Prigionia di una bimba, il Giappone amaro di Dacia Maraini

Con una scrittura priva di enfasi e ridondanze, in “Vita mia” Dacia Maraini rievoca la tragica reclusione in un campo di prigionia giapponese, un’esperienza vissuta da bimba con i genitori e le sorelle. Un modo per fare i conti col passato personale e della Storia, ma anche per una dolente riflessione su campi di concentramento e fascismo…

Una bambina e basta? No. Una piccola di sette anni che vede attorno a sé gente che si prepara alla morte, morte vista da alcuni come una liberazione, per aver vissuto indicibili stenti. Una bimba denutrita, che si ostina a mangiare formiche per placare i morsi della fame, sino a sentirsi male. Una bambina autoritratta in una situazione estrema, circondata da familiari che sono eccellenti esseri umani e riescono in qualche modo a proteggerla. Non c’è età anagrafica che tenga, Dacia Maraini è la più vitale degli autori della letteratura italiana contemporanea. Leviga frasi, disdegna l’ipocrisia e in modo perentorio avvolge il lettore, lo porta con sé, con idee cristalline e perentorie, di chiara interpretazione. A distanza di più di vent’anni Dacia Maraini torna a scrivere di Giappone. La prima volta era stata con La nave per Kobe, libro che si concentrava sul rapporto con i genitori, in particolare con la madre Topazia Alliata (ai cui diari aveva attinto…), e sui primi anni vissuti in Giappone, al seguito della famiglia e soprattutto del padre, l’antropologo ed etnologo Fosco Maraini. Adesso è la volta di Vita mia (223 pagine, 18 euro).

No alla Repubblica di Salò

Pubblicato dal suo storico editore, Rizzoli, anche questo suo ultimo libro affonda le radici nel non breve soggiorno nipponico: l’attenzione è però puntata sugli ultimi anni trascorsi nel Paese del Sol Levante, gli anni di reclusione in un campo di prigionia nei pressi di Nagoya; i genitori erano accusati di tradimento, perché si erano rifiutati di giurare fedeltà alla Repubblica di Salò – alleata del governo giapponese – un’adesione assolutamente inconcepibile e inconciliabile con le idee di Topazia e Fosco. Fu un’infanzia di resistenza e di guerra per Dacia Maraini e le sue sorelle minori, Yuki e Toni. È certamente un volume autobiografico, con taglio memorialistico e narrativo, ma riesce anche a essere una dolente riflessione sulla Storia degli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, sulla macchina della morte dei lager nazisti, sulle radici del fascismo, di quello giapponese soprattutto, ma non solo.

La cosa che mi allarma è ritrovare molti ingredienti di allora nella ondivaga Storia di oggi.

Inutili crudeltà e provocazioni

Le pagine saggistiche, comunque, non spezzano il ritmo e l’andamento implacabile delle testimonianza di una bambina allora inconsapevole dei guai del mondo. Per imbastire Vita mia Dacia Maraini non ha esitato ad attingere ai ricordi della madre, a scritti della sorella Toni e del padre. Dopo l’8 settembre 1943, quando con la sua famiglia fu imprigionata, la futura scrittrice aveva appena sette anni («Mi consideravo una piccola giapponese»). La madre Topazia si rifiutò di affidare le sue tre figlie a un orfanotrofio, che qualche tempo dopo sarebbe stato distrutto dalle bombe nemiche, seppellendo al suo interno tanti bimbi. Anche le piccole, come tutti i “traditori” e “dissidenti” reclusi nel campo, dovette fare i conti con fame, privazioni, malattie (il beri-beri, lo scorbuto), provocazioni, inutili crudeltà e violenze. Perfino adagiarsi sull’erba era proibito e il cibo era sempre scarsissimo, anche perché alcune guardie rubavano le derrate alimentari destinate ai prigionieri.

Parola e coraggio contro ogni violenza

Senza enfasi e ridondanze, con una scrittura assolutamente asciutta Dacia Maraini rivive l’inferno personale da cui sarebbe uscita solo all’età di nove anni – dopo le bombe di Hiroshima e Nagasaki – ma che si è portata addosso per tutta la vita. Per contrastare il dolore, le umiliazioni, e per riaffermare diritti e libertà in quel piccolo universo dove erano negati, la giovanissima Dacia Maraini e i suoi familiari si affidarono, in qualche modo, alla forza della parola e del confronto, del coraggio e dell’umanità. Seppero sempre così, anche nei momenti più disperati, da che parte stare. Contro ogni guerra e violenza, contro sopraffazione e razzismo.

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