“La ribelle di Gaza” di Alghoul e Nassib, i primi due capitoli

Una ragazza nata negli anni Ottanta, cresciuta nella striscia di Gaza, tra i bombardamenti israeliani e la tirannia islamista, racconta la propria storia, la sua voglia di vivere e amare. “La ribelle di Gaza” è un romanzo scritto a quattro mani dalla giornalista palestinese Asmaa Alghoul e dal romanziere libanese Sélim Nassib, autore fra gli altri di “Ti ho amata per la tua voce”; “La ribelle di Gaza” è tradotto da Alberto Bracci Testasecca e pubblicato dalle edizioni e/o. La protagonista dovrà sfidare le regole del maschilismo e la violenza del fanatismo religioso, dovrà fare i conti con parenti affiliati ad Hamas e soldati israeliani che la notte fanno irruzione a casa sua. Il suo è un ritratto, con toni ora lievi ora tragici, dell’amato paese natio diventato perenne teatro di guerra, morte e integralismi. Il romanzo sarà in libreria da domani, anticipiamo i primi due capitoli.

1

Finirai nel fuoco

Da bambini giocavamo molto ad “arabi ed ebrei”. Gli uni si nascondevano, gli altri li cercavano. In genere i maschi facevano gli ebrei e noi femmine gli arabi, perché gli ebrei sono più forti e più brutali. Nessuno ragionava su cosa volesse dire, non facevamo politica, l’importante era divertirci. Era un gioco che ci piaceva molto e che di solito facevamo per strada, ovviamente quando non c’era il coprifuoco.

Nel campo profughi di Rafah in cui sono cresciuta non dicevamo mai “gli israeliani” e neanche “l’esercito”, dicevamo “gli ebrei”, per esempio “Stanno arrivando gli ebrei!”. Per me, ebreo significava paura. La notte, stesa sul materasso a terra, pensavo ai bombardamenti, alla morte, agli aerei che passavano lacerando i tetti. Guardavo la grossa scatola gialla di latte in polvere Nido sopra l’armadio. Era la cosa più costosa che si potesse comprare al campo. I comuni mortali bevevano il latte senza marca dell’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei profughi palestinesi. Pensavo: “Dio, perché non sono una scatola di Nido?”. Tutti la rispettavano, veniva tirata giù per versare un cucchiaio di latte in polvere nel tè e subito rimessa a posto, era circondata da sguardi. Io invece passavo le giornate a sentirmi dire: «Finirai nel fuoco, andrai all’inferno!» ed ero convinta che sarei bruciata tra le fiamme.

I soldati facevano sempre irruzione in casa nostra dalla porta di dietro, quella di camera mia. Certe volte mi svegliavo di soprassalto e gridavo: «Mamma, mamma, stanno arrivando gli ebrei, sento gli stivali!» e lei rispondeva: «Ma no, è il rumore della sveglia… Dormi, dormi». Il crepitio della pioggia sulla lamiera, il tic-tac della sveglia e l’irruzione dei soldati: tre cose che nella mia testa sono mischiate per sempre. La mia vita era prigioniera di quei momenti di angoscia e tristezza. Quando uno è felice si aspetta sempre che sopravvenga qualcosa di bello, anche se non succede spesso. La tristezza è più costante, si addice di più al mio carattere, si armonizza alla mia indole. Nel 1987, quando è scoppiata la prima intifada, avevo solo cinque anni, ma ho ancora nelle narici l’odore dei gas lacrimogeni. Hamas è stato fondato in quello stesso anno, ci sono cresciuta insieme. Era un mondo stabile e triste. I miei zii facevano parte di Hamas, è per quello che gli israeliani ci piombavano in casa di notte e mi terrorizzavano.

Eppure da piccola ero andata in Israele. Nonno Jomaa, il padre di mio padre, lavorava lì in un albergo, cosa che aveva aiutato a farlo ricoverare in un ospedale di Tel Aviv quando aveva avuto problemi di cuore. Mi avevano portato a trovarlo. L’autobus in cui eravamo seduti si era fermato in una stazione di servizio e il benzinaio si era messo a lavare i finestrini con una pompa. Il getto usciva dal tubo e colpiva il vetro imbrattandolo d’acqua, io avevo strillato dalla paura. In ospedale ho preso l’ascensore per la prima volta in vita mia. Quando la porta si è riaperta c’era un ambiente completamente diverso, non ci capivo niente. Ho chiesto alla nonna: «Abbiamo viaggiato, téta? Abbiamo viaggiato in questo… questo…». Non sapevo nemmeno che si chiamasse ascensore! Più tardi ci siamo ritrovati seduti sul prato dell’ospedale. Tutto quel verde intorno a noi: non credevo ai miei occhi! Nel campo in cui vivevo non c’era niente di verde. Il nonno guardava insieme a me le donne stese sull’erba a capo scoperto in compagnia dei familiari. «Quella ha il cancro, quell’altra è malata di cuore… Quelli sono i figli che sono venuti a trovarla». In quel giardino ho scoperto che gli ebrei erano persone normalissime, non riuscivo a credere che fossero davvero ebrei, mi sono convinta solo sentendoli parlare ebraico. Fino a quel momento avevo creduto che tutti gli ebrei fossero soldati.

Quel nonno era un uomo aperto, mi ha insegnato la tolleranza nei confronti degli altri popoli. Prima che io nascessi aveva invitato mio padre a fare una vacanza in Israele, non provava il minimo odio e trovava normale che il figlio imparasse l’ebraico. Parlava del principale israeliano con molto rispetto e apprezzava il lavoro che faceva, responsabile dei camerieri dell’albergo. Mi ha fatto vedere alcune foto scattate a Tel Aviv di lui e nonna con un bel vestito, braccialetti e capelli al vento. Certi suoi figli si erano affiliati a Hamas, ma non lui. Viveva tra i soldati che attaccavano casa nostra da un lato e il principale israeliano a cui voleva bene dall’altro. Tornava da Israele con dolci dai sapori insoliti, una quantità di cose deliziose, e mi regalava mezzo shekel. Era molto, le altre bambine della scuola ricevevano come paghetta un centesimo di mezzo shekel. All’epoca quelli che lavoravano in Israele erano considerati ricchi.

Ciò nonostante preferivo l’altro nonno, Abdallah, il padre di mia madre. Anche lui ci aveva portato in Israele in una fattoria in cui faceva il bracciante, la più bella gita della mia vita! Il cielo era popolato da una moltitudine di uccelli e c’eravamo messi a cantare per loro L’uccello del giovedì mi ha portato una camicia. In arabo, “giovedì” fa rima con “camicia”. Ci aveva fatto raccogliere delle piante che avevamo portato a casa. Gli volevo veramente bene. Un giorno in cui a Rafah pioveva eravamo seduti sotto il suo ulivo e di colpo ho provato la stessa emozione che provavo quando leggeva il Corano ad alta voce. In quel preciso momento un piccione me l’ha fatta addosso, mi capita sempre, ma il nonno ha detto: «Non te la prendere, porta fortuna, riceverai una buona notizia».

Si dice “striscia di Gaza” o “Gaza” per indicare il territorio, ma Gaza è anche il nome della capitale. Come per noi Israele era un altro mondo, così lo era pure la città di Gaza. La prima volta che ci sono andata ero sbalordita, perché venivo dal campo profughi di Rafah, una quarantina di chilometri a sud, in cui non c’era niente, e penetravo in un mondo così vasto che era impossibile conoscerlo tutto. Quel giorno mia zia mi aveva portato a un matrimonio della buona società di Gaza. Sgranavo gli occhi nella lussuosa villa circondata da alberi con garage per le macchine, uomini in abito scuro e donne eleganti a volto scoperto senza niente in testa. Quindi esistevano palestinesi ricchi! Stentavo a crederci. Io ero vestita bene perché mio padre lavorava negli Emirati e da lì mi spediva sempre bei vestiti. Avevo un cappellino a fiori e di colpo mi ero resa conto di averlo dimenticato sul taxi collettivo. Arrabbiatissima, avevo ritrovato l’autista: «Stupido, te ne sei andato con il mio cappello!». Invece il poverino era tornato indietro per riportarmelo. Non avevo ancora cinque anni ed ero già insopportabile.

2

Troppo forte

Mi piacevano i maschi, soprattutto i ragazzi carini, preferivo sempre giocare con loro, le altre bambine mi odiavano perché ero “troppo forte”, appellativo che mi ha perseguitato per tutta la vita. A sedici anni, tornata dagli Emirati, mi sono innamorata di un cugino che mi ha posato la mano sulla spalla. Il cuore ha cominciato a battermi come mai prima, non sapevo che una mano sulla spalla potesse provocare sensazioni tanto sconvolgenti. Sua madre ha fatto girare la voce che uscivo sul balcone in shorts e a braccia scoperte, pura menzogna, ma è riuscita a separarci. Secondo lei non andavo bene per il figlio, ero “troppo forte”. La stessa accusa mi è stata rivolta l’anno dopo quando mi sono innamorata di un professore d’inglese di ventiquattro anni. Si chiamava Saleh. Era un rapporto strano, lui non insegnava nella mia classe, quindi non avevamo scuse per parlarci. Ci incrociavamo nei corridoi della scuola, mi diceva qualcosa, io gli rispondevo parole furtive e continuavamo ognuno per la propria strada. Vibravo quando i nostri occhi si incontravano, quando gli mettevo in mano una poesia che avevo scritto e lui ne dava una a me. Era tutto in quelle parole rubate, in quegli sguardi scambiati da lontano, non osavo fare altro perché avevo paura dei pettegolezzi, ma pensavo sempre a lui, non ci dormivo la notte. Alla fine mio padre ha capito che amavo quel professore, non so se gliel’avesse detto qualcuno o l’avesse intuìto perché a scuola andavo sempre peggio, fatto sta che con la scusa di avere notizie sul mio rendimento scolastico è andato a scuola e l’ha incontrato. «Da quando Asmaa ti conosce studia meno. Stai lontano da lei». «Voglio fidanzarmi con lei» ha risposto Saleh, e papà ha detto: «Va bene, ti aspettiamo giovedì prossimo a casa». Pur deciso a rifiutargli la mia mano, l’aveva invitato per capire quanto serie fossero le sue intenzioni e voleva che io ne fossi testimone. Quel giovedì, dopo aver messo in ordine la casa e preparato le bibite, l’abbiamo aspettato, ma non è venuto. La madre era una donna terribile, anche lei insegnante in un’altra scuola, e non mi poteva vedere. «Asmaa non va bene per te, è decisamente troppo forte». A quanto pareva gli uomini non erano abbastanza forti da resistere alle loro madri.

Mi hanno detto che ebrei e musulmani esigevano che le loro donne si coprissero la testa a causa del timore che ispirano, perché mostrare i capelli è considerata una provocazione sessuale. Mi hanno anche detto che nella storia dell’umanità la donna è alla base della vita, la madre dell’universo. L’uomo ha sempre avuto paura della sua potenza e del suo potere, e ha camuffato la propria “paura di lei” in “paura per lei”. Per proteggere se stesso l’ha confinata in casa e ne ha ridotto il ruolo sociale allo stretto necessario, permettendo alle religioni di rendere eterna quella struttura di dominio che non avevano inventato loro. Ecco perché la donna occupa un posto inferiore e i figli prendono il cognome del padre anziché il suo. La teoria mi sembrava abbastanza convincente. A Gaza ci sono più laureate che laureati, ma nessuno spinge le donne a trovare un impiego e il mercato del lavoro resta in grande maggioranza maschile. Il mio innamorato ha ubbidito alla madre perché aveva paura di lei? E io, faccio paura agli uomini?

Mia sorella Fatmeh è nata nel 1983, Aicha nel 1984, Mustapha nel 1985, e così di seguito fino a nove figli. Io ero la maggiore e la famiglia mi considerava in qualche modo responsabile dei fratelli e delle sorelle, anche se mamma era sempre presente. Erano più viziati di me, più belli, andavano meglio a scuola, e soprattutto nessuno li picchiava. Quando sentivo il canto del muezzin, «Allahou Akbar, Allaaaahou Akbar!» (Dio è il più grande), mi piaceva recitare quelle parole dopo di lui e mio zio urlava: «È peccato! Stai cantando l’Azan» (il richiamo alla preghiera) e mi picchiava. Non riesco a dimenticarlo. «Perché hai detto Murid invece di zio Murid?», «Perché sei andata da nonno Abdallah?», «Perché non hai sparecchiato?», e giù botte! Le buscavo anche da mia madre perché non facevo i compiti. E non mi piaceva la scuola perché pure la maestra mi picchiava. Tutti avevano il diritto di darmele e non c’era nessuno a dire “Non fatelo!”. Avrei potuto rimanere traumatizzata, sempre che non siano state le botte a rendermi “troppo forte”.

A volte, stufa di essere picchiata, andavo a rifugiarmi a casa del mio nonno materno, che solo un muro separava dalla nostra. Ricordo l’odore di nonno Abdallah quando mi prendeva sotto la sua ala protettrice e mi copriva con una trapunta per nascondermi. L’altro nonno, quello severo (ma volevo bene anche a lui) veniva a cercarmi. Tremavo di paura mentre domandava: «È qui Asmaa?» e l’altro gli rispondeva: «No, non c’è». Accucciata contro il suo petto, gli sentivo battere il cuore. Quando nonno Abdallah è morto le mie speranze sono morte con lui. Mi alleviava da quelle paure che non sapevo mi sarebbero rimaste per tutta la vita. Quando morirò voglio essere sepolta accanto a lui, è l’unico che sia stato tenero con me! Tutti gli volevano bene. Dopo aver smesso di fare il bracciante è diventato imam di una piccola moschea. Era un uomo di religione, ma pacifico e cordiale. Ascoltava Samira Tawfik, una cantante libanese: “Il giovanotto bruno mi ha fatto impazzire… oh, i miei occhi! Mi ha rubato la mente, Allah, Allah!”. Sentiva quella canzone beduina pur essendo sceicco, lo sceicco Abdallah Alghoul. Mio padre e mia madre sono lontani cugini, i due rami della famiglia hanno lo stesso cognome. Non avevo scampo, ero circondata da ogni parte da orchi: è ciò che significa “Alghoul” in arabo.

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