Una mappatura degli ingranaggi del falso, un cartellino giallo della provvidenza mostratoci dall’arbitro letterario proprio mentre ciascuno di noi gioca la propria partita tra verità e menzogna. Ecco cosa è il romanzo “Bugiarda” di Ayelet Gundar-Goshen, nuovo tassello della nostra rubrica Area 22 (qui tutte le puntate precedenti)

Un vero e proprio manuale della menzogna questo Bugiarda, romanzo di una delle maggiori voci israeliane, Ayelet Gundar-Goshen (Giuntina, 257 pagine, € 17,00), per la traduzione di Raffaella Scardi che, con questo lavoro, ha vinto la VI edizione del Premio Lorenzo Claris Appiani.

Manuale non solo perché, passando attraverso i meccanismi di un fatto assolutamente quotidiano, e dunque già incorniciato da una verosimiglianza a portata di mano, appare immediatamente fruibile agli altrettanti bugiardi che lo leggono (che anch’io sia tra questi?); ma anche e soprattutto perché, nella maniera in cui è raccontato – e cioè ripercorrendo gli stessi angosciati sentieri di colpa della protagonista – non solo realizza in pieno la storia come narrazione, ma la rivela come espediente fenomenologico: spiega, cioè, come funziona la bugia, dall’evento scatenante della sua origine a tutti i passaggi delle sue mutazioni e dei suoi adattamenti, fino alle sue conseguenze.

Manuale perché, seppure supportato da una semplicità narrativa che si gioca tutta al confine tra gli eventi oggettivi raccontati e il turbamento soggettivo di chi li vive in prima persona, mostra una mappatura completa degli ingranaggi del falso, dall’apparire di quest’ultimo come totalmente mescolato alla realtà, al suo disvelarsi gradualmente fino all’esplosione della verità.

Una somiglianza innocente

Chi ha letto Espiazione, quasi certamente il capolavoro assoluto di Ian McEwan, ve ne ritroverà l’anima senza nessun rischio di reincarnazione letteraria; senza nessuna metempsicotica scopiazzatura; una somiglianza innocente, dunque, dove il tema e il motore scatenante sono quasi identici, ma totalmente nuova e originale è la storia: gli scheletri, quando non hanno più carne addosso, sembrano tutti uguali anche se diversissimi sono gli armadi narrativi dentro cui tutti li nascondiamo (autori, lettori e personaggi).

Originale è la storia; originali sono le figure umane che fanno da sfondo al racconto e accompagnano la protagonista lungo un intreccio di rivelazione che, pur compiendosi pienamente già dal titolo, ha comunque bisogno d’essere descritto nei sottili particolari di un disvelamento che, se appare più lento da un certo punto in poi, è perché segue i rallentamenti di una qualsiasi coscienza dinanzi alle istanze sempre più urgenti delle verità, che – in un gioco di proporzionali inversioni – diventa incalzante come il desiderio di conoscenza del lettore; originale è l’ambientazione, come pure il contorno degli apparati simbolici. Il linguaggio riporta tutti gli odori forti e ancora indefiniti di un’adolescenza ormonale, tanto violenta nella sua espressione emotiva quanto delicata nella sua struttura psicologica.

I sensi come porte della coscienza

Già nelle primissime righe del romanzo di Ayelet Gundar-Goshen scopriamo la complicità di sinestesie tanto aberranti quanto efficaci: i sensi della giovane protagonista, e dunque i suoi parametri di interpretazione della vita, sono come le cinque porte attraverso cui – tanto per lei quanto per noi – passano e si susseguono le scene della verità; sensi che si mescolano a quelli più rallentati e docili di chi legge il racconto con l’attenzione dell’investigatore e, allo stesso tempo, del complice: vista e udito si somigliano nelle medesime e indistinguibili percezioni; tatto e olfatto ci rendono possibile un’immersione piena all’interno della cornice di quasi ogni singola scena; il gusto comincia dallo spazio confortante di una gelateria per finire al sapore ferroso di una prigione interiore di rimorso.

I giochi delle immagini

All’inizio della vita, come pure a ridosso di un autunnale capodanno, le promesse passano veloci come pubblicità attaccate sugli autobus; anche se l’essere giovani – con tutto il carico della sua indeterminatezza – appare sempre come un assoluto, come una realtà capace di governare l’universo: cinque ragazzi che entrano in una gelateria, sorridenti di giovinezza e di bellezza, sembrano la Torah, fanno lo stesso effetto, ti ci potresti inchinare. Ma la Legge può essere dura, incomprensibile; può ordinare un gelato senza considerare gli obblighi della dolcezza.

La figura di Maya, sorella più giovane e graziosa dell’insicura protagonista Nufar, ha un modo tutto suo di aggrapparsi al tallone di chi è venuta al mondo prima di lei, e di prenderne il posto: con la sua nascita, salva il papà proprio mentre Nufar dice abbà per la prima volta; capita che questa primigenia iniziativa della parola, così fondamentale e strutturante, venga smontata e rimpiazzata da un evento tanto sovrabbondante. Succederà altre volte lungo il racconto, sempre in questo gioco di immagini sovrapposte, ma non sempre e solo con lei: la parola della menzogna soppianterà le altre fino a che, tracciato uno Yabbok sul piano della coscienza, il guado non ci permetterà più, ad un certo punto, ulteriori compromessi tra la realtà e la verità.

Il riflesso metanarrativo

La storia, che una volta introdottasi nella coscienza del lettore comincia a diventare anche la “sua” storia, reclama riflessioni mute oltre e dopo la lettura: confronti obbligati con le tacite reticenze dell’umano, che spesso si piega furtivamente alla gravità di una pendenza più semplice di qualunque faticosa ascesa morale: la bugia accorcia ogni strada; ti dà l’illusione di afferrare il frutto proibito di un’attenzione a tutti i costi senza che nessuno se ne accorga (se non Dio e il tuo serpente); ti illude di aver agganciato il mondo proprio quando questo, ormai lontano dalla verità nella misura in cui la tua verità si è allontanata da esso, ti si sfalda sotto i piedi; e soprattutto, all’inevitabile rivelarsi del vero, ti distrugge più di quanto pensassi potesse fare la verità, se l’avessi fatta passare pur con tutta la sua necessaria fatica.

La verità etica che reclama il suo spazio, è un grido che supera le pagine ed esce fuori dalla narrazione: il momento in cui alla protagonista si affianca – non più come investigatore o complice, ma solo come colpevole – ogni spettatore di questo racconto.

E non ci inganni in finale, che qui non anticipiamo, perché ognuno ha quello che si merita, o quello che cerca, o quello che – inaspettatamente – può riconsegnarci alla verità: ciò che importa non è come finisca questa storia, che è solo quella di Nufar, ma come potrebbero finire le nostre. Il libro è un cartellino giallo della provvidenza mostratoci dall’arbitro letterario proprio mentre ciascuno di noi gioca la propria partita tra verità e menzogna.

E quest’ultima, in realtà la vera antagonista di ogni storia, di ogni racconto, e di ogni essere umano, mostra inquietante il suo desiderio di mescolarsi alla realtà di ogni giorno. Anche nello spregevole tentativo, purtroppo non sempre solo letterario, di raccontare il falso a scapito di chi, per la bugia di un’adolescente il cui dolore non basterà mai a diventare giustificazione o attenuante, rischia di essere distrutto.

Una necessità pedagogica

Bisogna odiarla Nufar, finché è mescolata con la menzogna; se no non potrà mai essere amata come merita e come è giusto. Bisogna odiare quella menzogna che le si è fatta addosso, come uno strato di carne, la sua sola momentanea apparenza. E a Nufar spetta la coraggiosa fatica di questa scarnificazione volontaria, liberante per sé e per gli altri, cui nessun altro può sostituirsi. Come nessuno può, del resto, decidere al tuo posto quando e cosa sceglierai che sia vero e cosa vorrai che sia falso. La bugiarda è sempre lì, nascosta dentro di noi più che in bella vista sullo scaffale di una libreria: è una coscienza bisognosa d’essere amata, come quella della protagonista; ma che non potrà realizzare questo desiderio finché, dalla prigione in cui si sente rinchiusa, non comincerà a liberare gli altri e le loro vite. Non da lei, ma da ciò che la sua immaginazione è in grado di creare. Anzi, no… produrre. Usiamo questo verbo. Creare è qualcosa che genera vita, e lo lasciamo a Qualcun altro, che è Verità, e con la menzogna non potrà mai avere nulla a che fare.

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