Il primo Thomas Bernhard, resoconto incompleto del dolore

Ciò che è incomprensibile, triste, solitario e folle fa capolino in “Gelo”, opera prima di Thomas Bernhard. Uno studente di Medicina è incaricato da un professore di osservare, scrivendone un rapporto, la vita e i comportamenti del fratello, un ex pittore che ha lasciato la città per ritirarsi in un isolato borgo montano. Un libro che non ha ancora tutte le stimmate della produzione maggiore di Bernhard, ma ne contiene abbondantemente alcuni motivi, con sintassi arzigogolata e un monologo monocorde, che sembra girare a vuoto però sa essere visionario e poetico

Il pittore dice che tutto è incomprensibile perché è umano, e che il mondo è disumano, dunque tutto è comprensibile e tutto è tristezza infinita. Tristezzainfinita, lo dice come se fosse una parola sola.

La parola “incomprensibile” ricorrere diciassette volte nel primo libro pubblicato da Thomas Bernhard. Volume che è un corpo a corpo con una lunga, incontrollabile, infinita proposizione. Chi non ha provato questa sensazione leggendo i libri di Thomas Bernhard? Quella prosa esatta e allo stesso tempo ridondante che mira a esondare dalle pagine e a restare impressa nei pensieri di chi legge, e che ha già nel Dna gran parte dello stile di Bernhard, stile che tantissimi hanno provato a imitare (e sono riusciti a imitarlo, in modo sterile) e pochissimi eletti a interpretare criticamente e personalmente, come in Italia, ad esempio, Vitaliano Trevisan.

… e l’Austria si stropicciò gli occhi

Adelphi continua con uno dei suoi must, la pubblicazione dei libri di Thomas Bernhard, che appaiono sempre più imprescindibili per definire e rafforzare le idee e il catalogo della casa “orfana” di Roberto Calasso, un po’ come accade con i titoli di Borges, Simenon, Sciascia, Jackson, Bolaño, Kundera, autori feticcio che ormai sono un tutt’uno con Adelphi, reciprocamente identificati. Ed ecco che il 2024 si apre all’insegna di Gelo (356 pagine, 20 euro), esordio del maestro austriaco, in cui allora come nel resto della produzione, sono minimi ed essenziali i fatti narrati, le pagine possono sembrare inospitali come i luoghi ritratti, e la vita è configurata all’interno di un recinto di dolore e menzogna. Sessantuno anni fa, nel 1963 Bernhard debuttò con un incipit così, con una voce che apparve in fretta come un “unicum”, e in Austria iniziarono subito a stropicciarsi gli occhi:

La pratica d’ospedale non sta solo nell’assistere a complicate operazioni intestinali, nell’incidere peritonei, nel pinzare lobi polmonari, nell’amputare piedi, non sta davvero soltanto nel chiudere gli occhi ai morti o nel tirar fuori bambini per farli venire al mondo. La pratica d’ospedale non è soltanto questo: buttare con noncuranza nel secchio smaltato gambe e braccia intere o tagliate a metà. Non sta nel continuare a correr dietro come un cretino al primario e all’assistente e all’assistente dell’assistente, far parte del codazzo durante le visite. Né può consistere solo nel nascondere la verità ai pazienti e nemmeno nel dire: « Il pus naturalmente si scioglierà nel sangue e lei sarà completamente guarito». O in centinaia d’altre simili fandonie. Nel dire: «Andrà tutto bene! » – quando non c’è più nulla che possa andar bene. La pratica d’ospedale non serve soltanto a imparare a incidere e a ricucire, a far fasciature e a tener duro. La pratica d’ospedale deve anche fare i conti con realtà e possibilità extracorporee. Il compito che mi è stato affidato di osservare il pittore Strauch mi costringe a occuparmi di questo tipo di realtà e di possibilità. A esplorare qualcosa d’inesplorabile.

Tra ricordi, ipocondria e invettive

Adelphi ripropone la storica traduzione di Magda Olivetti, già pubblicata nella precedente edizione Einaudi, rivista da Marina Pugliano. Cupa e poetica, indispensabile, quest’opera prima dalla sintassi arzigogolata, in cui si mescolano discorso diretto e indiretto, non è totalmente carica di ossessioni come quelle della maturità e riesce, se possibile, a non avere quel filo di nera ironia che attraversa il resto della produzione di Thomas Bernhard. Per il resto, però, è puro Bernhard, scritto peraltro in circa sei settimane. L’autore, parecchi anni dopo la pubblicazione, osservò: «È scritto, volutamente, in modo tale che fra cento anni si potrà ancora leggerlo, perché la sua lingua, così com’è, non può assolutamente invecchiare». Senza racconto, senza dialoghi, un monologo monocorde, che sembra girare a vuoto però sa essere visionario e poetico, una spigolosa prosa esasperante, ripetitiva, di grande tensione nervosa, senza troppe tregue, senza troppo fiato da tirare. Spesso è dissonante, delirante, figlia di protagonisti inquieti, come i due principali che compaiono in Gelo. Soprattutto il pittore Strauch («la ragione e il cuore se ne erano andati da lui, scacciati e relegati lontano»), tra ricordi, ipocondria e invettive, delirante e lucido al tempo stesso, che alloggia in una locanda. È lui, con i suoi frammenti e germi di follia, che deve osservare, per tirar fuori una sorta di rapporto, un giovane specializzando di Medicina, su input di un professore, che di Strauch è fratello. Pochissimi elementi, quasi un pretesto.

Solitudine e fallimento

Gli “attori” di Thomas Bernhard si muovono a Weng, un isolato paesino montano, borgo popolato da figure pressoché squallide, dove il clima è freddissimo e il cielo è plumbeo. Lì si è autoesiliato il pittore, che ha lasciato la città, bruciato i suoi dipinti e sente prossima la propria fine («Io ora aspetto la fine, sa? Così come anche Lei aspetta la Sua fine. Come tutti aspettano la propria fine»); guarda a tutto e a tutti con disincanto: ostile agli individui abietti e all’ambiente che sono attorno a lui, poche case, una locanda, un bosco, una centrale elettrica in costruzione. È un viaggio al termine del dolore e della solitudine, quello che compie il lettore di Gelo. Tirato dentro i meccanismi narrativi, sfinito ma imprigionato come lo studente, che quasi raddoppia la permanenza a Weng, pur registrando un sostanziale fallimento del suo metodo di lavoro, della missione che gli era stata affidata, incapace di andare oltre un «resoconto incompleto», di registrare e spiegare quello che ha osservato nel pittore. Follia? Ma forse più dell’uomo, più di quell’uomo è folle la vita, il tempo in cui è immersa.

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