. Intuisco l’obiezione: – “L’ennesima antologia su Napoli?” Dove quell’ennesimo – nemmeno a dirlo – si colora di un’accezione negativa, come a dire: non sono paghi, gli scrittori, di volarci sopra saccheggiandola per i loro scritti? Corrono il rischio di venirci a noia!”

«Io che sono qui a parlare di Napoli, insofferente per il tanto parlare di Napoli». Dà voce a tali perplessità Benedetta Palmieri in Tutto il resto è palcoscenico, il primo racconto “ufficiale” del libro, nel quale sgrana l’intero Rosario dei luoghi comuni sul capoluogo campano che, anche per via delle impennate di viralità social, continuano ad affliggerci.

Niente gabbie

Dubbi legittimi, per carità. Di sovraesposizione e cannibalizzazione si può morire. Rispondo sottolineando la peculiarità della presente silloge, che si fa forte di un approccio originale e nel metodo e nel merito. I contributi, qui, non mirano ad una coralità che sovrapponga, riducendo ad un unicum, le singole voci, costringendole a eseguire più variazioni di un medesimo brano. Piuttosto, predilige la formula del concerto in cui si avvicendano solisti niente affatto ingabbiati dall’obbligo di sviluppare complessivamente una sola storia, ma, al contrario, lasciati liberi di esprimersi mettendo in pratica le specificità del proprio talento, nel rispetto delle sonorità, dei gusti e del genere musicale praticato.

Nuove poliedriche sonorità

L’assunto è che Napoli non sia uno stagno. Al di là delle impressioni soggettive, che la danno per inamovibilmente avvitata sui suoi mali, essa è una creatura già multiforme, che, in aggiunta, continua a evolvere, abbracciando e per certi versi, distorcendo la modernità. Da qui l’evoluzione del nocciolo concettuale del merito: i racconti restituiscono le nuove poliedriche sonorità generate dai fermenti attuali che agitano la città, alla quale la coda della Sirena Partenope, ormai, sta stretta.

Si parte, dunque, con la già citata tammurriata di Benedetta Palmieri, e si approda al pezzo country di Gianluca Nativo, il quale ci conduce nella periferia nordest per mostrarci un angolo di vita contadina – odiato e poi nuovamente amato- che sopravvive tra le «case dove l’unico senso estetico è la pulizia accanita dei fornelli». Scontato, forse, accostare Sulle scale di Athos Zontini, “terza traccia”, al rock di Stairway to Haven. Eppure l’abbinamento ci sta. Basta travalicare il titolo e guardare al brano dei Led Zeppelin secondo la volontà dichiarata in un’intervista da Jimmy Page, secondo il quale l’idea era di avere un pezzo di musica che si sviluppasse su più strati a coinvolgere diversi stati d’animo. Il racconto di Zontini si snoda sulla scalinata del Petraio realizzando tale proposito. Entra, infatti, nel clima di quella porzione di territorio, i cui peculiari ritmi ne fanno quasi uno iato dal tramestio cittadino, utilizzando la doppia chiave: emozionale e sociologica.

Toccata e fuga a San Giovanni Teduccio quella di Gianni Solla in Sia con il tram che con il ciuccio. Dalle tradizioni della processione in onore di San Giovanni e del rito “del piombo”, alla dimensione cosmopolita del turismo gentrificante dei bed and breakfast, egli procede puntando sull’auspicabile prospettiva di un cambiamento consapevole, che fa incarnare all’attore F. De Leva.

Tante città

Con l’intento di non abusare della vostra pazienza, continuerò a passare in rassegna i racconti attraverso micro pennellate. Più complessa, articolata su un piano introspettivo-speculativo, è la voce di Eduardo Savarese. Il racconto è un’investigazione che procede parallelamente a scandagliare la città “geografica” e la città interiore secondo un andamento a spirale che tuttavia, pur facendosi via via più stingente, non sfocia mai in asfittica autoreferenzialità, anche per via delle molteplici citazioni letterarie e musicali di cui è disseminata.

Grazie a Diego Lama che mi ha svelato un dettaglio floreale ignorato. Intenso il profumo che sale dalla sua narrazione. «Ricostruzione di un fatto vero che appassiona come un romanzo», la bellissima cartolina da Bagnoli di Peppe Fiore. Funziona benissimo e suggestiona molto la sceneggiatura pulp di Fortunato Cellino. Parimenti lo splendido spaccato famigliare che ci regala Angelo Petrella. Si fa apprezzare per la lucidità urticante, piglio a cui per fortuna non rinuncia, Fuani Marino. Con la consueta grazia ed eleganza Vincenza Alfano posa gli occhi – e noi con lei- sugli «ultimi». Incisiva e in molti punti condivisibile l’analisi di Davide D’Urso, che riferisce cosa rappresenti per le nuove generazioni il contributo e il punto di vista di un libraio. Dichiaro di essere di parte riguardo “ Della personale infanzia del rap napoletano” di Alessio Forgione, che propone un interessante spaccato del mio quartiere di nascita: Soccavo, introducendoci alla realtà dei writers, oltre che dei rappers.

Ciò che preme puntualizzare a Maurizio Bacci a proposito del suo Adolescenti di Napoli e le barbarie, lo scrive bene egli stesso: «ho raccontato per riflettere sul fatto che, nel mondo degli adolescenti, il mercato e le sue variazioni possono incidere enormemente e che se non si tiene in considerazione il rapporto che esiste tra persona, gruppo sociale, generazione e tendenze si finisce per dire, magari con grande ufficialità, delle enormi sciocchezze». Non meno utile per continuare il discorso sui giovani, il capitoletto firmato da Massimiliano Virgilio. Spassoso, sagace, ficcante “ O’ Duomo mio” di Cristiano de Majo. Lo si sorbisce con la soddisfazione beata con cui si tracanna un ottimo caffè napoletano (di quelli con le ben note quattro C) fortuitamente trovato fuorisede. Non ci poteva essere finale migliore dell’incursione nel futuro remoto partorita dalla fantasia di Marco Marsullo. Al termine della lettura è quasi d’obbligo esclamare:-“ E qua sarà Napoli!”.

Un segreto…

Non posso tralasciare di spendere brevi parole sul valore letterario di Napoli stanca. Oltre che il profilo sociologico dei contributi è di riguardo, infatti, anche quello artistico. Qualche autore si è assestato su una prosa più corposa che bene si coniuga ad una vena maggiormente meditativa, qualche altro si è affidato, viceversa, a una scrittura spugnosa, che rilascia ottimamente gli umori di cui l’ispirazione è impregnata. Tutti scrivono in scioltezza. Tutti i racconti sono belli e accattivanti. Naturalmente ho il mio preferito, il cui titolo, però, terrò gelosamente solo per me.

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