Tre corpi ritrovati in una discarica della capitale tedesca post seconda guerra mondiale innescano “Morte sotto le macerie” di Harald Gilbers, settima indagine di Robert Oppenheimer, commissario ebreo sopravvissuto alla Shoah. Nella metropoli divisa in quattro settori prosperano le bande criminali e il malaffare, l’elettricità è razionata e la sopravvivenza di tanti dipende da farmaci e cibo trasportati da voli umanitari
Berlino. Febbraio 1949 – marzo 1950. Robert Oppenheimer è un commissario quasi 50enne della polizia criminale della parte ovest e ha una lunga storia alle spalle. Ebreo sopravvissuto solo in quanto marito della cara moglie ariana Lisa, già rimosso dall’incarico investigativo per le sue origini ma poi rimesso sul campo da un gerarca nazista per interesse personale, ora reintegrato in servizio ufficiale e pubblico pur nella dinamica povera e divisa dei primordi della guerra fredda, deve indagare su tre corpi ritrovati casualmente in un’enorme discarica di detriti (una fossa comune in collina), brutalmente uccisi e abbandonati a settimane di distanza. Nella metropoli i quattro settori sono separati (rigidamente quello orientale) e la sopravvivenza ancora dipende dai voli “umanitari” che portano viveri e medicine, mentre l’elettricità è razionata, prevalgono freddo e buio, prosperano le bande criminali. I colleghi sono sulle tracce di una crudele banda di giovani senza scrupoli (riconoscibili grazie a un fazzoletto da taschino giallo), attiva in tutti e tre i settori occidentali, capace di gestire prostituzione, contrabbando e furti con il sostegno di delinquenti di lungo corso e la guida di un ventenne terribile di nome Jo, che si crede Al Capone ed elimina ogni concorrenza. Oppenheimer va a trovare il suo storico informatore nel sottobosco fuorilegge, Ede il Grande, e suggerisce al capo di istituire una commissione speciale fra i dipartimenti omicidi, buoncostume e rapine, ma i misfatti continuano, gli ostacoli oggettivi aumentano, i possibili informatori scompaiono uno dopo l’altro, i rari testimoni vengono intimoriti, minacciati o eliminati, pare si prepari un colpo davvero grosso, piovono soldi e qualcuno dei “suoi” probabilmente fa da talpa. Ci si gioca la vita in tanti.
Obiettivo? La caduta del muro
L’ottimo giornalista scrittore e regista Harald Gilbers (Monaco di Baviera, 1969), solido storico di formazione e ricerca, ormai vive nella Germania del Nord e continua a mietere successi con la splendida premiata serie dell’omonimo, giunta con Morte sotto le macerie. Il commissario Oppenheimer e la banda dei fazzoletti gialli (417 pagine, 16 euro) – tradotto da Angela Ricci per Emons edizioni – al settimo episodio (l’ottavo nel 2024). Esordì dieci anni fa con Berlino 1944 (in Italia nel 2014) e intende arrivare molto in là, quasi alla caduta del muro, valutando nel frattempo come organizzare la biografia dell’interessante protagonista (nato nel 1900), già con trasposizioni cinematografiche e televisive in corso. Finora, dopo l’esordio, in originale: Odins Söhne (1945), Endzeit (1945), Totenliste (1946), Hungerwinter (1947), Luftbrücke (1948), tutti con gli stessi bravi editore e traduttrice. La narrazione è in terza varia al passato (molto sullo stesso Oppenheimer, sui suoi famigli vari, sulla villa in cui è graziosamente ospitato e sugli altri inevitabili conviventi).
Tra disperati e invasori
Come nelle avventure precedenti, la cornice storica è ricostruita con grande accuratezza. Sia l’attività delle bande criminali (almeno quarantaquattro nel Dopoguerra) che gli esordi della fiorente industria cinematografica in mezzo all’archeologia industriale sono ispirate a fatti veri, in fondo al volume di Harald Gilbers si trova una bibliografia di almeno una decina di testi consultati con competenza. Berlino era ridotta a un cumulo di macerie (da cui il titolo) in cui si aggiravano comportamenti noir fra individui disperati alla ricerca di qualunque cosa li aiutasse a sopravvivere, contando sulla eventuale benevolenza degli invasori, i vincitori della guerra. Non c’è mai “occhio pornografico” o morboso compiacimento nelle descrizioni e nei dialoghi, la violenza appare fuori scena, se ne vedono solo i drammatici effetti. Acquavite e whisky appena possibile, raro champagne e ovviamente molta birra. Richard (non Robert) ha fortunosamente mantenuto una bella antica collezione di dischi, questa volta sceglie Haydn e Dvořák.
Seguici su Facebook, Twitter, Instagram, Telegram e YouTube. Grazie