Rafael Cozzi e il Cile di Pinochet, tutti schiavi della morte

Le testimonianze dei rastrellamenti e dei pestaggi degli oppositori al regime di Pinochet, dopo la caduta di Allende, nei ricordi autobiografici di Rafael Cozzi, nel volume “Estadio nacional”. Fra gradinate e spogliatoi di uno storico impianto sportivo si consumano nefandezze. Un memoriale che mette in guardia, senza smettere di avere un po’ di fiducia nella solidarietà, quella che sopravvive fra i prigionieri

Sopravvissuto e testimone, paralizzato e indignato dai ricordi, custoditi nel cuore, nella mente, e in un piccolo prezioso libro dalla copertina verde, nell’edizione italiana, con due braccia levate in alto, a palmi aperti come se chiedessero di avere pietà. A poco più di cinquant’anni dagli orrori del Cile di Pinochet, un altro documento crudo, «un granello di sabbia nella ricostruzione della memoria della grande tragedia storica vissuta dal mio paese», come scrive l’autore sopravvissuto, Rafael Colozzi, la cui “voce” è resa in italiano da Luigi Petrella, e il cui volume è pubblicato dalle edizioni Abbot, casa sempre a caccia di libri di cui non potere fare a meno.

Qualcosa (che ora mi dà rabbia quando me ne ricordo) mi distanziava definitivamente dal mondo. In un certo senso io ero morto. Come se mi avessero strappato l’anima, estirpato la passione di vivere. 

Vessazioni e torture

Estadio Nacional (113 pagine, 14 euro) è la cronaca autobiografica di un arresto immotivato, della deportazione, delle torture e del rilascio di due dei tre protagonisti, dopo che Salvador Allende, presidente legittimamente eletto, fu deposto; due dei tre protagonisti si salvano, non Rafael Cozzi che nelle ultime pagine racconta il suo trasferimento nell’ennesimo uomo da incubo, il campo di concentramento di Chacabuco. I giovanissimi finiti nelle grinfie delle squadracce di picchiatori delle forze armate di Pinochet, specialmente dell’aeronautica, sono assaliti, vessati psicologicamente, malnutriti, imbottiti di bromuro, ammassati in poco spazio, picchiati selvaggiamente, torturati, ridotti a larve, fra le gradinate e gli spogliatoi dell’impianto sportivo più celebre della capitale cilena.

Lo stadio, quello spogliatoio pieno di uomini in catene, era la rappresentazione della nostra nuova società. Alcuni vittime, altri carnefici. Ma tutti schiavi, della morte subita e di quella inflitta. A questo eravamo arrivati dopo più di duemila anni di riflessione politica?

Solidarietà contro disumanità

Stranieri, sindacalisti, studenti, operai, gente comune, non necessariamente militanti di sinistra, della coalizione Unidad Popular. Nel buco nero dello stadio – dove c’è qualche messinscena a favore della Croce Rossa o di osservatori esterni, dove almeno i cadetti delle forze armate hanno pietà dei prigionieri – finiscono tutti. Spesso a causa di puri pretesti. E tutti attraversano un girone infernale di rastrellamenti, interrogatori e pestaggi, un girone fatto di dolore, di privazioni, di insensatezze, orrori paragonabili a quelli delle guerre in corso ai nostri giorni, fra connazionali, da una parte i vigliacchi armati fino ai denti, dall’altra gli indifesi destinati a soccombere. Rafael Cozzi non si limita a fare letteratura, a raccontarci un mese e mezzo di prigionia, ma ci mette in guardia, invitando comunque a credere nell’uomo, a conservare un barlume di fiducia, nonostante il Novecento ferito e insanguinato. Tra il male dilagante c’è qualche religioso coraggioso, ci sono atti di solidarietà fra detenuti: si condivide il poco che si ha, un modo per non soccombere, per non capitolare e sottomettersi alla disumanità.

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