Rausi, viaggio al termine del dolore (in un piccolo condominio)

Una storia drammatica e di speranza è “Il colore delle cose non dette” del catanese Simone Rausi. Nina, che ha perso prematuramente il fratello Samuele, viene raggiunta telefonicamente da sms anonimi: è qualcuno che ha conosciuto e amato Samuele e che, in un crescendo di tensione, cerca – tramite le 36 domande dello psicologo americano Arthur Aron – un appiglio e un contatto per lenire il dolore nella dolcezza del ricordo

Alcune volte può capitare di domandarsi se il dolore possa unire o separare le persone: cosa può causare un lutto, una malattia o un qualsiasi altro irto e faticoso percorso di vita nelle esistenze di persone vicine affettivamente o in relazione tra di loro all’interno di un gruppo? E il dolore può essere condiviso? E se sì, in che modo?

Queste sono alcune delle domande fondamentali alla base di Il colore delle cose non dette (Rizzoli 2023, 317 pagine, 18 euro) il romanzo di Simone Rausi, autore siciliano, nonché giornalista e impegnato nella scrittura in giornali, blog, radio e tv.

Samuele, il fratello maggiore di Nina, è morto da pochi mesi in un incidente stradale. Improvvisamente sul cellulare di Nina appare un messaggio da parte di un numero sconosciuto che si capisce da subito appartenere ad una persona che ha avuto un rapporto molto stretto con Samuele. Nina ha lasciato la casa dei genitori e del fratello pochi mesi prima che questo perdesse la vita, e ora vive in una mansarda di un condominio di tre piani come una sorta di hikikomori con i capelli in disordine nel tentativo di un’impossibile elaborazione del lutto, quale è in fondo tutto lo struggente e coinvolgente romanzo dello scrittore catanese.

Il bisogno di condividere il dolore

L’espediente che dà la stura a questo meccanismo contemporaneamente doloroso, creatore di suspense per le dinamiche che innesca e profondo per le sue implicazioni affettive sono le già celebri 36 domande dello psicologo americano Arthur Aron pubblicate sul New York Times, 36 grimaldelli per cercare un contatto ed entrare in intimità con qualcuno, metodo, a quanto pare, scientificamente efficace. Lo/a sconosciuto/a dall’altra parte dello schermo del telefono di Nina infatti sottopone alla sorella dello scomparso Samuele, in un crescendo di tensione, domande dal tenore sempre più intimo e pressante che testimoniano il bisogno reciproco di un appiglio e un contatto per lenire il dolore nella dolcezza del ricordo. Lo/la sconosciuto/a, infatti, troverà dopo lo stupore e il fastidio iniziale della ragazza ventenne un valido interlocutore facendosi schermo dell’anonimato, dicendoci che in fondo siamo tutti sconosciuti l’uno all’altro finché non decidiamo di abbattere le barriere per sentirsi più da vicino come esseri umani. Questo, al di là dei contenuti e dei messaggi che il romanzo riesce a veicolare, è uno dei punti più interessanti e controversi del volume ed è l’esemplificazione dell’umano bisogno di condivisione di dolori o gioie e contatto con i nostri simili nell’era dei telefoni cellulari e più estesamente delle relazioni virtuali, facendoci domandare se esista un limite a tale modalità di comunicazione ove spesso purtroppo dietro la maschera dell’indeterminatezza, della distanza e dell’anonimato si nasconde la più sordida violenza psicologica.

Come una lunga seduta psicanalitica

Nella fattispecie la relazione tra i due evolve in un crescendo di tensione a tratti tragicomica; forse in un futuro non troppo lontano ci metteranno dei microchip sottopelle e le controindicazioni di queste appendici tecnologiche che ci rendono schiavi nei movimenti, nelle posture e con tutte le implicazioni psicologiche connesse magari saranno risolte. Nina, la quale da piccola sognava di inventare un nuovo colore e che ora vede tutto in grigio cerca di dare un volto al misterioso interlocutore telefonico e tutti gli indizi portano a qualcuno che abita nel suo stesso condominio, sebbene ciò che pare certo viene continuamente contraddetto.

Le 36 domande, fra le quali cose del tipo «con chi vorresti uscire a cena?» o «immagina un giorno perfetto» oppure «se ti potessi svegliare domani avendo una qualità quale vorresti?» che progressivamente il misterioso/a interlocutore/trice pone alla ragazza sono allo stesso tempo un esercizio di stile, un originale espediente narrativo che tiene alta la tensione della lettura e il canovaccio lungo il quale si snoda tutto il romanzo che fa accostare il rapporto tra i due a una lunga seduta psicanalitica, a una sempre più serrata partita a scacchi e una sorta di detective story con la protagonista Nina sempre più coinvolta nello scoprire l’identità di quella persona che sembra custodire segreti del fratello scomparso a lei ignoti, innescando fra i due una sorta di competizione su chi abbia più amato Samuele quando era in vita. 

Un gioco a due, una verità che sfugge

Una ricerca della verità che sembra sfuggire di continuo e un gioco a due che sembra quello del gatto col topo con un alone di mistero come quello di una macchia rosso sangue a forma di cuore nel parco. Quelle conversazioni virtuali fanno dire a Nina in un impeto di rabbia: «quella chat che ormai mi sembrava una caricatura della vita stessa», mostrano quanto possa essere pericoloso e spietato giocare con le emozioni, con il dolore della perdita e del non sapere, aspettare con ansia un messaggio di quella persona al di là dello schermo con la quale si è instaurato un rapporto sempre più intimo e a suo modo perverso, con una verità che sfugge continuamente in un gioco crudele che si desidera non finisca mai perché nel suo meccanismo vi è già l’essenza del piacere che questo suscita. Il romanzo interroga anche sulla doppia faccia del reale come solo la letteratura può fare, grazie alla sua materia prima che sono le parole, quelle parole che lo/a sconosciuto/a, la cui identità e relazione con lo scomparso Samuele sarà svelata nel finale, estrapola dal dizionario ogni sera, parole che possono avere molteplici significati come ci ricorda Rausi nella pagina finale dei ringraziamenti e come in chiusura del romanzo relativamente alla parola “Parto”: «voce del verbo partire» ma anche «Azione del partorire. Inizio di una nuova vita», come quella di Nina che inizierà di nuovo ad uscire di casa e aprirsi al mondo, nella consapevolezza che «vivere e sentirsi vivi non sono la stessa cosa».

È il non detto che può essere mortale, che può tenere prigionieri in un’elaborazione del lutto infinito, reale o metaforico che sia, mentre le parole, quando anche provenienti da qualcuno di sconosciuto attraverso strane dinamiche e per mezzo di un supporto tecnologico possono salvare, o attutire il dolore, come il romanzo di Simone Rausi mostra nel poetico finale di una storia drammatica e di speranza, un mistero da svelare in un condominio di tre piani.

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