Giuliano Gramigna, una Recherche piccola piccola

Complesso e affascinante, zeppo di citazioni, “Marcel ritrovato” di Giuliano Gramigna, in cui una donna, Roberta, chiede di rintracciare il marito Marcello, scomparso a Parigi, all’amico Bruno. Trama esile trasformata in una cangiante spirale aperta…

Marcel ritrovato (296 pagine, 17 euro) è un romanzo di Giuliano Gramigna, edito nel 1969 e ripubblicato un paio di mesi fa da Il Ramo e la foglia, con una limpida nota di Ezio Sinigaglia, dal titolo Un romanzo pre-postmoderno.

Si tratta di un testo complesso, affascinante, che contiene descrizioni, riflessioni, narrazioni e postille critico-documentarie, zeppo di citazioni esplicite e dissimulate e attraversato da riprese e varianti interne. La narrazione si avvia con la richiesta fatta a Bruno da Roberta di rintracciare il marito Marcello, di cui si sono perse le tracce a Parigi. Bruno (il protagonista), un tempo innamorato della donna e amico dello scomparso, decide di partire. Una trama esile e divagante, che sembra riprendere il topos medioevale e rinascimentale della quête, trasformata in una labirintica e cangiante spirale aperta, che coincide di fatto con la scrittura del romanzo. A guidare-depistare il lettore, Gramigna suddivide il suo testo in tre parti e le compendia laconicamente ad apertura di romanzo, lasciando l’impressione (fuorviante) di una ordinata sequenza spazio-temporale. Così la Parte Prima, la più ampia, si svolge a Milano, la Parte Seconda a Parigi; entrambe ulteriormente suddivise in cinque capitoli. Si arriva infine alla Parte Terza (ennesima), a Milano ancora, un blocco unico, di appena quattordici pagine, articolato in tre paragrafi.

La Milano del Miracolo Economico

La voce narrante, esterna, ci mostra Bruno che torna a Milano da un viaggio di lavoro e poco dopo la Gianna (la sorella) che lo invita a una festa, per parlargli in realtà di Roberta e di Marcello. Solo alcuni giorni dopo (ma occorre arrivare al capitolo conclusivo della Parte Prima) Bruno si reca finalmente a trovare Roberta la quale gli chiederà eccetera eccetera. Fra il rientro a Milano e la partenza per Parigi, il lettore segue Bruno a casa sua, in ufficio (lavora in un’agenzia di pubblicità; ha pubblicato un libro) alle prese con un collega che lo incalza su temi capitali, fra gli invitati altoborghesi alla festa della sorella, da Laura, l’amante-mantenuta, e più volte in giro per le vie di Milano, da solo o con l’amico Franco, e di nuovo, trascinato dalla Gianna in un successivo, affollato incontro conviviale in un locale alla moda, che varia – col montaggio delle battute incrociate dei sottogruppi – la festa di qualche giorno prima, lasciando che emergano da sé il vuoto, le ipocrisie, i luoghi comuni, le contraddizioni della Milano-bene. Sono lunghe sequenze visive, cinematografiche, con descrizioni attente di luoghi e ambienti, anche dal punto di vista dei cambiamenti sociali in atto (ne è un esempio il più volte “descritto” corso Garibaldi). Dai dialoghi dei personaggi emerge viva la Milano (e, alle sue spalle l’Italia, l’Europa…) degli anni Sessanta, del Miracolo economico, dell’immigrazione interna (con i connessi conflitti sociali, latenti ancora per poco), della radicale antinomia consumismo-comunismo, e degli intellettuali che si pongono domande sul loro ruolo in relazione alla dirompente realtà del processo capitalistico… Nonostante il dialetto non venga disdegnato in altri luoghi del romanzo, l’esergo di questa Parte Prima, Lavora, lavora, la vita la va in malora (Proverbio milanese), è riportato in italiano: non si riferisce infatti agli umili (in senso manzoniano), agli operai, ai travet, ai piccoli commercianti-artigiani destinati a sparire, alle portinaie… che si intravedono come masse di comparse sfocate. È alla classe alto borghese che viene rivolto l’obiettivo della cinepresa, ma la rappresentazione satirica di questo mondo non costituisce il fulcro dell’intero il romanzo.

La scomparsa

Così, mentre contemporaneamente delinea il milieu sociale frequentato dal protagonista, sia pure dalla sfalsata posizione di intellettuale-artista, fin dal I capitolo l’autore accorcia e poi annulla tout court la distanza fra la voce narrante e Bruno in ripetute, talora anche ampie, sequenze, slittando dalla terza alla prima persona e viceversa. Ancora più interessante è scoprire, come evidenzia Sinigaglia nella Nota finale, che al personaggio di Bruno sono attribuiti alcuni tratti biografici appartenenti all’autore reale, quel Giuliano Gramigna [Bologna 1920-Milano 2006] il cui nome si trova scritto sulla copertina del libro che leggiamo, suggerendo una contemporanea identificazione tra Narratore-Protagonista e Autore. A mantenere un diaframma tra Bruno-Narratore e Autore reale resta il dato di fatto di due nomi distinti, e di due titoli altrettanto distinti dei rispettivi primi romanzi. L’autore reale gioca a farci credere che Bruno sia un po’ più che un alter ego, scegliendo tuttavia di rimanere formalmente, sia pure di poco, al di qua di una possibile autofiction. Strettamente legati a questa (quasi) identificazione sono i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza, comuni a Bruno e all’Autore, delle vacanze estive (come per molti Bolognesi) a Casalecchio, oggetto anche di note a piè di pagina e di un’Appendice. Mentre non sappiamo (ma non possiamo nemmeno escluderlo) se siano solo del Personaggio-Narratore i ricordi e le riflessioni sul padre morto da poco, innescati sia da spazi e oggetti (la “collezione” di scarpe, le minute delle lettere…) nella casa a Milano sia da occasionali “madeleine”. Un non-rapporto col padre, vissuto da Bruno con disinteresse, indifferenza, fino a quando negli ultimi tempi aveva cominciato a interrogarsi sul loro legame; la sua morte però lo aveva lasciato da solo a capire o a indovinare. C’è un debito, insomma, una specie di debito, fra noi due, p.114. Questa consapevolezza si acuisce dopo avere trovato fra le carte paterne un essenziale, severo giudizio sul suo primo romanzo a proposito dei ripetuti tentativi di richiamarsi alla Recherche, riuscendo soltanto a delle povere e sbiadite reminiscenze. Il tormentato rapporto in divenire con la memoria del proprio passato riguarda anche l’amicizia con lo scomparso Marcello, per lui un modello di vita, un idolo adolescenziale e giovanile, cui sembrava riuscire tutto facilmente, in armonia col mondo, e che rappresentava ciò che Bruno avrebbe voluto essere, fin troppo consapevole della propria inettitudine; Marcello sarebbe divenuto anche un competitore (infine vincitore) per quanto riguarda la relazione con Roberta.

Ricordi sogni (o mai avvenuti)

Lo sguardo oggettivo verso l’esterno subisce una prima incrinatura nella descrizione di Roberta, quando Bruno va infine a trovarla. In più, il protagonista si accorge di un dettaglio fisico (il naso) diverso da come lo ricordava: diversità impossibile da imputare al trascorrere del tempo o ad un intervento chirurgico, aggiungendo una particolare connotazione alla inattendibilità della memoria. La vera frattura dello sguardo impersonale avviene però soprattutto col primo inserto di un’esplicita, dichiarata come tale, paramnesia: il “ricordo” di un episodio riguardante lui e Roberta a Versailles, mai accaduto, come si evince poche righe più avanti. Alla vigilia della partenza per Parigi, qualche pagina dopo, attraverso il più classico espediente del sogno, Bruno si vede insieme a Roberta in una scena di gesti e frasi quotidiane, che trasmette la consuetudine di un sereno rapporto ordinario, concluso da una duplice, spiazzante domanda (del Protagonista o del Narratore?): “Si tratta di un matrimonio avvenuto? Che avverrà?”, p. 145. L’alta marea di serenità e di tenerezza vissuta nel sogno è identica poi a quella di un ricordo del ’41 sempre insieme alla donna, che anzi viene pure ripreso dalle parole di lei all’interno del sogno. Un modo narrativamente originale di proiettare il protagonista in dimensioni alternative, che si presentano sotto forma di un ricordo-episodio mai avvenuto o di un ricordo-sogno che fa rivivere in forma nuova qualcosa di accaduto oppure, al contrario, che potrebbe sottintendere (o preludere a) qualcosa che sarebbe avvenuto, o sarebbe potuto avvenire.

Incontri e colloqui

Sono tappe che preparano il passaggio a una Parte Seconda. A Parigi: rue de la Huchette, dalla forte soggettività poco o per nulla razionale, emotiva invece, onirica, ambiguamente riplasmatrice come in uno stato alterato di coscienza, una quieta allucinazione. Non è un caso che questa Parte Seconda sia introdotta da un’ampia citazione di Freud sul processo autoconservativo della malattia psichica (nevrosi-nevrotico ed espressioni sinonimiche e similari sono peraltro adoperate di continuo dall’io narrante per parlare di sé). L’esergo include anche una breve citazione di Pascal, che parte dalla domanda “Perché Dio non si mostra?”, a riprendere il tema della fede in Dio, emerso un paio di volte in alcuni dialoghi della Parte precedente. Più avanti, un’affermazione di Bruno collegherà di fatto i due eserghi: “La Chiesa di Roma abita a due passi dallo studio del dottor Freud”, p. 209. Le prime apparizioni che vanno incontro a Bruno sono quelle grottesche del Porco e del Verme che infine indirizzano Bruno al bistrot in cui avrebbe trovato tracce di Marcello. La loro presenza allude anche a una possibile esperienza (o curiosità) omosessuale di Marcello, che verrà ripresa per essere negata già nella lettera che Bruno scriverà a Roberta, ma anche in seguito, per rapidi, allusivi cenni. Anche al Râtelier, il bistrot di rue de la Huchette dove Marcello ha soggiornato una quindicina di giorni, le comparse sono immaginate in modo surreale (cul-de-jatte: la donna del bancone) o rappresentate in ogni caso mute come, nel corridoio, il giovanotto muscoloso che indossa solo una maglietta e la ragazza con la mano davanti alla bocca. I personaggi successivi invece parleranno con lui, anche a lungo. Se nei primi due incontri provocati dall’abbé Césaire Casanova – in un parco e poi, dall’ingresso dell’albergo di Bruno in giro nelle vie vicine – appaiono quasi gratuite la confidenza e la disponibilità mostrate dal protagonista, nei due successivi, che vedono invece Bruno recarsi di propria iniziativa al convento, ritorna la caratterizzazione onirica: deformante ed espressionistica (nel terzo incontro) oppure sospesa, pudica (nell’ultimo). La convinzione di Casanova di poter essere utile a Bruno, di formare con lui una coppia (non amorosa, né amica, nemica…) viene ripresa nel terzo colloquio, che assume anche un carattere metatestuale: “Un po’ di gente le si è messa alle costole da quando è arrivato a Parigi: anch’io, un prete impiccione […] Però bisognerebbe sempre stabilire […] se è tutta questa gente a correre dietro a lei o lei a loro”, p. 240. Le posture innaturali e la gestualità esasperata dell’abate, i colpetti sulla nuca, i lineamenti che si distorcono, l’ingrandirsi dei dettagli degli oggetti sono tutti effetti del punto di vista di Bruno. Che questi incontri del protagonista con l’abate malato di cuore riscrivano il suo incerto, irrisolto rapporto col padre (“la coppia” mai definita) lo confermerebbe, in chiusura della Parte Seconda, l’analogia tra lo sfrigolio e la luce azzurrina che arrivano dalla piccola stanza da dove porteranno via il corpo di Casanova e il cannello ossidrico che saldava la cassa di zinco in cui era stato deposto il padre.

Spiegazioni evasive

C’è pure Marcello fra la gente alle costole di Bruno, il quale, come Casanova, nei primi due incontri “viene trovato”. Il primo approccio, subìto a tarda sera, è narrato in una sequenza cinematografica aperta dal contrasto fra un angolo buio della strada – da dove giunge una voce che gli chiede da accendere – e la fiammella dell’accendino di Bruno che illumina il volto di Marcello. Proprio “come le persone amiche che vediamo in sogno, che riconosciamo benissimo eppure sono del tutto diverse”, p. 221, Marcello è lui, senza dubbio, ma dimagrito, trascurato, con un’eruzione cutanea in due punti del volto, che gli sorride amichevole, ma che, come avviene nei sogni, non risponde alle domande preoccupate di Bruno o lo fa in maniera evasiva o ambigua. Promette infine di spiegare ogni cosa il giorno dopo, e si allontana. Ma nemmeno il pomeriggio seguente cambia il tenore delle risposte, sfuggenti o generiche, di Marcello (“C’è dell’altro”), che mostra, peraltro, ulteriori segni di decadenza fisica: un dente mancante, le gengive scure… Negli incontri successivi Marcello, che appare via via più malconcio, prende tempo, non pare cambiare opinione, infine, incalzato da Bruno, acconsente a prendere il primo treno per Milano, senza bagagli, senza soldi: Bruno lo accompagna alla stazione e lo vede partire.

Intellettuali subalterni

La Parte Seconda riprende nella modalità soggettivo-onirica, attraverso lo sguardo di un borghese-intellettuale, alcuni temi enunciati, “rappresentati” nella Prima soprattutto attraverso i due momenti di gruppo o le conversazioni fra Bruno e il collega Salinari. In particolare, il secondo incontro fra Bruno e l’abate Casanova ritorna, quasi punto per punto, su quanto affiorato in precedenza, specialmente nel capitolo IV, fornendo uno sguardo interno (auto)critico, perplesso o di esplicito rifiuto dei valori egoistici e materialistici della società borghese del Miracolo Economico. Bruno si interroga sulla congruenza fra cristianesimo e valori borghesi, sulla posizione degli intellettuali riguardo alle storture e le atrocità del mondo, sull’indifferenza ai problemi della società come conseguenza della famiglia borghese tutta chiusa nel proprio mondo affettivo, sulla posizione subalterna, dipendente, riservata agli intellettuali e la conseguente rabbia nei confronti dei padroni… Alla fine del terzo incontro con Marcello, Bruno ripeterà sarcastico le parole del Consigliere della Sacra Ditta (“Questa è una grande famiglia”) contrapponendovi il “Familles, je vous hais” di Gide.

La felicità?

Pure gli incontri con Marcello si muovono nella stessa prospettiva, in chiave ancora più personale, soprattutto per quanto riguarda la passione borghese per l’ordine, qualunque ordine, fosse pure quello della macchina tritacarne. Immediatamente, o poco, prima di essere avvicinato da lui quella tarda sera, Bruno aveva camminato lungo la Chaussée d’Antin deserta, aveva corso, fischiato, cantato, riso, provando la gioia di essere sé stesso lì a Parigi, felice, fino a quando si era fermato un attimo per riprendere fiato e lì lo aveva raggiunto la voce di Marcello. Alla fine di quel primo incontro, al momento di lasciarlo, Marcello gli aveva bisbigliato “Sei mai stato felice?”. L’indomani per invitare Marcello a tornare, Bruno gli parla di Roberta, ma lui si oppone ostinatamente, “Ti dico che c’è dell’altro” e, fra i segni inquietanti della decadenza fisica, le sue labbra, gonfie invece di umore ed energie, alla fine articolano “Tu, Bruno, la chiameresti magari felicità”, 225. La felicità, per entrambi, è tutt’uno con l’essere a Parigi (una condizione di pienezza esistenziale più che un luogo fisico), legata a un senso di libertà che finisce quasi per coincidere con la solitudine o in ogni caso priva di quei legami-obblighi-convenzioni che impone la vita borghese, elencati peraltro minutamente da Marcello, a pp. 266-67, che conclude sconfortato: “mi ci rivedi dentro? […] Io me ne torno a Milano, la mattina mi guardo nello specchio per farmi la barba e non vedo un bel niente. […] Tanti pezzetti di vita e così poca vita!”. La vita, idealizzata in gioventù, del suo doppio, non nevrotico sé stesso, in piena sintonia con l’esistenza, si è arenata sulle convenzioni e le regole ferree dei valori borghesi sui quali si era forzatamente avviata, conducendo Marcello allo stesso esito di insoddisfazione del nevrotico Bruno. Quando il narratore-protagonista si chiede perché dovremmo essere felici, ci riporta al capitolo iniziale della Parte Prima, dove aveva posto la stessa domanda ad una delle invitate alla festa mentre stava dicendo: “…ma alla fine bisogna pure pensare ai propri interessi: quando uno ha una bella casa, dei figli, una macchina, qualcosa da parte può dirsi felice, a questi chiari di luna”, p. 39.

Un’identificazione-sovrapposizione

Uscite di scena la riscrittura paterna dell’abate Casanova (dentro una bara) e messa su un treno per Milano quella del doppio virtuale, si apre la Parte Terza (ennesima) A Milano, ancora, in cui si torna allo sguardo realista, iniziando perfino col milanese delle portinaie. Dalla madre di Roberta, al telefono non sappiamo con chi, apprendiamo che Marcello non è mai arrivato a Milano, che Bruno ha commesso l’errore imperdonabile di lasciarlo andare da solo e di riferirle per di più che Marcello non era scomparso, ma era scappato dalla sua casa, dalla sua famiglia… L’ultima scena vede per strada a Milano la Gianna, Bruno, l’amico Franco con la moglie Alma: parlano del rientro del protagonista, del fatto che adesso toccherà al suocero cercare Marcello, sceso dal treno chissà dove, mentre Bruno ammette soddisfatto che sapeva benissimo che Marcello non si sarebbe lasciato rispedire a casa. Imboccando un braccio del Foro Bonaparte che si curva ad anello, come per un salto temporale rimangono solo Bruno e Franco a passeggiare: la loro intesa può fare a meno di parole, e i pensieri di Bruno sulla giovinezza e la maturità si alternano alla descrizione del paesaggio urbano. Nonostante i dialoghi confermino ciò che effettivamente Bruno ha raccontato nella Parte Seconda (essere andato a Parigi, avere trovato, convinto e infine accompagnato Marcello a prendere il treno per Milano), giungono qui, a p. 281, anzi ritornano i fotogrammi di un episodio già letto: “La porta a vetri di una latteria, all’altezza di via Anfiteatro non aveva ancora finito di oscillare da quando (la volta passata?) il giovanotto alto ha spinto dentro amorevolmente la ragazza, dicendole: «Adesso vai a mangiare» […]. Le forme si ripetevano secondo ciclo vichiano”, considera infine la voce narrante. Una vetrina per un istante riflette quasi sovrapposte le immagini di Franco e di Bruno, in un altro procedimento di identificazione, esplicitato come tale dalla voce narrante; un’identificazione-sovrapposizione tuttavia serena, matura stavolta, con l’adulto in pace con sé stesso, col proprio ruolo di amico, di marito, di padre… Poi, le righe finali rimescolano tutto.

Infischiarsene della logica tradizionale

Le forme che si ripetono, già a p. 150, in una specie di ciclo vichiano (ma non solo loro) svincolano senza esitazioni il testo dai presupposti del romanzo sperimentale di matrice positivistica, inclusa l’appendice tardiva del Neorealismo, cercando forme di narrazione in grado di porsi come strumento di indagine e di conoscenza di un presente molto diverso dalla realtà pre- e post-bellica. Il nuovo romanzo così riprende e sviluppa gli strumenti gnoseologici lasciati dalle opere di Proust, di Joyce, di Pirandello, di Svevo… (e, in altre modalità testuali, di Freud) che hanno sancito l’impossibilità di una conoscenza “scientifica”, in qualche modo sempre condizionata dalle esperienze interiori dell’osservatore. E ciò ha inciso anche nella forma del romanzo: “Se invece provassimo a immaginare che il romanzo non ha direzione ma polarità? gangli, plessi come il sistema nervoso, mica disposti però avanti o indietro o in generale secondo la geometria euclidea? Leggi non meno libere e ineluttabili di quelle di gravitazione comandano l’addensarsi dell’attenzione e dunque della scrittura secondo alternanze, ricorrenze, cicli, intorno a questi centri: per esempio, l’idea paterna. E la logica tradizionale della narrazione? on s’en fiche pas mal”, scrive la voce narrante, p. 184, parlando ovviamente anche del romanzo che leggiamo. Infischiarsene della logica tradizionale della narrazione porta come inevitabili corollari le frequenti digressioni, le note a piè di pagina, i flussi di coscienza (le tre sezioni più a rischio di una compiaciuta cripticità), lo scompiglio dell’ordine cronologico o i salti temporali – ora evidenti, talvolta dissimulati – o, appunto, le varianti-ripetizioni secondo ciclo vichiano, e le citazioni, gli ammicchi, i rimandi prevalentemente letterari, ma anche filosofici, scientifici o religiosi, fittissimi. Su tutto domina incontrastata l’ombra di Proust: scrittore, opera, luoghi, personaggi, episodi, sono di continuo citati, a partire dal titolo, quasi ostentati fin dalle prime pagine, oggetto di un autentico culto che nella Parte Seconda, capitolo II, si focalizza su la méthode o techne proustiana, facendone il principio di strutturazione del romanzo che Bruno sta scrivendo.

Occhio alle date

Un romanzo che non può che registrare variazioni dello “stesso ricordo” per il fatto che va cambiando il momento (quindi l’esperienza esterna e interiore del soggetto) in cui quel ricordo (ri)emerge e viene pensato e, tanto più, scritto. L’ordine cronologico, reale dei fatti raramente quindi coincide con l’ordine in cui li racconta l’autore e li legge il lettore. È la ragione per cui, col senno di poi, per attutire lo smarrimento nel labirinto cronologico edificato dall’autore, è opportuno prestare grande attenzione alle date in cui l’autore afferma di stare scrivendo. La prima data è il 1961, l’ultima l’8 gennaio 1967, che tuttavia con le altre date non compongono una cronologia ordinata e lineare. Ma anche la paramnesia di Bruno e Roberta a Versailles nel capitolo V della Parte prima ritorna (o forse, al contrario, è anticipata) nel capitolo V della Parte Seconda: ampliata, estesa, ricca di dettagli, inglobando parte del sogno seguente. Il breve episodio della latteria riportato sopra, era già apparso due volte, con differenze minimali, nella Parte Prima: nel capitolo II, a p. 59, e nel capitolo V, a p. 151. Il narratore, a p. 59, però aveva aggiunto: “Sebbene fossero passati solo un paio d’anni da quella sera, non era affatto certo di riconoscere la latteria”, e il lettore che ritrova la stessa scena quasi cento pagine dopo, a meno che non sia fornito di straordinarie capacità mnemoniche e di attenzione, di primo acchito dà per scontato di trovarsi davanti alla ripetizione (o al ricordo) di un evento, anziché correttamente retrodatarla e riposizionarla nella linea del tempo. Ma è tutta l’ampia, fluida sequenza della passeggiata, in cui sono incastonati i fotogrammi della latteria, a sottostare alle caratteristiche di variazione e (forse) di riposizionamento cronologico. L’episodio, fra l’altro, colpisce anche per le riflessioni ‘da scrittore’ che vi fa il protagonista: è curioso che la storia privata umile ma sicura, nucleo del vero romanzo di Milano, virtuale alternativa manzoniana ai potenti del Marcel ritrovato, si trovi insieme a un ammicco a L’Adalgisa di Gadda, citato obliquamente, en passant nella stessa sequenza della passeggiata, col sintagma macellerie gaddiane, alle pp. 151 e 282. 

Le incursioni dell’autore

Oltre che per quanto scritto finora, Marcel ritrovato è un romanzo fieramente sperimentale (nell’accezione neo-avanguardistica dell’aggettivo) anche nel suo costruirsi come metaromanzo, con le sintetiche incursioni dell’autore che si inseriscono nel corpo del testo a commentarlo o a criticarlo, come un a parte teatrale, ritagliandosi uno spazio maggiore nelle note a piè di pagina e poi sempre più all’interno del testo nella Parte seconda, ad esempio nel capitolo III, dove si parla polemicamente di morte (o di insostenibilità) del romanzo in un PROCLAMA DELL’AUTORE di esemplare chiarezza sul tema e sull’opera in corso. Sono del resto gli anni in cui lo statuto del romanzo come canonico genere narrativo viene messo in crisi, sollecitato anche dai dibattiti sul Nouveau Roman e l’école du regard in Francia, come rileva Sinigaglia. Alla fine, mantenendo la sospensione dell’incredulità che ci permette di restare all’interno della finzione, Marcel ritrovato può essere letto anche come un atto di riparazione dell’Autore-Personaggio per sanare la ferita di quel giudizio negativo sul suo primo romanzo, offrendo al padre l’opera in cui ha raggiunto in maniera personale e compiuta i pregi e le finezze della Recherche al posto delle povere e sbiadite reminiscenze di allora.

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