Immaginate che questo articolo cominci così, auto-definendosi in questo modo: qst [è] n rtcl.

Sono certo che la stragrande maggioranza di voi, abituata ormai all’essenzialismo consonantico dei codici fiscali, leggerebbe facilmente: questo è un articolo. Evidentemente sì. Ma sarebbe l’unica interpretazione possibile? Qualcuno potrebbe leggere infatti: questo è un reticolo! Un intreccio, una rete di possibilità.

Ho fatto questo esempio per italianizzare un fenomeno tipicamente semitico dove, data l’assenza di vocali scritte, queste vanno aggiunte di volta in volta, facendo sì che le cosiddette radicali di una parola, vocalizzate in modi diversi, possano generare più parole e non solo una.

Un esempio: una frase come h prs l bttgl potrebbe essere letta in modo diverso da un distratto ubriacone (ho perso la bottiglia!) o da un soddisfatto generale (hai perso la battaglia!).

Ma torniamo al primo esempio: reticolo; perché è proprio di questo che stiamo parlando quando abbiamo a che fare con La via delle api, scritto da Haim Ben-Abraham e pubblicato da Giuntina (185 pagine, 18 euro). E gli esempi sinora fatti non erano solo dei simpatici giochini, ma servivano a farci entrare in modo diretto all’interno di questo titolo che, apparentemente, potrebbe non aver nulla a che fare con un sottotitolo dove, invece, ci viene ricordato il contenuto del testo: Lettura, scrittura, midrash.

Le api in questione non sono altro che parole o, per meglio dire, sarebbe il contrario: le parole, in fondo, non sono altro che api: tracciano un infinito reticolo di percorsi, di voli incrociati, si posano di fiore in fiore spargendo polline di qua e di là, facendo sì che quello stesso mondo che le nutre possa continuare a moltiplicarsi grazie al loro operoso contributo; e alla fine, quando dal nettare viene fuori il loro miele, questo porterà la dolcezza di una Parola fatta di infinite parole, di incalcolabili possibilità interpretative, tante quanti sono gli uomini sulla terra.

Ma come si arriva dalle parole alle api?

Prima che Israele entri nella Terra promessa, Mosè pronunzia i suoi discorsi, consegnando un vero e proprio metodo, e dunque qualcosa in più di un semplice testamento spirituale. Il libro del Deuteronomio comincia proprio così: Elle ha devarimQueste sono le parole… E poiché in ebraico parole si dice devarim, ma senza vocali si scrive dvrm, chi legge può vocalizzare dvorim (che non significa parole) e ricavarne: Queste sono le api.

Un errore? Niente affatto

Perché è proprio attraverso queste impensabili sostituzioni che la semantica dell’interpretazione prende forza, e ognuna delle possibili letture amplia il senso delle altre, facendo sì che quel testo risulti inesauribile, proprio come Dio.

È chiaro dunque che, se quel dvrm può essere letto come parole e come api, i due concetti devono essere messi in relazione tra di loro e, da quel momento in poi, le parole possono essere considerate come capaci di creare traiettorie insospettabili, volare attraverso illimitate intersezioni di senso, e produrre infine una dolcezza sempre nuova: le parole, come le api, fecondano ogni possibilità, e ripresentano l’eterno miracolo di una Torah che, impollinata dalle interpretazioni, è sempre generatrice di vita, in un processo infinito.

Un libro come un meta-midrash

Haim Ben-Abraham dedica a tutto ciò (e a molto, molto di più) un testo meravigliosamente scritto, non solo nell’intento di divulgare una tradizione sapienziale e religiosa antichissima, ma anche nella forma che lui sceglie per farlo: una forma che concretizzi l’intento, che lo renda immediatamente visibile, e che mostri e ripresenti ciò che racconta.

Esattamente come in un episodio riportato all’interno del testo, dove si racconta lo stupore del rabbi Akiva nell’osservare ciò che accade a Ben Azzai mentre questi medita la Torah, anche chi legge il libro di Haim Ben-Abraham percepisce qualcosa di simile: vi è un modo di spiegare il midrash che è midrash esso stesso. Non occorre essere esperti del genere letterario, perché non è di un genere letterario che si parla, ma di un metodo che è soprattutto un atteggiamento. L’atteggiamento di chi, interrogando una parola, si lascia interrogare; di chi, indicando un particolare cammino, si apre alla possibilità di percorrerne molti di più. Di chi, insomma, non medita solipsisticamente il significato di una parola, ma la trasforma in relazione, in discorso.

L’impaginazione grafica di questo libro esprime esattamente tutto questo: realizza ciò che significa. Tre precisi percorsi di senso si intrecciano in un’unica lettura, dove ogni direzione rimane potenzialmente sospesa, in bilico tra le altre due, ad indicare uno spazio di significato che – a seconda di come un lettore decida di procedere – può rimanere parallelo agli altri o intrecciarvisi: non vi è, per così dire, una direzione forzata ma una triplice potenzialità di sviluppo che, partendo da certi riferimenti alla Legge o al Talmud, può dipanarsi ulteriormente in ulteriori approfondimenti i quali, travestendosi a loro volta da apparato critico (ma è un travestimento che dura poco), riescono a trovare una collocazione decisamente superiore a quella di una semplice sequenza di note a piè di pagina. Un po’ come nel gioco di quegli specchi messi l’uno davanti all’altro, le pagine sembrano moltiplicare la loro profondità quasi ad ogni capoverso; dove persino ogni semplice punto e a capo, oppure ogni ultima parola di una pagina, prima che ne cominci un’altra, intersecandosi abilmente ad altrettante sezioni parallele che ne costituiscono i relativi approfondimenti, pur rimanendone autonome, non sembrano casuali neanche nei primi due minuti di lettura del libro.

Nulla di casuale, dunque, seppure lasciato nella forma di una materia eterogenea di testo disponibile a lasciarsi ordinare dalla permutazione di ogni possibile lettura.

La personale suggestione è quella di un caos di parole che diventano una cosa sola, e non per un gioco del caso

Insomma, una riproduzione in miniatura del caleidoscopio della creazione, dove il tutto viene rimescolato nella separazione primigenia dei suoi elementi, che altro non desiderano se non di entrare in relazione con gli altri e poterne generare di nuovi.

Sarebbe stato stupendo assistere al lavoro di impaginazione, dove persino le soluzioni venute fuori dalla comune fatica di autore, editor e grafico saranno somigliate – ci scommetto! – ad una classica diatriba tra maestri sull’interpretazione di un passo. Ed è suggestivo già solo il pensiero di quanto tutto ciò, e cioè questa stessa scommessa di rendere originalissima e rischiosa una tale risultante grafica del testo, abbia appassionato chi l’ha scritto.

Ci si sente coinvolti, dall’autore, in un passo di danza che, fin dalle prime pagine, ci fa dire: Non so ballare. Ma chi, alla fine, non gradirà il ritmo e la musica? In tal senso, un libro come questo appartiene squisitamente al novero di quei testi che, divulgando un particolare oggetto (che qui è spirituale e letterario), pur non sperando a prescindere di trasformare ogni lettore in un esperto di questo oggetto, allo stesso tempo non disperano di poterlo appassionare.

Esperienza e passione sono concetti che bazzicano la stessa casa, ma ciascuno dei due cammina in modi diversi e procede secondo i propri tempi. Haim Ben-Abraham, che del midrash ha fatto la sua vita, è senz’altro un esperto: ma crede nella possibilità che altri possano appassionarsi a ciò che, magari, non conoscono o non comprendono come lui. E credere in questo non è affatto una riduzione! Anzi…

Per citare un’immagine stessa usata in questo testo dall’autore, anche un libro come La via delle api funziona come un cono rovesciato: parte da una base ampia di esperienza che, andando verso il basso, restringe la propria ricchezza fino al vertice di 185 pagine. Una ricchezza ristretta ma non ridotta nella sua essenza; una ricchezza preziosa, ritiratasi nello spazio di poche pagine per permettere l’esistenza di quei lettori che, un po’ per volta, cominciano a respirare: prima attenzione, poi stupore, e poi passione.

E se così funziona già questo libro, figuriamoci la Torah!

Elementi di sapienza

Certe espressioni fondamentali, solidi pilastri di una tradizione plurimillenaria, ci danno il senso di quelle coordinate che sono come i confini di quel giardino dove le api volano; come ad esempio il fatto che nella Torah nulla è inutile, neanche una ripetizione, neanche una semplice lettera, poiché ognuno di quei costituenti (e tra questi anche il silenzio!) è fondamentale alla sussistenza di questa materia originaria attraverso cui Dio ha creato il mondo e si rivela; e dove, tuttavia, anche nelle sue parti più invisibili, gli atomi della Torah tutto sono fuorché indivisibili; al contrario, ogni singola lettera chiede di essere indagata, di essere passata al vaglio di una lettura e di una interpretazione che sappia riconoscere la possibilità di particelle ancora più piccole eppure necessarie! Non mancano gli esempi; anzi, i midrashim sono proprio quelle realizzazioni che – attraverso immagini di potente eloquenza – ci rendono comprensibilissimo il principio invisibile: le tavole cadute dalle mani di Mosè; quella pietra ridotta in frammenti minuscoli, in granelli di polvere così piccoli e numerosi che – appunto – vanno ripresi uno ad uno perché dal molteplice si possa risalire all’Uno.

Interrogare e interpretare

L’atteggiamento midrashico, il modus vivendi esistenzialmente legato al metodo del midrash, appare in questo libro come un inno al molteplice, un complimento di bellezza alla variopinta veste di cui l’Uno ama coprirsi agli occhi degli uomini; si svela, potremmo dire, rimanendo coperto; mostra il suo segreto solo nella molteplicità di quei colori che sono come le interpretazioni, come gli infiniti voli delle api.

Ed è quello stesso drammatico interrogativo rivolto a Dio da Rebecca, a proposito del perché i suoi figli combattano dentro di lei, a svelarci come nel ventre di questo stesso interrogativo (come in un gioco gravidanze concentriche) sia custodito il segreto di ogni midrash! Rebecca interroga Chi è più grande di lei su ciò che è custodito dentro di lei: ed è lo stesso atteggiamento di chi interroga la Torah, di chi non cerca le soluzioni e le risposte dentro la Legge ma, attraverso la Legge, dentro sé stesso. Cambia completamente la prospettiva: la Torah smette d’essere considerata il contenitore di tutte le soluzioni per interpretare il mondo, e diventa un mondo da interpretare attraverso le tue soluzioni.

È propriamente in questo che il midrash si innalza al ruolo di strumento pedagogico, ricordandoci che la Scrittura non è testo di facili risposte, magari già comodamente preconfezionate da altri; ma fucina di domande che, semmai, possono complicare la situazione fino a convincerci che, alla fine, siamo noi a dover rispondere. Ma ci fornisce senz’altro, allo stesso tempo, gli indizi necessari, gli spunti adatti a saper interrogare quell’interrogabile che, dentro di noi, aspetta d’essere interpretato, con il coraggio di quel molteplice di cui forse l’umano è la più drammatica rappresentazione; ma anche ripresentazione, immagine e somiglianza dell’Uno.

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