Area 22. Tamar Weiss Gabbay e il deserto (anche interiore)

Una donna fuori dagli schemi, un’eroina e condottiera alle prese con una missione solo apparentemente meteorologica. È la protagonista del romanzo di Tamar Weiss Gabbay, “La meteorologa”, una Cassandra al contrario, dove il problema non è di non essere creduta, ma di non credersi, o di credere troppo al valore di ciò che gli altri vorrebbero credere, alle loro aspettative. Un nuovo appuntamento con la rubrica di letteratura e cultura ebraica, Area 22

Una cosa che senz’altro adoro, quando leggo un libro, è dover capire dove sia ambientato. Sempre se, naturalmente, è ambientato da qualche parte. Sì, perché talvolta non viene detto; forse perché la storia potrebbe andar bene ovunque (e in qualunque tempo); altre volte, invece, l’informazione è sottaciuta perché evidente (soprattutto se chi legge conosce gli ambienti geografici dell’autore) o perché, più ancora, non importa.

Questa seconda ipotesi mi sembra la più adatta. Già, perché la storia si svolge in un deserto, forse a Makhtesh Ramon, nel Negev, vicino la città di Mitzpe; ma quando è il deserto a fare da sfondo a una storia, poco importa di quale deserto si tratti. Il deserto è un po’ come l’oceano: uno spazio talmente grande e assoluto da risucchiare in sé ogni altro luogo, da divenire come la sintesi di ogni altro luogo, anche interiore e non solo geografico.

Il deserto e il mare, dunque. Due luoghi di sommo silenzio e mistero a contendersi lo sfondo narrativo di questo romanzo: l’uno reale, presente, soffiante di presaghi ululati; l’altro psicologico, inconscio, uterino, appartenente ad un altro romanzo che, però, ad ogni pagina, sembra volersi impossessare di questo, o significarlo.

Non è la prima volta che un romanzo fa da sfondo ad un altro. Non perché il nuovo abbia necessariamente bisogno del vecchio per definirsi e raccontare la propria storia, ma perché esistono delle toledot anche nella letteratura: esistono racconti che ne hanno generati altri; esistono generazioni di scrittori e lettori che portano nel sangue i geni del deserto, poco importa che sia di sabbia o di acqua.

E proprio come avviene nelle leggi della vita biologica, dove un antico marcatore ricade accidentalmente ma in modo fatale nella vita di un nuovo nato, così è tra vecchi e nuovi romanzi: capita che un deserto di mare blu, volendo entrare in un deserto di pietre, si trasformi in alluvione. Tra i firmamenti delle storie si aprono cateratte, e la creazione si ricrea attraverso siccità e diluvi.

E in tutto ciò, che accade ben oltre il contributo di ogni singola vita, un’autrice come Tamar Weiss Gabbay sa intessere la sua storia, sa collocare l’embrione della sua idea e incarnarla dentro un deserto come in un grembo, perché giunga ad emettere il proprio vagito.

Autrice per bambini, ma bambini che crescono

Il marchio di autrice per l’infanzia, che se da un lato può renderti simpatica a flotte di maestre deliziate da teneri racconti, e dall’altro può relegarti al facile margine di un settore in cui si fa sempre più difficile un ulteriore sviluppo letterario, non sembra in alcun modo aver sfiorato Tamar che, a quanto sembra da questo libro (vincitore, a dispetto della sua brevità, del prestigioso Brenner Prize), ha affrontato più che onorevolmente la propria pubertà artistica.

La crescita della scrittrice si invera in uno dei personaggi, protagonista della terza parte del romanzo e punto di arrivo di una simbolica potente che, se fino ad un certo punto, ha messo l’uomo da una parte e la natura dall’altro, nel personaggio della giovane ragazza alle prese con la conquista di sé stessa, arriva a mostrare l’impeto della natura direttamente dentro di lei. E cos’altro è una bambina che cresce?

Ancora generazioni

Ma procediamo con ordine. Pocanzi si è parlato di generazioni: di romanzi, di autori, di lettori. Generazioni letterarie. Che qui diventano strutture narrative (stilemi patriarcali e profetici) in un trittico già ottimamente riuscito in altri contesti, sempre vicini al deserto. Abbiamo un uomo, sua figlia e sua nipote: una generazione che sta prima, una che sta dopo, ed una al centro, che dà vita a tutta la storia e la impernia su di sé.

La Meteorologa (Giuntina, 95 pagine, 14 euro, traduzione di Silvia Pin) è proprio lei, una donna fuori dagli schemi, un’avventuriera al servizio della natura e dell’uomo, venuta per prima a realizzare qualcosa che nessuno si sarebbe mai aspettato in un quello sperduto deserto (Ecco, faccio una cosa nuova!), e da una donna, poi! L’esaltazione eroica di questa femminilità votata ad un eremitaggio consacrato al deserto costituisce l’intreccio morale di tutta la storia: la generazione di mezzo, quella di chi sceglie la terra; non la generazione del padre, che ha viaggiato e porta in sé la conoscenza del nomade, saggio prima ancora che professore; e nemmeno la generazione giovane, che nel parto di un’esile gazzella diviene essa stessa l’auspicio di stirpi future; ma la generazione di mezzo, che sa vivere coraggiosamente le arsure di una sommità sacrificale, snodo e fondamento di tutta questa storia, e della Storia stessa.

Una donna che sa ascoltare quel vento d’Oriente capace di asciugare le acque, ma anche di riversarle sul mondo; la meteorologa continuava a sentirsi spinta dallo stesso vento, un vento che è come una voce da interpretare, e dove lei raccoglie presagi che derivano da un’anima profetica più ancora che da una professione. Una eroina tornata alla cittadina per salvarla, con tutti gli slanci messianici annessi ad una tale, potentissima descrizione. Una condottiera solitaria, capace – come Giosuè – non solo di far fermare il sole, ma di collocarlo al centro del cielo, sopra la donna che camminava.

La poetica intrinseca del testo sostiene l’enfasi di questa missione solo apparentemente meteorologica, trasformando ogni previsione in oracolo, cogliendo vaghi segni nel cielo senza che il destino, comunque, possa rimanerne afferrato. Gli elementi atmosferici si fanno funzioni simboliche retoricamente eloquenti, capaci di raccontarsi senza doversi spiegare.

Un silenzio, quello della meteorologa, capace di entrare in relazione con il silenzio del deserto e con un altro, quello della nipote: una delicatezza che non può essere infranta dal suono pesante delle parole, specie quando queste sono troppe volte esatte nella previsione degli eventi mentre, nella bocca di una ragazzina rimangono soffocate dal dubbio e dall’insicurezza. E allora tutto tace e parlano gli sguardi, e un amore sottile e discreto, tutto femminilmente complice, anche nel muto e mutuo conflitto.

Chi lascia la casa per il deserto

Se la meteorologa invade la prima scena del libro, e gli dà un sapore capace d’essere gustato fino alla fine, suo padre occupa la seconda parte della storia. Un professore combattuto tra gli spazi domestici, a piangere una madre ridotta quasi all’oblio e, per non farsi invadere da questo oblio, deciso ad incontrarne un altro, quello del deserto, dove anche lui si avventura, a mostrarne la bellezza ai suoi alunni, nelle sue aspettative così tanto discepoli. Ma anche in questo deserto dovrà piangere, e saranno proprio quelle lacrime a far sua quella terra: una valle che diventa tomba, come Machpela, ma che ora gli appartiene veramente. Un vecchio che si rispecchia in un altro, e che lo racconta ai suoi alunni; ma lui non va in barca e non deve catturare nessun grosso pesce, deve solo conquistare un significato ed afferrare il senso della propria vita, tutta passata velocemente davanti alla sua anima, nel segreto di un altro utero, quello materno di una cantina.

Ogni luogo di questo libro è placentare, e vi è acqua più che in qualunque altro deserto; arriva da ogni parte, da cumuli plumbei addensati sui monti a lacrime calde che fecondano le siccità di un volto. Ogni acqua, in questo libro, è amniotica: genera, nutre e fa nascere, senza risparmio di spasmi.

La lotta con sé stessi

Ma è proprio nella terza parte, forse, che lo sviluppo produce l’esito apicale della storia; il travaglio di una ragazzina che deve partorirsi donna, che deve vincersi. Anche lì, nel deserto pure lei, vive l’acqua di uno Iabbok interiore. È una giovane venuta dalla città a risiedere per un certo tempo in questo luogo a lei ignoto, e ad imparare per che cosa valga davvero la pena di combattere. Interrompe la lettura di un libro per darsene all’ascolto: dietro l’apparente pigrizia adolescenziale, che alla faticosa lettura di un classico preferisce il più comodo audiolibro, si cela in proporzione inversa (e geniale dal punto di vista metanarrativo) la scoperta del faticoso ascolto interiore alla comodità delle visioni solo apparenti. La ragazza, che sente e risente nel suo riproduttore digitale intere parti de Il vecchio e il mare di Hemingway, comincia a tal punto a identificarsi con la spasmodica ricerca di un obiettivo, da produrre (e l’autrice, attraverso di lei) una totale fusione tra i due romanzi: il vecchio diviene lei, e il pesce una gazzella; hanno entrambi qualcosa, qualcuno da trovare: sé stessi. E se questo significa doversi estraniare dal gruppo, ancora una volta ciò non appare semplicemente come un cliché adolescenziale ma, al contrario, come la prima vera forma di conquistata maturità. Non è un caso che il parto cui la giovane assiste, sia un parto femminile: è come se sia lei a reiterarsi, a nascere di nuovo. E tutto ciò che verrà dopo, drammatico eppure liquidato alla fine con poche battute, non mortifica l’importanza del finale, ma lo esalta relativizzandolo alla controluce delle aspettative della natura, che è una natura fatta per vivere e non per morire. La ragazza dovrà vivere, nonostante tutto, nonostante il finale, nonostante ogni alluvione o inquietante volo di aquile.

La pedagogia delle aspettative 

Tutto il libro ruota attorno all’etica incognita delle aspettative, quelle che vengono dalle voci di fuori e quelle che insorgono – ben più pressanti – dall’interno dell’anima. La meteorologa vive la quotidiana angoscia che le sue previsioni non si avverino: una Cassandra al contrario, dove il problema non è di non essere creduta, ma di non credersi, o di credere troppo al valore di ciò che gli altri vorrebbero credere, alle loro aspettative.

Una lettura superficiale potrebbe far pensare che lei, la protagonista, proprio perché tale, non possa sbagliare. Al contrario, il cuore etico e pedagogico del testo è tutto nell’apprendimento di una relazione fondamentale, quella tra un io che nutre enormi aspettative su sé stesso, e la possibilità di un io reale e opposto, potenzialmente fallibile ma vero. La scoperta della verità può costare un errore che viene redento da un’offerta totale, simbolicamente efficace ancorché inconsapevole o non cercata.

Ma sono pressanti anche le aspettative del professore, che vorrebbe poter insegnare solo ciò che ha autenticamente imparato, quando invece si scopre ancora ragazzino, vulnerabile, proprio come uno dei suoi studenti. Anche lui imparerà che c’è sempre da imparare, e nel momento della sua più acuta vulnerabilità, lì, proprio nella sua impotenza si paleserà la sua grandezza.

E infine, le aspettative della ragazza, che davvero – questa volta – sono quelle dell’adolescente, che si chiede cosa possa davvero aspettarsi da sé stessa, cosa si aspettino da lei il nonno, la zia, la madre, i compagni. Sarà una bestiola a farla scoprire grande, eviscerando da lei una grandezza sulla quale, essa stessa, non si era mai interrogata. E succede sempre così: sono le cose che non ti aspetti a farti diventare grande.

Ci sono, naturalmente, anche le aspettative dei lettori. All’inizio sono tutte rivolte al libro, e alle sue 95 pagine che potrebbero essere tutto o niente; alla fine ciascun lettore le rivolge a sé stesso, perché quelle 95 pagine hanno funzionato, e anche bene. Lasciandoci dentro, forse, lo spazio di un provvidenziale deserto, di un remoto suono di acque che si rompono, e di un lontano vento d’Oriente che non sappiamo se porti pioggia o siccità, e che forse è la nostra stessa anima.

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