“Tutto questo fuoco” di Ángeles Caso, ecco le prime pagine

Scrivevano fin da bambine Charlotte, Emily e Anne Brontë. Cresciute orfane di madre, sono aliene nell’Inghilterra vittoriana, periodo in cui le donne devono giusto conquistare un buon partito. Loro tre, invece, non solo riescono a pubblicare, ma lasciano il segno nella letteratura mondiale. La domanda è: da dove viene, tutto questo loro fuoco? Un interrogativo a cui dà risposta il nuovo romanzo di Ángeles Caso, pubblicato, come sempre, da Marcos y Marcos, “Tutto questo fuoco” (256 pagine, 18 euro) in libreria da domani, 28 febbraio, nella traduzione di Claudia Tarolo. Vi proponiamo in anteprima alcune pagine

 

Emily Brontë allungò la testa verso le scale e lanciò un richiamo:

«Il ferro è caldo!»

Charlotte scese subito in cucina. Sua sorella stava impastando il pane con le sue braccia forti e quell’impeto che metteva in tutto ciò che faceva. Il mattarello rotolava avanti e indietro come se stesse schiacciando un esercito di ribelli del regno di Gondal. La vecchia Tabby era appena tornata a casa e si era già messa a lavare la pila di piatti della sera prima. Charlotte ebbe di nuovo l’impressione che la cameriera quella mattina fosse un po’ più bassa, come le capitava sempre più spesso negli ultimi mesi: la grande Tabitha Aykroyd, compagna fedele, allegra e piena di magnifica follia della famiglia Brontë, invecchiava e rimpiccioliva di giorno in giorno, magari fino a diventare un nanerottolo di cui avrebbero dovuto prendersi cura.

Emily sembrava di ottimo umore e ansiosa di dire qualcosa:

«Charlotte, Tabby deve parlarti della signora West».

«Della signora West?» Charlotte si ricordò di quella donna grassoccia, la moglie del fabbro del paese, che aveva visto, solo due giorni prima, inseguire le sue galline che razzolavano libere e felici lungo la strada per Keighley, reggendosi con le mani una pancia immensa. «Ha perso il bambino?»

«No, no, per carità… Diglielo, Tabby».

Tabby smise di lavare i piatti e si asciugò le mani, disponendosi a raccontare con la massima solennità qualcosa di importantissimo:

«Ha partorito stanotte. E il bambino è grasso come un vitello già cresciuto, gigante e sano. E mentre stava partorendo, alle cinque del mattino, con un dolore atroce che sembrava stesse per esploderle la pancia, le è apparsa sua nonna».

Charlotte fece un gesto stupito:

«Le è apparsa sua nonna…? Vuoi dire il fantasma di sua nonna?»

«Sì, sì, il fantasma. È sceso dal cielo e si è messo lì al suo fianco e le ha tenuto le mani mentre partoriva, e le ha detto di non aver paura, che tutto sarebbe andato bene e che il bambino doveva chiamarsi Abimael, come il suo povero marito. E poi è uscito il bambino, proprio così, grasso e sano, e quando si è messo a piangere, la nonna le ha accarezzato i capelli ed è svanita».

Emily guardava sua sorella tutta compiaciuta. Sapeva che non le piacevano queste storie di fantasmi e apparizioni, di cui lei invece andava matta, e si divertiva a stuzzicarla.

Charlotte scuoteva la testa:

«Non dire sciocchezze, Tabby!»

«È vero, chiedilo alla levatrice, era lì con lei e me l’ha appena raccontato…»

Non volendo impegolarsi in quell’assurda conversazione, Charlotte Brontë prese il ferro e salì di sopra, pronta ad affrontare il più velocemente possibile la montagna di panni che l’aspettavano su una poltrona, lenzuola, trapunte, sottovesti, gonne, fazzoletti e camicie del padre e di Branwell. Sul pianerottolo incrociò Anne, che la mattina si svegliava sempre un po’ più tardi delle sorelle e ora finalmente scendeva a fare colazione.

«Buongiorno cara. Dormito bene?»

In risposta, Anne sbadigliò e stirò le braccia. Charlotte la lasciò proseguire per la sua strada, sapendo che a quell’ora, appena sveglia, la sua sorellina non era in grado di spiccicare verbo.

E a quel punto, tutta la casa, quell’edificio in pietra e legno che era la canonica dove vivevano il reverendo Brontë e la sua famiglia, nella cittadina di Haworth, si rilassò e si lasciò sprofondare placidamente in quella sequenza di suoni rassicuranti, così simili al silenzio, che si diffondono nelle allegre mattine d’estate. Fuori si udivano i colpi ritmati di John Brown che intagliava nella sua bottega, e il cupo gracchiare dei corvi che cercavano di imporsi sul canto dei passeri, deboli e fieri, e sul magnifico trillo di quel tordo che stava nel punto più remoto del cimitero, tra gli alti cedri. In lontananza, oltre la chiesa, risuonavano gli zoccoli di un paio di cavalli che risalivano la strada principale verso una delle fabbriche di tessuti. Si sentivano bambini che giocavano, gli strilli di una mamma a caccia della bambina fuggita dai doveri domestici per raggiungere i fratelli nei prati, e il chiocciare delle galline eccitate dal passaggio di un cane.

Poi c’erano i suoni provenienti dall’interno della casa. Suoni umili, pieni di quella malinconia che emanano le cose senza importanza. Qualcuno fa cadere per sbaglio la scopa mentre spazza il pavimento di grandi lastre di pietra. Un letto cigola mentre le lenzuola vengono scosse prima di essere riappianate. In cucina, una forchetta rimbalza sul piatto che viene impilato nel lavello. E Tabby ringhia un’imprecazione a voce bassa: il reverendo Brontë non gradisce che le sue cameriere strillino parole sconvenienti dopo essersi scottate le mani indurite infornando il pane del giorno.

Passa inavvertito, il suono volgare del mondo. Nel corso di una vita, le nostre orecchie sentono milioni di rumori diversi. La nostra evoluzione ha fatto sì che il cervello difficilmente li distingua o li registri. Se prestassimo attenzione a ciascuno dei singoli suoni che ci circondano, impazziremmo. Non reggeremmo lo stress, moriremmo di nostalgia. La dolorosa sensazione di mancanza di tutto ciò che è perduto. La voce di nostro padre che ci recitava una poesia, o di nostra madre quando cantava. La promessa di felicità che vibrava sulle labbra dell’uomo che abbiamo amato sopra ogni altro la prima volta che ha pronunciato il nostro nome. Il magnifico fragore dei temporali nelle estati dell’adolescenza. Il limpido fruscio dei vecchi pioppi quando le loro foglie ondeggiavano nell’aria, in quel giardino in cui non siamo più potuti tornare.

Di lì a poco la canonica di Haworth sarebbe stata colma del silenzio infinito degli assenti. Ma quel giorno si avvertiva ancora la spensierata tranquillità di una casa che inizia la giornata nella luce tenue di una mattina estiva, spuntando dalla nebbia in cima alla collina, sopra il paese, ai margini della brughiera, dove stavano già cominciando a risvegliarsi, in attesa del sole di mezzogiorno, spavalde eriche e ginestre, insediate su quelle terre dure come piccoli conquistatori tenaci. I trascurabili rumori domestici a cui nessuno dà importanza finché non scompaiono, finché non svaniscono nel tempo perché chi li produceva, la persona che scuoteva i tappeti, rimetteva i piatti sui ripiani, correva su per le scale o fischiava al cane per dargli da mangiare non c’è più. È allora che il silenzio ci travolge, e percepiamo l’assenza più dolorosa in ciascuno dei suoni banali che non vibra nell’aria, che non vibrerà mai più nell’aria di questo mondo.

Tutto era felicemente noioso e normale. Charlotte ed Emily Brontë avevano fatto colazione presto con il padre, alle sette – ciotole di porridge caldo e tè – e ora le donne erano impegnate nelle faccende domestiche. Anne, riscuotendosi finalmente dal sonno che l’accompagnava a lungo dopo che si era alzata, stava cominciando a spolverare in sala da pranzo, impugnando concentrata lo spolverino che Charlotte aveva portato da Bruxelles anni prima, un umile regalo di lusso che avrebbe dovuto facilitare i lavori domestici. Quel compito non le pesava. Le permetteva di tenere la mente addormentata per un po’, risvegliandola lentamente, molto dopo il corpo, e poi, una volta tornata lucida, ricordare e pensare, persino immaginare certe scene per il suo romanzo, come ciò che sarebbe successo quel pomeriggio, quando il reverendo Edward Weston sarebbe salito su un pendio per raccogliere alcune primule per Agnes. William l’aveva fatto una volta per lei, vicino a Keighley, e ora sarebbe stato carino ricambiare il gesto.

Si guardò intorno nella stanza, cercando di decidere da dove cominciare quella mattina. Cercava sempre di cambiare l’ordine delle pulizie, per non annoiarsi troppo. Per fortuna non c’era molto da pulire. Quella non era la tipica casa vittoriana borghese e pretenziosa, ricoperta di tappeti, tende e divani con le fodere di velluto, ma piuttosto uno spazio sobrio, con poche cose, il tavolo, le sedie e il divano scuro in fondo alla stanza, un paio di lampade a olio e qualche candelabro; sulla mensola del camino un vasetto di fiori secchi che Ellen Nussey le aveva spedito in uno dei suoi consueti pacchi regalo, e i preziosi libri sui loro scaffali, ovviamente, i libri letti e riletti di Byron, Scott, Thackeray, Dante, Sand, Platone o Tucidide.

Sarebbe partita dai libri. Era lì che normalmente si soffermava più a lungo, passando lo spolverino con la stessa cura con cui avrebbe accarezzato un bambino, dandogli un colpetto di un millimetro in modo che tutti i dorsi rimanessero sempre inalterabilmente allineati, perfetti e puliti in mezzo all’ordine perfetto dei loro universi fittizi, al riparo dal caos della realtà. Aveva la sensazione che mantenere impeccabili quei pochi volumi – senza polvere, disposti secondo il cognome dei loro autori, formando una linea assolutamente dritta sul legno di noce degli scaffali – la aiutasse a tenere altrettanto a bada la sua mente, e tutte le irrefrenabili idee che la abitavano, in piccoli angoli bui e caldi, dove sonnecchiavano in pace finché, all’improvviso, una parola stagliata sul bianco di un foglio, una manciata di fiocchi di neve caduti inaspettatamente contro le finestre come piccole anime gettate dal cielo, la scoperta che la ruga tra le sopracciglia di Charlotte, che le solcava la fronte, era diventata un po’ più profonda, qualsiasi piccolezza di colpo non le destava, le innervava e le scaraventava da una parte all’altra del suo cervello, e luminose, potenti, le sussurravano parole e parole piene di dolore e angoscia. Mentre sistemava i libri, sottomettendoli al rigore della geometria, dell’alfabeto e della pulizia estrema, sentiva di frenare quell’impulso distruttivo, contenendolo in limiti ragionevoli e misurabili, lontani dalla sua tendenza alla follia.

Poi arrivava il momento di pulire con delicatezza il piccolo ritratto della madre, con i riccioli che spuntavano da sotto la cuffia, le labbra stranamente serrate e il morbido colletto di garza che le circondava il collo. Era l’unica immagine di Maria Branwell Brontë che restava, e ad Anne piaceva quel momento di vicinanza, mentre si sforzava di trovare in quel profilo severo un accenno di vita, un vago residuo della tenerezza che una volta, tanto tempo prima, doveva aver provato per la sua ultima figlia, di cui aveva avuto appena il tempo di prendersi cura.

Povera Maria. Anne non l’avrebbe mai saputo, ma le cameriere ricordavano la sua angoscia negli ultimi mesi di vita, quando sentiva che il cancro la stava divorando e presto l’avrebbe portata via per sempre dai suoi figli, quelle sei piccole creature che sarebbero cresciute senza una madre che li coccolasse e li educasse a essere persone sensate e responsabili, buoni genitori per i propri figli quando fosse arrivato il momento.

Prima di ammalarsi, Maria era sicura che avrebbe insegnato loro anche a essere buoni credenti, che avrebbero riposto la propria vita con fede e speranza nelle mani di Dio onnipotente. E invece, durante i lunghi mesi di dolorosa agonia, lei per prima aveva perso la fede. All’inizio aveva continuato a chiedere a Dio di non portarla via così in fretta, di lasciarla sulla Terra ancora un po’, a prendersi cura di Patrick e dei bambini, troppo piccoli per restare senza madre. Aveva pregato intensamente più e più volte, supplicandolo. Dio non l’aveva ascoltata. E lentamente, man mano che il dolore avanzava e con esso la consapevolezza della morte, Maria aveva smesso di confidare in quel Creatore capace di costringere una giovane donna con sei bambini piccoli a lasciare questo mondo. Se fosse esistito, non avrebbe potuto essere così crudele. Ormai era certa che non sarebbe andata in nessun paradiso. Sarebbe semplicemente svanita nel nulla, polvere alla polvere, e la sua assenza sarebbe rimasta per sempre sospesa nella casa come una fitta nebbia. Sapeva che le sue figlie sarebbero cresciute con un vuoto nel cuore che nulla avrebbe potuto riempire, come se fossero rimaste incompiute. E che Branwell, l’unico maschio, era condannato a restare un eterno bambino, irrealizzato, bisognoso per il resto della sua vita di disciplina e tenerezza, un fallito destinato a rimpinguare le schiere degli immaturi. Alla povera Maria Branwell Brontë era toccato morire senza fede né consolazione, tristemente consapevole di lasciare dietro di sé, nella canonica di Haworth Hill, un gruppo di esseri fragili e sventurati, come piante delicate degli orti urbani germogliate per sbaglio in mezzo alla brughiera, esposte ai venti e al gelo.

Charlotte Brontë non smetteva mai di pensare a quanto fosse difficile essere una donna. Se fosse nata uomo, se fosse stata Branwell, per esempio, la sua vita sarebbe stata così diversa, così ricca, piena di azioni e imprese, e anche di presunzione. Niente e nessuno avrebbe potuto sottometterla o farle abbassare la testa, se non la propria dignità. Sarebbe andata all’università, a Cambridge, come suo padre, e avrebbe avuto a disposizione tutti i libri del mondo, tutto quel sapere tanto desiderato. Avrebbe discusso per ore interminabili di tutte le questioni che le interessavano con altri uomini illuminati. Sarebbe andata nel continente, oh sì, Parigi, ovviamente, l’Italia e qualche principato tedesco, forse Vienna e, magari, persino Pietroburgo, la città d’argento. Avrebbe fatto il sacerdote, o l’avvocato, o sarebbe stata un membro della House of Commons, o un pittore e architetto di bellissimi palazzi. Forse, se avesse potuto studiare, avrebbe sviluppato il suo talento per il disegno e il colore, e ora se ne sarebbe andata per il mondo a firmare ritratti e paesaggi e forse anche dipinti di battaglie, scatenando eserciti attraverso le terre ardenti dell’Oriente e dell’India, e ammirando le rovine delle origini del mondo.

E, naturalmente, più di ogni altra cosa, avrebbe fatto lo scrittore. Anzi, sarebbe stata uno Scrittore, con la maiuscola. Uno tra i primi, tra gli indiscussi, tra quelli che siedono fianco a fianco con i migliori, accanto a Thackeray e Tennyson, e non quella-povera-donna-illusa-che-osa-scrivere, ma uno che si aggiunge alla schiera. Un Poeta. Un Autore. Con il suo nome in lettere luminose e indelebili marcate a fuoco sul dorso dei libri e, forse, dopo la sua morte, una statua in qualche parco davanti alla quale i suoi lettori si sarebbero fermati con rispetto, deponendo un fiore.

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