Nothomb, se scrivere serve a non farsi annientare dal dolore

Un altro pezzo dell’autobiografia romanzata di Amélie Nothomb è “Psicopompo”, manifesto di poetica e di rinascita attraverso la scrittura, e a partire dal racconto di un’infanzia raminga, segnata da una violenza sessuale

C’è una scrittura che lambisce e indaga l’ultimo confine, l’estremo confine, quello fra la vita e la morte, tra l’esistenza terrena e quell’oltre, in cui forse si spera e crede, che magari si teme e in cui, invece, alcuni non credono minimamente. Un limes che la letteratura ha spesso sfiorato e percorso, addirittura popolato, dando vita, a nostro avviso, a un vero e proprio genere, che potremmo appunto chiamare liminare, cui ad esempio appartengono: L’opera al nero e Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, come pure Il passeggero di Cormac McCarthy, per citare solo alcuni titoli. Una letteratura visionaria, decisamente intima e intimista, una letteratura eterea e, quasi, evanescente per la levità e l’immaterialità — potremmo anche dire l’impalpabilità — dei suoi argomenti e oggetti — i personaggi che la abitano.

Letteratura liminare

Ebbene, se questa categoria letteraria esiste, se quella che abbiamo chiamato, e definito, poc’anzi letteratura liminare può dirsi un genere, da febbraio essa annovera un nuovo testo: Psicopompo (105 pagine, 16 euro) di Amélie Nothomb, Voland edizioni, traduzione di Federica Di Lella. Un testo in cui l’autrice belga, giunta alla sua trentaduesima opera letteraria — edita, perché i manoscritti nothombiani ammontano a una cifra ben superiore —, torna a parlarci di sé e dunque a donarci un’autobiografia — romanzata —, alla stregua di: La nostalgia felice, Né di Eva né di Adamo, Biografia della fame, Metafisica dei tubi, Stupore e tremori, Sabotaggio d’amore.

Passione aviaria

In Psicopompo Nothomb innanzitutto ci racconta della propria passione aviaria, iniziata nel corso dell’infanzia trascorsa in Giappone e poi proseguita in Cina, negli Stati Uniti e in Bangladesh, Paesi in cui la famiglia Nothomb si trasferì per gli incarichi diplomatici di Patrick Nothomb, il padre della scrittrice. Una passione per i volatili che in realtà cela — e rivela — l’esigenza — e la ricerca costante e di lunga data — da parte di Amélie Nothomb di librarsi in volo verso i cieli e le alte sfere celesti, liberandosi dalle zavorre dell’esistenza terrena e, soprattutto, dalle bassezze della natura umana; tentando in questo modo ciò che ella definisce “l’impossibile”, proprio come fecero i dinosauri, che impiegarono ottanta milioni di anni per evolversi e dare vita al primo dinosauro volante, l’archeopterige; come in realtà fanno tutte le specie aviarie ogni giorno, o meglio, ogni volta in cui aprono le ali, sfidano la forza di gravità — che pertiene a chi abita la Terra — e spiccano il volo. Una ricerca, quella nothombiana, passata in primo luogo attraverso la sofferenza di non riuscire materialmente a sollevarsi in volo come gli amati uccelli — il corvo, il canarino, l’ingoiavento orecchiuto — e, di conseguenza, evolutasi nella spasmodica ricerca di quello stesso slancio e del luogo, reale o immaginario, o della condizione esistenziale, che lo rendessero possibile: la scrittura che, come il canto degli uccelli, consente a chi la coltiva di esprimere sé stesso e i propri stati d’animo. Una ricerca, approdata e concretizzatasi, infine, attraverso il superamento e la trasformazione — in scrittura e, dunque, in sopravvivenza e nuova vita — della sofferenza per la violenza sessuale subita, all’età di dodici anni, nelle acque che lambiscono la spiaggia di Cox’s Bazar, in Bangladesh. È proprio questa esperienza terribile — di cui Amélie Nothomb parla espressamente per la prima volta, in una sua opera — che, portando l’autrice al desiderio estremo di volersi annientare fisicamente, attraverso la negazione della propria corporeità e consistenza materica, perseguita astenendosi dall’assumere cibo — conoscendo pertanto l’anoressia —, le consente di scoprire — sembrerebbe quasi per caso o “miracolosamente” — l’ebbrezza derivante dalla pratica quotidiana della scrittura, realizzata prima in Francia, poi in Giappone, per sopravvivere alla violenza e ritrovare sé stessa. Una ebbrezza paragonabile a quella del volo, per gli uccelli, cui Nothomb — come è noto — si dedica da anni con una costanza e dedizione quasi maniacali — quattro ore ogni giorno dalle quattro del mattino — e ora ci spiega il perché: scrivere è sempre una questione di vita o di morte — come diceva Cocteau, citato più volte nel testo, e come ironicamente da anni la stessa Nothomb ripete ai suoi fedelissimi e amati lettori, quando, ammiccando nel corso delle presentazioni dei sui libri, afferma di “cercare un’uscita”, una via d’uscita dall’esistenza, attraverso la scrittura.

Epifania di scrittrice

Scrivere è pertanto lo strumento, il mezzo privilegiato per non soccombere all’annientamento del dolore e riprovare ogni volta, ogni giorno, l’impossibile: la propria metamorfosi, grazie alla quale provare l’estasi della leggerezza, della visione laterale, dello stupore e della meraviglia derivanti dallo staccarsi da tutto ciò che grava sull’esistenza e tiene ancorati alle meschinerie e bassezze, terrene e umane.

Psicompompo, allora, è anche un manifesto di poetica, in cui Amélie Nothomb ci svela — anche questo avviene, straordinariamente, per la prima volta in una sua opera — non solo che cosa sia per lei la scrittura, ma ricostruisce anche la genesi della propria epifania di scrittrice — che affonda appunto le radici nella rielaborazione della violenza subita da adolescente —,  e infine si concentra sulla definizione e l’analisi della natura psicopompa della propria scrittura — e, in definitiva, della propria stessa esistenza —, attraverso quella che potrebbe essere definita una trilogia — la trilogia psicopompa di Amélie Nothomb —: Sete, Primo sangue, Psicopompo, gli ultimi tre libri pubblicati, in cui l’autrice belga, attraverso la parola e l’inchiostro,  accompagna nel regno dei morti — proprio come Ermes psicopompo — alcune anime esemplari, che le stanno particolarmente a cuore: quella di Gesù, narrato nelle sue ultime ore di vita, in Sete; il padre Patrick, raccontato nell’arco temporale compreso fra i mesi che precedettero il concepimento e la nascita della figlia Amélie e la propria morte, in Primo sangue; sé stessa, dalla più tenera età, trascorsa in Giappone, alla rinascita attraverso la scrittura e il successo letterario, in Psicopompo.

In dialogo con l’aldilà

In quest’ultimo, Amélie Nothomb, tuttavia, si spinge ancora oltre, rivelando che la scrittura e, dunque, la stessa vita per lei sono anche esperienza psicopompa, un’esperienza in cui ci si affianca — accompagnandole — alle anime dell’aldilà, in un dialogo che sembra farsi addirittura più fitto, denso e schietto, sincero, di quanto fosse e sia quello intrattenuto fra i vivi. È quanto è accaduto — ci spiega ora Amélie Nothomb— in Primo sangue, dal momento in cui ha prestato attenzione e l’orecchio alla voce del padre che, post mortem, l’ha raggiunta e le si è rivelato attraverso una voce remota, che le ha chiesto ascolto e le ha suggerito le pagine di quel testo e, soprattutto, ha colmato il vuoto di parole e affetto esternato ed espresso verbalmente, che aveva caratterizzato il loro rapporto, mentre lui era in vita, curando e sanando  in questo modo definitivamente la relazione tra padre e figlia.

L’ultima parte di questo straordinario testo nothombiano — qualsiasi sia il suo genere — è davvero la più coraggiosa, tra le tante coraggiose che l’autrice, nel corso degli anni, ha scritto. Qui la sua voce si fa non solo e non tanto poetica e intima, ma addirittura mistica, perché suggerisce a ciascuno di noi che il confine tra la vita e la morte non è poi così invalicabile — basta volerlo lambire ed eventualmente varcare — e che chi non è più visibile ai nostri occhi, può esserci invece ancora accanto e avere parole e discorsi da offrici — basta predisporsi all’ascolto.

Anime morte tra coraggio e ironia

Amélie Nothomb, in ogni caso, è sempre e comunque Amélie Nothomb e, oltre a essere coraggiosa, è anche estremamente ironica e sarcastica, così, mentre ci parla delle tre voci di “morti”, cui dà ascolto e con cui si intrattiene, le quali appartengono alle persone a lei più care, accenna anche a quella che ha rifiutato di ascoltare, perché appartenente a un defunto che già in vita non le andava molto a genio. E, in definitiva, ci mette così in guardia dalle anime defunte desiderose di contatto, in quanto tra di esse possono anche esserci le persone antipatiche, quelle che già prima del trapasso non ci piacevano e ci infastidivano e che — ci insegna e consiglia Amélie Nothomb — si possono serenamente mettere a tacere, dicendo loro di lasciarci stare e, in caso si facessero insistenti, limitandosi a ignorarle. Si stancheranno e ci lasceranno stare, parola di Amélie.

La letteratura è vita e, in quanto tale, ci parla anche di ciò che è dopo e oltre.

Per la trentaduesima volta possiamo e dobbiamo essere grate e grati a Amélie Nothomb per averci donato le sue parole e un nuovo libro.

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