Irene Nemirovsky, la dolce vita e la morte incombente

Le “Lettere di una vita” di Irene Nemirovsky restituiscono una vita tumultuosa e tragica, quella della scrittrice russa che visse in Francia e scrisse in francese, prima d’essere travolta dall’occupazione nazista e di morire ad Auschwitz. I racconti di una gioventù spensierata cedono il passo alla quotidianità di una scrittrice di successo e, infine, ai dolori di un’artista braccata in quanto ebrea (anche se convertita al cattolicesimo)

Come A day in the life dei Beatles (mi sono preso d’invidia dell’attacco di questo articolo), la perfetta concatenazione di due brani che per testo, musica, ispirazione e realizzazione sono molto diverse, praticamente, opposte, eppure insieme danno vita a un mix inestimabile, inimitabile. Così è l’epistolario, dal 1913 al 1945, di Irene Nemirovsky, in cui si legge di una gioventù dorata e di una maturità vissuta nell’incertezza e nell’imminenza di una tragedia che si sarebbe consumata. Due pezzi di vita contrapposti, un’esistenza tumultuosa e piena, disinvolta e coraggiosa di una protagonista del Novecento letterario francese. Ragazza benestante, letterata affermata, ebrea, sebbene convertita al cattolicesimo, perseguitata e, infine, condannata a morte, nel tritacarne del nazismo. Le sue lettere costituiscono una sorta di romanzo con tanti imprevedibili saliscendi dell’anima.

Spensieratezza e scrittura

Vittima della Shoah, l’autrice del capolavoro Suite francese (pubblicato postumo, decenni dopo la sua morte per tifo ad Auschwitz), nata a Kiev, in fuga dalla rivoluzione d’ottobre e stabilitasi in Francia, era figlia di una facoltosa alto borghese famiglia russa. Di studi alla Sorbona, feste, vacanze, infatuazioni, vestiti, stazioni termali, località balneari, scrive nella prima sezione, “Spensieratezza” di Lettere di una vita (460 pagine, 24 euro), volume curato da Olivier Philipponnat e tradotto da Laura Frasin Guarino per Adelphi: 476 lettere, comprese alcune scritte dal marito e dagli amici, che si chiedono del suo destino, dopo la sua deportazione e, in appendice, qualche stralcio d’intervista restituiscono un ritratto esaustivo della donna oltre che dell’artista Messe da parte le serate in teatro e le schiere dei corteggiatori, la ragazza Irene diventa moglie e, piuttosto rapidamente, scrittrice di successo: non sono finiti ancora gli anni Venti, lei non ne ha nemmeno trenta, e il suo romanzo David Golder… sbanca. La quotidianità è stravolta, Irene Nemirovsky diventa sempre più prolifica, i destinatari delle sue lettere sono mentori, editori (cruciale Albin Michel che, con uno stratagemma, le farà avere un mensile quando lei non potrà più pubblicare e il marito sarà licenziato) o colleghi scrittori, presso i quali raccoglie consensi trasversali, o chi scrive dei suoi libri.

Luci sfavillanti, poi fioche

Negli anni Trenta certe luci sfavillanti diventano sempre più fioche. Dalle lettere di Irene Nemirovsky vengono a galla i problemi economici, il mai esaudito desiderio di ottenere la nazionalità francese, di avere una patria, le ripetute accuse di antisemitismo, la malattia del marito Michel Epstein, la fuga in Borgogna che non la salverà dall’orrore del lager, la lenta implacabile consapevolezza che alcune delle cose che scrive non vedranno la luce quando lei sarà in vita. Le lettere di questo volume sono documenti vivissimi, c’è l’avidità della lettrice onnivora, la praticità dell’autrice che vuole essere saldata da chi pubblica le sue opere di successo, la madre che – riuscendoci – fa di tutto per salvare le sue due figlie, Denise ed Elisabeth, la donna fragile, implacabilmente travolta dall’occupazione tedesca della Francia e dalle leggi contro gli ebrei, la celebrità che affonda, con sgomento, in un incubo.

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