Dacia Maraini: “La guerra non ha insegnato nulla, che dolore”

I ricordi di due anni trascorsi in un campo di prigionia giapponese, quando era una bimba. Una riflessione acuta sul potere distruttivo della guerra e sulla genesi dei fascismi. Sono i temi di “Vita mia”, nuovo volume autobiografico di Dacia Maraini, che abbiamo videointervistato e che dice: “Spira aria di guerra, la mia è una testimonianza”

Nessun dubbio che sia la più prolifica, giovane e libera delle scrittrici italiane, oltre a essere una delle più tradotte e note all’estero. L’immarcescibile Dacia Maraini è tornata in libreria con il volume autobiografico Vita mia (ne abbiamo scritto qui), per la casa editrice Rizzoli. Un libro doloroso, in cui racconta i due anni che, bambina, visse in un campo di prigionia in Giappone, con i genitori e le sorelle, un periodo di disperazione e privazioni, che ha segnato la sua esistenza, e che precedette il ritorno in Italia, anzi in Sicilia, a Bagheria.

«Ho cominciato a scrivere questo libro molti anni fa – chiarisce Dacia Maraini – e in questo momento in cui tira aria di guerra e c’è una minaccia di guerra mondiale, ho pensato che fosse il caso di finirlo e stamparlo, per dare una testimonianza». Non fa nulla per mascherare i propri sentimenti, anzi. «Sono molto inquieta, angosciata, anche sorpresa – aggiunge – non mi aspettavo che si tornasse indietro. Sembra che la memoria sia andata completamente perduta e che si debba ricominciare daccapo. Non me l’aspettavo, pensavo che dopo le esperienze terribili della seconda guerra mondiale ci fosse consapevolezza dei pericoli, sembra invece che gli esseri umani dimentichino».

Dopo l’8 settembre, come pochi italiani in Giappone, i genitori delle sorelle Maraini, Fosco Maraini e Topazia Alliata, rifiutarono di giurare fedeltà alla repubblica di Salò. «Loro sono stati due guide – osserva Dacia Maraini (qui un’altra sua intervista) – mi hanno insegnato che l’idealismo è troppo facile quando non si rischia niente. A quel tempo in Giappone c’erano tremila italiani e solo una trentina, una quarantina non firmarono. Era abbastanza triste, cinicamente avranno pensato che si trattasse di una formalità, in quelle occasioni mantenere la fedeltà alle proprie idee è un fatto politico importante, una presa di coscienza e di posizione, un po’ come hanno fatto i partigiani…».

Qui la videointervista integrale, buona visione

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